giovedì 11 luglio 2013

Trieste, Trst, Trieszt, Triest...

Trieste è una città particolare della quale è facile parlare aderendo al cliché: il mare in primis, poi il Carso e, a ruota, le mule triestine lunghe di gamba e di lingua, il centro di Fisica... e via discorrendo, per concludere, mi sembra scontato, con la bora che soffia più o meno impetuosa sulla città che profuma di Mittteleuropa come un caffè viennese di Sachertorte. 
Io ne ho parlato spesso e, avendola lasciata a poco più di trent'anni, è abbastanza scontato che ne conservi  un'immagine legata, intrecciata a doppio filo, ai ricordi della mia giovinezza. In realtà, questa bellissima città,, perché sulla bellezza dei luoghi non si può non essere d'accordo anche dopo tanti anni - il Carso alle spalle,  il mare davanti, in cui si specchia e rispecchia vanitosa - se non dorme sugli allori (come una  Bella addormentata nel bosco) certo sonnecchia, alternando occhiate compiaciute a un'immagine di sé, che la soddisfa, a garbati sorrisi  (evitiamo la scontrosa grazia che le ha attribuito uno dei suoi illustri figli) con i quali ricambia i complimenti che le vengono indirizzati.
E' città che non sa volgere lo sguardo al futuro preferendo vivere di passato, di ricordi, come si può desumere, anche da esempi banali, scorrendo ad esempio la posta dei lettori, fatta pervenire al Piccolo - il quotidiano più letto in città -, e scoprendo che dietro a un "foresto" non si nasconde un marocchino o un polacco o un cinese (come sarebbe ovvio ipotizzare in qualunque altra città italiana) bensì un istriano, uno dei discendenti di quell'ondata di profughi che alla fine della guerra abbandonò l'Istria temendo le rappresaglie degli slavi e che è, a tutti gli effetti, un italiano. Di leggermente diverso avrà forse il dialetto, più simile al veneziano, poiché la Serenissima dominò per secoli sull'Istria e sulla Dalmazia, ma non altro, eppure... eppure la città è ancora lì a considerare i friulani i cugini di campagna, gli sloveni "i s'ciavi" e Roma "un po' ladrona", poiché non dobbiamo dimenticare che la prima forma di "leghismo" nell'Italia settentrionale vide la luce a Trieste con il "Melone", lista autonoma che coagulò il consenso attorno a un programma comune incentrato sul rilancio della città, con l'ambizioso obiettivo di riportarla all'antico splendore. Come la rivale Venezia, si considera città dal passato imponente, ma la sua storia ci rivela che non molto ebbe a che vedere con la raffinatissima nobiltà veneziana, i suoi cicisbei, la musica di Benedetto Marcello, Vivaldi e Albinoni  (tanto per citarne alcuni) che nei palazzi lungo il Canal Grande, tra parrucche incipriate e dame invitanti che occhieggiavano dietro ai ventagli, riempiva di sonorità aggraziate  i salotti dove si ballava il minuetto e si discuteva dell'ultima commedia di Goldoni mentre, appena più in là,  l'Arsenale sfornava navi a getto continuo, come un forno biscotti, e nel Senato veneziano la più ricca, raffinata e incredibile tra le "Repubbliche marinare" faceva esercizio di democrazia.
Diversa storia vanta Trieste che si sviluppò soprattutto come città mercantile, quando Carlo VI -  padre di Maria Teresa d'Austria che ne avrebbe continuato la politica - avendo deciso di farne lo sbocco sul mare dell'Impero le attribuì la qualifica di porto franco, aprendo la strada allo sviluppo di una solida economia basata sul porto e i commerci. 
