mercoledì 29 maggio 2013

Madre e figlia

Mia madre è morta in primavera, sono già passti cinque anni. Se l'è presa la primavera così come soffia via le ultime foglie secche, quelle rintanate negli angoli. Mi aveva stretto la mano, quella mattina all'ospedale, le dita fredde, nodose dei vecchi. Mani imperiose, usate per pulire cucinare, riordinare. Poco adatte ad accarezzare. Lei era fatta così: l'affetto lo mostrava tenendoti in ordine - colletto inamidato, scarpe pulite con il bianchetto - con lo stesso zelo che metteva nel tenere pulita, immacolata, la nostra casa. Non con le smancerie, come me con quei figli sempre attaccati al collo, a succhiarne l'odore, a cogliere il tepore della loro pelle, a interrogarli per sapere, per risolvere ogni problema, a viziarli in cento modi.
Siamo sempre state diverse lei e io. 
Non pensavo mi sarebbe mancata. Tanto. Non credo di aver capito molto di lei e forse per questo, vuotandone la casa, ho inconsciamente cercato qualcosa, una traccia che ne incrinasse l'immagine stereotipata che di lei mi sono sempre portata dentro. Non avevo mai aperto i suoi cassetti, frugato tra le sue cose e, ora, entravo nella sua intimità. Era tutto in perfetto ordine, ma questo lo avevo previsto. 
La giornata di primavera inoltrata dava alla  stanza un chiarore che ne evidenziava tutti i particolari. Un velo impalpabile di polvere rendeva gli oggetti opachi e il silenzio esasperava il cigolio delle porte dell'armadio che si aprivano, il fruscio dei cassetti che s'incastravano per riprendere poi a scorrere chiudendosi con un tonfo secco. Pile di asciugamani, lenzuola e tovaglie. 
I ricordi mi inondavano, precisi nei particolari, puntigliosi.
La tovaglia rossa, quella natalizia... L'ultimo Natale festeggiato insieme: i bambini eccitati a scartare i regali e lei che osservava Antonio, mio marito, uscito dalla stanza per rispondere al telefonino. Forse l'aveva capito allora, o forse già prima da quella tristezza di donna non desiderata che m'incupiva lo sguardo, dal livore con cui mi rivolgevo al padre dei miei figli. A volte può bastare un particolare a inquadrare il tutto. A me Antonio aveva dovuto dirlo, urlarmelo in faccia, che non mi amava più. Che c'era un'altra donna no!, l'aveva negato e io, imbecille, gli avevo creduto. E me l'ero presa con mia madre per quel suo volgare, inopportuno "Chi non mangia ha già mangiato" che mi aveva fatto imbestialire.
"Un collega... Non mi danno pace nemmeno a Natale... " aveva borbottato, ma la telefonata aveva scacciato la noia dai suoi occhi che ora brillavano di quel fuoco che spesso anima lo sguardo dei meridionali e che mi aveva colpita in lui fin dal nostro primo incontro.
Mia madre, al momento del brindisi, aveva evitato di incrociare il suo bicchiere con quello del traditore e, abbassando le palpebre, aveva evitato il mio sguardo...
Cosa cercavo in quella casa? Cosa speravo di trovare?
Ogni oggetto che mi passava tra le mani accendeva un ricordo, evocava parole, sguardi, emozioni. A volte mormoravo una domanda e, assurdamente, tendevo l'orecchio in attesa della risposta, la sua risposta. Ma solo il silenzio rispondeva, rendendo tangibile l'assenza, facendomi affogare in quella solitudine di orfana.
Si pretende tanto da una madre, forse troppo.
E si capisce tardi, e poco.

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