Lucia, posso darti del TU? Quell'uomo che avrà spergiurato di amarti (lo fanno tutti), quell'uomo che non ti ha mandato un mazzo di fiori ma due sicari, incaricati di uccidere non te ma la tua bellezza, non è riuscito a toglierti la grazia, quell'eleganza piena di riserbo con cui ti muovi e sorridi. Nemmeno il sorriso è riuscito a toglierti, men che meno la grinta, la voglia di giustizia e quel coraggio che ti fa di scostare i capelli dal volto, non per esibirlo o imporlo, ma solo per farlo di nuovo tuo (e nostro), dopo che le le mani pazienti di altri uomini (per fortuna non sono tutti eguali) lo hanno ricostruito.
lunedì 28 aprile 2014
Scribacchina
Lei era una che scriveva, ma non da sempre, soltanto da quel giorno di settembre, luce chiara che svelava la stanza, rumore
di traffico a spezzare il silenzio. Mentre il medico si schiariva la gola, aveva pensato «Ha gli occhi di un merlo».
Il merlo si era finalmente deciso a parlare.
"E' Parkinson" aveva detto.
Silenzio.
La parola era rimbalzata sulle pareti della stanza. Parkinson? Son,
son, son,… Galleggiando sul rumore del traffico, aveva invaso le sue orecchie,
bloccato la glottide incerta tra digerirla e urlarla. Una mano grassoccia aveva cercato la sua in uno sfiorarsi rapido di dita.
I malati fanno ribrezzo. Paura.
venerdì 25 aprile 2014
L'orgoglio di allora, lo sdegno di oggi
25 aprile 1945. Era una
giornata che preannunciava l'estate o l'aria sapeva ancora d'inverno, di neve
non ancora sciolta? Con quale incredulo stupore si accoglievano la fine della
guerra e la libertà? Di cosa sa la libertà? Si pensava al futuro, non più parola
senza senso, ma promessa, opportunità da cogliere, diritto a essere, vivere. Si
pensava ai figli, ai mariti, agli amici morti, al prezzo pagato per quella
libertà così fragile, così difficile da definire, così nuova e sconosciuta?
Io appartengo alla
generazione nata in guerra, cresciuta a latte avvelenato dalla paura delle
madri, dal dolore, dalla fame, cresciuta a ninne nanne che si mescolavano al fragore delle
bombe nei rifugi umidi, freddi, dove stretti gli uni agli altri si aspettava di
morire o salvarsi senza poter fare nulla, attendendo soltanto che la Morte
decidesse chi prendere, chi fare a pezzi in quelle notti da incubo.
Io non ricordo: ero troppo
piccola.
Ho chiesto. Non ho avuto
risposte. Dell'orrore non si riesce a parlare, il terrore non si vuole
rievocare. Si cercava, si voleva dimenticare…
Mi piacerebbe sedermi in una
vecchia osteria, un bicchiere di vino e un partigiano, carico di anni e di ricordi, davanti che mi
raccontasse di quel giorno, di quei giorni.
Fuori le fanfare, le
ghirlande, la retorica dei discorsi ufficiali.
Dentro il dialetto, la
commozione, l'orgoglio di allora, lo sdegno di oggi…
venerdì 18 aprile 2014
Il dottor Emme
Chiamerò il mio medico di base «dottor Emme» poiché io mi rivolgo a lui chiamandolo dottore.
Lui mi chiama Laura.
Quando ho un problema di salute (e ne
ho tanti) è la prima persona alla quale mi
rivolgo. Lui minimizza, non mi visita. Mai. Mi prescrive un farmaco per
eliminare la sintomatologia dolorosa e mi congeda con un "Fammi sapere". L'ultimo problema è costituito da un persistente, invalidante
dolore alla schiena. E iniziato sei mesi fa... Ho utilizzato cerotti,
ultrasuoni, ginnastica, massaggi,
iniezioni... Nulla, il dolore è sempre lo stesso. Non cammino quasi più perché,
tra le varie patologie che mi assediano, c'è anche il Parkinson. Torno dal dottor Emme e gli faccio sapere…
Suggerisco una visita specialistica dalla fisiatra che mi
segue da anni. I tempi d'attesa sono lunghi. Troppo lunghi, mesi. Pago la visita e ottengo un
appuntamento per la settimana successiva.
La dottoressa «Bi» è simpaticissima; mi chiama Laura anche lei
e mi dà del Tu, ma l'abbraccio in cui mi avvolge appena mi vede, le risate che
facciamo, la confidenza con la quale tratta il mio corpicino malridotto, sono
giustificati dalla nostra lunga conoscenza e dalla condivisione di una storia
difficile. (Fu lei a nutrire i primi sospetti che i miei disturbi non fossero «paturnie da menopausa», ma qualcosa di ben
più grave…)
Mi palpa, mi tasta, tende le mie gambe irrigidite… Rilegge,
pensosa, la documentazione che le ho portato (Moc e via discorrendo), poi
redige la lettera per il dottor Emme. Mi fa pure un'iniezione per il dolore e mi
suggerisce un farmaco contro gli spasmi che mi attanagliano da mesi le dita dei
piedi.
Esco dal suo studio con qualche dolore in meno e un abbozzo
di speranza… Chissà che quel farmaco, miracoloso per gli asini, non faccia
riprendere la marcia anche alla sottoscritta? Ma se così fosse, perché nessuno
me l'ha mai suggerito?
Il giorno dopo vado dal dottor Emme. E' di cattivo umore…
Sarà l'ernia jatale da cui è affetto?
Ne soffro anch'io, so che è molto noiosa, tanto da averlo
indotto a scrivere un avviso sulla bacheca
che spicca nella sala d'attesa in cui comunica ai pazienti che anche i
dottori possono essere nervosi… a causa delle loro patologie. L'invito è alla
pazienza. Di conseguenza io cerco di essere paziente e… comprensiva.
Sbuffa.
«Non ho capito cosa
ha scritto… qui» e gli porgo la lettera della collega.
Compita parole senza senso.
Mi restituisce la lettera e digita sul pc la ricetta per le
iniezioni.
«Perché non stampa?»
borbotta.
Preme a caso qualche tasto, mugugna infastidito, quindi
ottenuta la ricetta mi consegna il malloppo e m'indica la porta.
«E la radiografia?» chiedo.
Mi guarda, seccato.
«Vuoi proprio farla?»
E, senza darmi il tempo di rispondere, aggiunge: «Hai
l'osteoporosi, non è curabile! Devi tenertela e… »
«E… ? »
«A proposito, come stai?»
«Male!»
«Cosa ti ho appena detto?» dichiara soddisfatto.
Insisto. Voglio fare la radiografia.
«Almeno s'individuerà con certezza la causa» ribadisco.
«La causa, la causa… Le tue patologie non sono curabili, lo
vuoi capire?».
«Progressivs, degenerativa… Anche questa?» borbotto.
«Sì!» decreta. E sbuffa.
Lui!
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