La città decollò e la  sua popolazione aumentò notevolmente assumendo caratteristiche di cosmopolitismo di cui oggi non sembra aver conservato che poche tracce. Attratti dalla possibilità di trovare lavoro, approdarono a Trieste in ondate successive greci, sloveni, serbi, macedoni, oltre ai burocrati austriaci, selezionati accuratamente a Vienna, e mandati a gestire una delle province più turbolente del'impero. Incalzati dai pogrom russi ma rassicurati dalla tolleranza dimostrata dalla città nei confronti delle diverse etnie andarono ad arricchire la comunità ebraica, già numerosa ma formata soprattutto da ebrei sefarditi, gli ebrei askenaziti provenienti dall'Europa orientale, la componente più colta e ironica del mondo ebraico. Mi chiedo se i gruppi etnici che ancora vi convivono si siano mai fusi. Nonostante le tante bandiere e i molti cimiteri, sono state più numerose le triestine che hanno sposato soldati americani che quelle che hanno contratto matrimonio con uno slavo. La città mitteleuropea crogiolo di razze apparterrebbe dunque al cliché? Direi di sì, perché, se ripenso agli anni vissuti a Trieste, odo un mormorio stizzito, avverto il sapore di rancori ancora vivi, sento serpeggiare la diffidenza. Le ferite aperte dalla guerra, quei quaranta giorni con i neozelandesi fermi alle porte della città stremata, in attesa, fanno ancora male. Cosa avvenne in quei giorni? I soldati di Tito fecero piazza pulita delle ultime sacche di resistenza nazifascista. Non solo. La contabilità della guerra esigeva che si quadrassero i conti? E questo avvenne e il Carso diventò famoso in tutto il Paese per le sue foibe. Il comandante tedesco della città, insediatosi dopo che la Germania aveva istituito la Adriatischen Kustenland un rapporto inviato al fuhrer accenna alle molte delazioni che permisero ai tedeschi d'imprigionare partigiani italiani e sloveni e catturare cittadini ebrei, molti dei quali finirono gasati nella Risiera triestina, l'unico forno crematorio che funzionò nel nostro Paese.
Questa è storia di cui ho sentito narrare da chi la visse in prima persona e ancora ricordo le discussioni accesissime sulle foibe che scoppiavano a casa di mia nonna, quando ci si riuniva per le festività natalizie o pasquali. Noi bambini venivamo spediti a giocare nelle altre stanze mentre le voci salivano d'intensità, fino a quando, più grande, chiesi e ottenni il permesso di ascoltare e fare domande. Quelle delazioni pesano ancora e forse ancora i sopravvissuti cercano, frugando nel passato alla ricerca dei responsabili e delle loro colpe. Quanto di ciò che avvenne è da attribuirsi alla guerra e quanto è riconducibile a una responsabilità non collettiva, ma personale? Personalmente non credo che possa emergere, in circostanze eccezionali, se non ciò che siamo, e io odio la guerra proprio perché legittima ciò che la pace ci obbliga a censurare: la bestia che è in ognuno di noi. "Cità de fasisti" urlava mio padre, concludendo iroso "e de botegheri". Niente a che vedere con la nobiltà veneziana intenta ballare il minuetto, a Trieste la borghesia  nascente si scatenò nella ciga, e quando si consolidò assunse quelle caratteristiche di solidità, ricchezza e moderazione che caratterizzano questa classe sociale Quelle discussioni, così intense e appassionate mi fecero capire che appartenevo alla gente di frontiera: confini reali, quelli che passano tra le case e tagliano i cimiteri, ma anche confini immaginari, limiti che  avrebbero sempre marcato in me, confondendoli, territori della realtà e della fantasia. Vivere a ridosso di un confine segna, inevitabilmente, ma abitua al confronto con "il diverso" che sta al di là del "muro", allena all'insicurezza perché è costante la paura dello scontro e, contemporaneamente, invita a violare il divieto e, quindi, un po' tutti i divieti. Dà una sensazione di provvisorietà che invita a godere il presente, non incita al cambiamento, arpiona al passato, ai rimpianti, alla malinconia che il pudore colora d'ironia, la caustica ironia dei triestini...
Magris la chiamerà, identificandone i tratti, "identità di frontiera" a legittimazione di una diversità innegabile, orgogliosa e mai  priva di un briciolo di follia.