venerdì 15 settembre 2017

"Pensato" non vuol dire "detto"...

Ormai mi è chiaro, il “pensiero”non ha subito danni: scorre, lineare e consequenziale, sui binari di sempre; è la sua traduzione in parole che si è inceppata. Penso più e dico meno, se vengo interrotta quando parlo “perdo il filo”, quel vocabolo, corretto a livello terminologico, mi muore sulla punta della lingua un secondo prima di pronunciarlo e se torno al pensiero scopro che manca pure là. E’ desaparecido. Introvabile. Riapparirà sulla scena quando e come vorrà …
I miei figli mi ripetono: “Ma no, mamma, sei sempre stata così: distratta, con la testa fra le nuvole …” e aggiungono: “Ricordi quando alludendo a Santa Teresa di Calcutta la chiamasti Santa Maria di Bombay?” E ridono, quei disgraziati … Insomma sarei stata da sempre una persona che fa una cosa e ne pensa un'altra. Visceralmente dubbiosa, sempre a macinare risposte a domande che ne presentavano un ventaglio, avevo un “cervello” agile, efficiente, a volte spumeggiante, e una capacità di fare più cose contemporaneamente, mescolandole senza confonderle (multitasking?) che ora non esiste più. Purtroppo.
Dipende dalla malattia? Dall’età? E quanto dall’una, quanto dall’altra?
Il “pensato” si traduce in “detto” per consentire la comunicazione tra esseri umani, per dare consistenza alla socialità… L’imbarazzo che mi procurano questi nuovi limiti , unito ai tanti altri impedimenti di cui la malattia è responsabile, mi porta all’isolamento, più scelto che subito …
Succede anche a voi?

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