25 aprile 1945. Era una
giornata che preannunciava l'estate o l'aria sapeva ancora d'inverno, di neve
non ancora sciolta? Con quale incredulo stupore si accoglievano la fine della
guerra e la libertà? Di cosa sa la libertà? Si pensava al futuro, non più parola
senza senso, ma promessa, opportunità da cogliere, diritto a essere, vivere. Si
pensava ai figli, ai mariti, agli amici morti, al prezzo pagato per quella
libertà così fragile, così difficile da definire, così nuova e sconosciuta?
Io appartengo alla
generazione nata in guerra, cresciuta a latte avvelenato dalla paura delle
madri, dal dolore, dalla fame, cresciuta a ninne nanne che si mescolavano al fragore delle
bombe nei rifugi umidi, freddi, dove stretti gli uni agli altri si aspettava di
morire o salvarsi senza poter fare nulla, attendendo soltanto che la Morte
decidesse chi prendere, chi fare a pezzi in quelle notti da incubo.
Io non ricordo: ero troppo
piccola.
Ho chiesto. Non ho avuto
risposte. Dell'orrore non si riesce a parlare, il terrore non si vuole
rievocare. Si cercava, si voleva dimenticare…
Mi piacerebbe sedermi in una
vecchia osteria, un bicchiere di vino e un partigiano, carico di anni e di ricordi, davanti che mi
raccontasse di quel giorno, di quei giorni.
Fuori le fanfare, le
ghirlande, la retorica dei discorsi ufficiali.
Dentro il dialetto, la
commozione, l'orgoglio di allora, lo sdegno di oggi…