martedì 20 agosto 2013

Donne e ironia

Leggo un blog, seguitissimo. E' un diario, scritto da una donna, che tratteggia con ironica ferocia il tran, tran di una vita familiare dove nulla di ciò che deve esserci manca. Ci sono tre figli, un marito (perso tra libri e sogni, ché a lui "spetta" cambiare il mondo), e una moglie/mamma giornalista  (non scrive di moda o shopping ma di finanza) che, un po' per gioco e un po' per non morire, ha cominciato a descrivere il suo vissuto quotidiano in un blog.
Una donna con tre figli, un lavoro (impegnativo), un marito che appare e scompare come le acque carsiche, domiciliata a Milano (la residenza è in posti diversi, non dimentichiamo che il mondo è grande, globalizzato e in una manciata di ore si arriva a New York come in Giappone),  deve essere non brava, bravissima, per riuscire a farcela... Ma quanto più è brava, colta e intelligente, tanto più coglie l'ambiguità profonda del suo potere. Non può non coglierla e... non può non starci male e paradossalmente bene, benissimo.
Può scegliere tra la lagna e l'ironia. Lei, Claudia, sceglie l'ironia e fa centro. Il suo blog, nel giro di pochissimo tempo, decolla... Lei è veramente brava, scrive due libri (che non ho letto e non posso giudicare) di successo. Com'è facile intuire non trattano di finanza...
Ieri, ho passato il pomeriggio a leggerla e a ridere. Di gusto. Dopo un po' però nelle mie risate ho avvertito una punta di amarezza, una malinconia che, ostinata, tentava d'insinuarsi. L'ironia è un modo educato, intelligente, urticante ma non pericoloso, di nascondere il dolore. E la rabbia che a quel dolore dà vita.
Le donne, ancora tante nonostante la crisi,  che ogni giorno con incredibile forza, con tanta fatica, con molta intelligenza, si spezzano e si ricompongono, passando da un ruolo a un altro, conoscono le incertezze, i dubbi, i sensi di colpa che queste vite si portano appresso. Non tutte ce la fanno, alcune crollano, lasciano il lavoro, rinunciano alla maternità, vanno in analisi, mentre altre, invidiose, osservano le vincenti: quelle che riescono a fare tutto, a cambiare registro con immediatezza (due minuti prima, sul lavoro, professionali ed efficienti a valutare "razionalmente", due minuti dopo a infornare una torta di compleanno, condita  d'amore) mantenendo sul volto "quel" sorriso. Perfetto.
Quando una situazione non puoi cambiarla te la fai piacere. E' su questo che si basa, in fondo, il masochismo femminile. Il cambiamento, auspicato a parole, è doloroso, pieno d'insidie, pericoloso e, in ultima analisi, difficile da realizzare. Tanto vale adattarsi, riuscire a cambiare registro, sgusciare, scivolare, farsi strada con il sorriso e l'ironia. Claudia si è posta il problema - è troppo intelligente per non farlo - ma ha deciso che stiamo vivendo una fase di transizione, che tutto andrà a posto. Prima o poi. Automaticamente.
Non nascondo che mi sarebbe piaciuto vederla usare la sua sapiente, graffiante ironia applicandola non solo a quel micro mondo degli affetti che è la famiglia, ma alla finanza, a questo mondo tipicamente maschile che lei ha scelto di frequentare per lavoro e nel quale penso sia assolutamente professionale. O sbaglio?
In questa società, che non è a misura di bambino, anziano, malato e - ripeto - donna, adattarsi è giusto o è soltanto vincente?
L'ironia che pervade questo mondo virtuale, al di là della sua indubbia piacevolezza accende la rabbia, che è alla base dell'indignazione, o l'annacqua, spegnendola? So, ho capito tutto, ma protesto con misura, con stile; insomma mi adatto. E nemmeno mugugnando, sorridendo. Non è forse un po' troppo?

