giovedì 1 marzo 2012

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°23 - Parte seconda)

Marilena camminava in silenzio accanto al marito.Anche senza guardarlo ne intuiva l'espressione calma e soddisfatta di sé. Come dargli torto? Ne aveva fatta di strada il ragazzotto scalzo e ignorante cresciuto lungo le sponde del grande fiume, nell'aia piena di donne, galline e bambini. Con tenacia, passo dopo passo, era arrivato in alto... Aveva ottenuto tutto ciò che aveva desiderato, tutto a eccezione di un figlio. Ma era a lei, a quel suo corpo troppo fragile da imputarsi la causa della mancata maternità. Probabilmente. O, forse, al rovello mentale che la agitava, al rifiuto che ormai provava per il marito... 
" Sei stanca?" 
"Un po'" rispose senza guardarlo.
'Sei sempre la più bella!' - lui pensò, sbirciandola con la coda dell'occhio. La luna la illuminava, accentuandone il pallore, l'aria fresca della notte tratteneva il suo profumo. L'avrebbe riconosciuto a occhi chiusi l'odore della sua pelle, anche tra la folla di una stazione ferroviaria... Sapeva che lei non lo amava più, ma era sicuro che lo temesse e, in fondo, era questo che aveva sempre voluto. Vedere negli altri tremare lo sguardo, farsi balbettante la parola; questo era del potere l'aspetto che più lo gratificava, più lo esaltava. La sua sicurezza ne usciva rafforzata, temprata. 
Il giorno successivo avrebbe lasciato la fabbrica, il suo ufficio e... Rapporti d'amicizia non ne aveva instaurati, cos'era dunque che gli sarebbe mancato? Un'onda rossa gli balenò davanti agli occhi, una gola bianca di colomba, l'odore del sapone da bucato prese il sopravvento sui profumi della notte, tutti, e l'immagine della rossa segretaria gli rimescolò il sangue nelle vene. La Rosina sì, la Rosina gli sarebbe mancata: quella donna era la sua unica distrazione, l'unica concessione fatta alla fantasia, all'immaginazione. Era il pane fatto in casa, la sfoglia rustica tirata dalle braccia solide delle contadine emiliane... La Rosina gli ricordava la sua infanzia, le albe sul fiume che la luce del giorno nascente illuminava, il gracidare delle rane e il canto delle cicale impazzite di sole. L'avrebbe  portata con sé, non ci sarebbero stati problemi. 
E poi, forse... chissà?
"Siamo arrivati". La voce di Marilena interruppe, brusca, il suo fantasticare.
Infilò la chiave nella toppa e aprì il portone.
L'ingresso li ingoiò, scuro ma rassicurante.
Con la leggerezza con cui si stacca una foglia dal ramo in autunno, un'ombra si staccò dal muro, si sgranchì le gambe, intorpidite dalla lunga attesa, e si allontanò. Guardinga.

(cotinua... ) 

Sono mortalmente stanca.

Il treno correva veloce inquadrando una pianura dai colori spenti, percorsa da un vento freddo, ancora invernale. Viaggiatori infreddoliti salivano alle varie stazioni, per piombare come sacchi sui sedili e riaddormentarsi. Accanto a me un signore elegante si attaccava al telefonino cincischiando fra le carte che teneva appoggiate sulle gambe... Parlava d'affari; sembrava angosciato, incerto sulla tattica da seguire. Una ragazza dall'aria spiritata, la testa un'esplosione di capelli come onde in un mare infuriato, andava avanti e indietro, diretta forse alla toilette, trascinando le gambe, il volto da Medusa attonita sotto l'intreccio dei capelli.
Il silenzio era rotto soltanto dallo sferragliamento del treno e dagli squilli dei telefonini ai quali seguivano conversazioni brevissime, stringate. I passeggeri sceglievano di dormire, ancora per un po'. Il controllore non si vedeva: forse anche lui dormiva...
A voce bassa, per non disturbare, scambiavo qualche parola con mia sorella. Era l'unica forma di comunicazione all'interno dello scompartimento. Poi la stazione zeppa di gente: tanta e di tutte le razze. La metropolitana che vomitava persone a getto continuo in un frastuono di rumori diversi, assordanti. Il suono delle voci ricacciato in gola mentre si corre, si corre - