venerdì 5 giugno 2015

Equipaggi nello spazio...

Oggi posso dire con una certa serenità che sono uscita dalla gabbia nella quale la malattia di Parkinson(e la mia iniziale incapacità di gestirla) mi avevano relegato. I medici, con i quali ho avuto rapporti scarsi, poco empatici e a volte tempestosi, in quella gabbia mi avevano rinchiusa, e poco o nulla era stata in grado di fare la mia famiglia per farmi uscire da quell'inferno. Stralunati come me dalla diagnosi, i miei familiari avevano reagito con la fuga, l'aggressività nei miei confronti e/o un ostinato rifiuto ad affrontare una malattia (neurologica, progressiva e degenerativa) che soltanto a nominarla fa accapponare la pelle.

Confusamente, come una gallina cieca alla ricerca del suo chicco, ho avvertito l'ostinato bisogno/desiderio di potermi confrontare, farmi consolare e ottenere delle informazioni in merito alla mia malattia. A queste diverse necessità hanno risposto, in modo eccellente,  i GRUPPI PARKINSONIANI che sono sbocciati, nel nostro Paese,  come margherite sui prati in primavera. Animati (tutti?) dalle migliori intenzioni.

Questi gruppi, che si sono dati delle regole, un organigramma, obiettivi e strumenti per conseguirli, hanno acquisito una fisionomia diversa e distinta uno dal'altro.

Alcuni hanno puntato soprattutto sulla necessità di fornire informazioni sulle problematiche  relative alle difficoltà che incontra un parkinsoniano ancora impegnato sul fronte del lavoro: valutazione del deficit da parte delle Commissioni di invalidità, documentazione da fornire, individuazione dei farmaci a carico del Servizio sanitario e ticket, corsi riabilitativi gratuiti o a pagamento, fornitura di sussidi (materassi per invalidi, girelli, stampelle, poltrone, eliminazione delle barriere architettoniche nei condomini di residenza, nonché computer e automobili soggetti non solo a riduzione dell'Iva ma anche a deduzione della imposte da pagare nella dichiarazione annuale dei redditi).

Altri hanno puntato soprattutto sulla necessità di dare «visibilità» a una forma di handicap che non è conosciuta per ciò che effettivamente è, dando adito a discriminazioni spesso offensive che portano a confondere il malato parkinsoniano con un alcolista, un drogato, un demente, o comunque con persona non in grado di intendere e volere, a causa delle manifestazioni esteriori della malattia ( tremori, balbettii, incertezza nella deambulazione, espressività del volto ridotta o mancante, fissità dello sguardo, lentezza di riflessi ecc).

Altri, ancora, hanno privilegiato il contatto tra i soci, gli incontri, la valorizzazione di rapporti empatici puntando a spronare gli iscritti a combattere la malattia e a non arrendersi.

Non mancano i gruppi che si propongono la valorizzazione dei talenti nascosti che il Parkinson, o meglio i farmaci che lo curano, sembrerebbe non solo svelare ma anche (complice la terapia?) potenziare, stimando che la creatività possa avere una valenza terapeutica da non sottovalutare.   

Ciò detto, quale sarebbe il problema? Alcuni dei responsabili di queste associazioni, al grido di «l'unione fa la forza», ritengono che si potrebbero riunire tutti i gruppi sotto un'unica bandiera, standardizzando regole e obiettivi, con un organigramma ben studiato e informatizzato. Altri, resi diffidenti dalle difficoltà già sperimentate nei gruppi di dimensioni ridotte incontrate nell'armonizzazione di istanze diverse, si dichiarano restii ad aderire a questo progetto. L'unione fa indubbiamente la forza, specialmente in un mondo che la globalizzazione ha abituato ai «grandi numeri», ma richiede la capacità (e la volontà) di rinunciare al proprio potere in favore di un potere di gruppo e in ossequio al principio democratico che fa vincere la maggioranza. Richiede che non ci sia un «capo», o che sia un primus inter pares. Dare una «struttura» non rischierebbe di burocratizzare, spegnendola, la fantasia, la spontaneità, l'entusiasmo dei gruppi? E se invece i gruppi, mantenessero la loro autonomia e si stabilissero solo incontri periodici per «confrontare» i risultati conseguiti?

Per formare gli equipaggi da inviare in missione nello spazio, gli scienziati americani si erano accorti che non potevano inviare un solo astronauta. Si intristiva. Due, già meglio, anche se litigavano. Tre, impensabile: due si coalizzavano, isolandolo, contro il terzo. Quattro? Si combattevano due contro due, ma almeno ad armi pari…


Ahahahahah, il problema è serio e l'alternativa antica quanto il mondo: l'Europa e la difficoltà di renderla autenticamente unita, ci insegnano qualcosa. Io mi sono limitata ad alcune riflessioni…