venerdì 16 agosto 2013

Donne

Quante donne  spente dall'obbedienza e dal silenzio come mozziconi di sigaretta nell'acqua torbida di una pozzanghera! - pensò, passando energicamente lo straccio sul bancone del bar. Donne che, evocate dalla memoria, le sfilavano davanti agli occhi.  A partire dalle sorelle di suo padre... Le aveva mai sentite urlare? Urlare?, Dio ci guardi, nemmeno alzare la voce. E le zie acquisite? Anche loro mute, ad esclusione di quel cinguettio infantile - da bambine inchiodate all'infanzia -  che accompagnava la cerimonia del tè o le prove di un abito nuovo dalla sarta. Balbettii che s'incrociavano con quelli dei figli bambini, imitandoli. No, lei no, lei era nata diversa, forse a causa di quel sangue nuovo, scuro e forte, sangue africano, che le scorreva nelle vene, quel sangue che, mescolandosi a quello del padre, anemico e chiaro come la sua pelle macchiata da efelidi appena più scure e percorsa da una peluria rossastra, aveva fatto di lei una mulatta. Altera, dritta come un fuso, del colore di una castagna matura, i capelli ricci ma chiari, quasi un'aureola luminosa a incorniciare il volto di una santa. Suo padre l'aveva amata, anche se non aveva sposato sua madre, licenziata in tutta fretta appena le suo forme, arrotondandosi, avevano creato, in casa dell'avvocato, i primi sospetti. E così lei era nata in Svizzera e non era stata riconosciuta, ma il padre, fino a quando era vissuto, aveva provveduto a lei e alla madre. Poi c'era stato l'incidente; in quella notte di pioggia il telefono aveva squillato a lungo... Dopo il funerale baci, abbracci, ma soltanto per ritrovare in lei una traccia, anche se labile, del fratello, del figlio scomparso e calmare, chetare rimorsi tardivi e dolorosi.
Sua madre era tornata a vivere nella casa dell'avvocato, portandosela dietro e ricominciando a fare quello che aveva sempre fatto: la serva. Quando andava  a fare la spesa, la figlia per mano, la gente del quartiere al loro passaggio mormorava, sussurrava... Nei loro occhi curiosi affiorava una domanda: quella mulatta da dove veniva?, ma la famiglia era potente e la gente si limitava a chiacchierare a voce bassa, senza farsi sentire.
Lei, regina senza corona in una casa estranea, viziata e coccolata ma mai accettata, aveva dimostrato da subito di avere un carattere forte, indomito, e un'intelligenza particolare che le dava la capacità si apprendere qualunque nozione senza fatica. Seduta sulle ginocchia dello zio notaio o dello zio avvocato, il  più conosciuto della città, era cresciuta tra codici, leggi, cause, sentenze e ricorsi. Non l'avevano fatta studiare, ma lei, con quella cultura giuridica appresa per osmosi, crescendo era diventata un punto di riferimento per le donne del quartiere.
Faceva quel lavoro, la barista, nonostante le proteste della famiglia, proprio per incontrarle..., e quelle donne, mute come pesci, con lei si aprivano, prendevano coscienza dei loro problemi, e la ribellione, che anticipa il coraggio di cambiare, si accendeva nei loro sguardi, prendeva forza... Qualcuna si era sottratta alle botte, alle minacce e alle ingiurie. Lei, come poteva, spesso ricorrendo alle conoscenze dei professionisti di famiglia, era riuscita ad aiutarne alcune, a dare un tetto a qualcuna.
Una di loro, badante presso un anziano imprenditore che, dopo alcuni anni, l'aveva sposata, aveva ereditato, alla morte del marito, una cospicua fortuna. Ora, le dava una mano, aprendo la sua casa, a qualsiasi ora del giorno o della notte,  a donne con qualche livido di troppo che, spesso, stringevano tra le braccia o tenevano per mano bambini terrorizzati come uccellini presi a fucilate.     
(continua...)

domenica 11 agosto 2013

L'amore è come il colera?





Ho appena finito di rileggere "L'amore ai tempi del colera" di Marquez e sono ancora immersa in questa storia che raccontata dal protagonista ormai vecchio, ripercorre passo dopo passo la strada di una vita, la sua, dominata non dall'amore ma da "un amore" assolutamente unico, non per forza e intensità, caratteristiche che sono proprie di questo sentimento, ma per durata. Sappiamo che la passione quando si accende, divora tutto al suo passaggio come un incendio, ma sappiamo anche che basta una pioggia a spegnerla… Ma per Florentino Ariza non è così: davanti ai suoi stanchi occhi di vecchio, passa tutta la sua vita. Senza infingimenti, senza falsi pudori Marquez non solo parla di quella malattia  atroce che è la vecchiaia, ma concentra la sua attenzione su quello che è ancora un tabù: la sessualità tra… anziani, sì perché un vecchio può amare, ma solo un anziano desidera. Anziano è vocabolo usato in biologia, psichiatria, sociologia, medicina, anziano non evoca certamente il letto, se non collegato alla malattia.
Due vecchi che camminano esitanti per strada tenendosi per mano suscitano tenerezza, ma se li vedessimo baciarsi contro il muro di una casa o se, e non soltanto nei loro appassiti occhi, dovesse accendersi l'incendio della passione?
Conoscendone la forza, la società ha sempre cercato d'ingabbiare il desiderio. Per fare l'amore si è sempre o troppo giovani o troppo vecchi, o sposati, o fidanzati, o "non si può cambiare uomo come si cambia vestito" o "per una sera soltanto è da sgualdrine" o subito al primo incontro non è "serio"…
La chiesa, conclamata guardiana del costume, stabilisce "uno (marito o moglie) e per sempre, finché morte non vi divida" e ai propri (suore e preti) vieta il matrimonio. Sarà anche a causa di questo divieto, tassativo, che codesta istituzione si è preservata, ancora pimpante, a dispetto dei suoi duemila anni di storia?
Marquez, temerario ma accorto, si addentra in questo terreno minato e lo percorre con il sorriso sulle labbra, ridendo ma mai deridendo e, soprattutto, intuendo una nuova problematica: che senso ha allungare la vita creando, grazie alla scienza, una nuova stagione, una sorta di limbo, sempre più ampio, in cui non si lavora, non si ama, non si fanno figli… Si vegeta, in appartamenti troppo grandi, troppo ordinati, troppo vuoti, parcheggiati davanti a uno schermo televisivo, agli ordini di una badante, in attesa della morte?
La vitalità caraibica di Marquez alita sentimenti, emozioni, sesso, restituendo Vita, quella vera, a questa coppia, Fermina e Florentino, che protetta dalla bandiera gialla del colera (è la voglia di vivere, il sesso tra vecchi forse meno pericoloso del colera?) si gode un'incredibile, tenera, appassionata luna di miele. Tra vecchi. 

sabato 10 agosto 2013

L'estate furoreggia...

Nella casa libri. Dappertutto. E silenzio, e la sensazione di aver parlato a sufficienza. Ogni nuova parola sarebbe solamente una ripetizione monotona e stantia. Repetita iuvant, ma sua nonna Angelina diceva sempre che «Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire»… E così, quasi senza rendersene conto ha smesso di parlare. Pochi se ne sono accorti: la gente non ascolta, si ascolta.
E' tornata alla narrativa, a quel suo mondo fatto di fantasia che le dà conforto. Ha ripreso in mano libri già letti provando nella rilettura un piacere più intenso, fine a se stesso, quasi il tempo avesse placato quella sua avidità di conoscenza, quel bisogno di ottenere risposte.
Anche alla solitudine si è abituata: alla comodità, all'assoluta libertà che le concede. Ha ripristinato il letto a due piazze: è stato come passare da una seggiola a un trono. Su quel letto mangia, legge, scrive, lavora all'uncinetto e, naturalmente, dorme. Ma, come la sua gatta, alle ore più disparate: con la testa sulla pagina di un libro che stava leggendo o tra briciole di pane e appunti, senza essere interrotta o disturbata da nessuno, svegliandosi alle prime ore del mattino per spiare, dopo essere uscita in tuta, nella notte che sbiadisce, l'arrivo del giorno, seduta su un muretto, le colline che prendono forma, i campi che il sole inonda. Lo fa soprattutto d'estate.
Panettiere e giornalaio per primi alzano la serranda e il profumo dei  croissant e dei giornali appena sfornati invade la strada. Qualche cane, trascinandosi dietro arruffati padroni dagli occhi gonfi di sonno, spisciotta sulle aiuole fiorite. Le prime imposte si aprono, le prime macchine aggrediscono l'asfalto. Un pianto di bambino, una radio che si accende, una donna alla finestra, la camicia da notte che le incornicia le spalle. Affiorano ricordi…
L'estate furoreggia e… muore. Comincia a morire. Nella calura si colgono presagi d'inverno, sapore di brume, di gelo.
Un'altra estate alle spalle, un inverno davanti. L'autunno, ormai desaparecido a livello climatico, vive nel ricordo, come prospettiva è incerto al pari di un miraggio nel deserto.
Non è tempo di mezze misure, non questo in cui viviamo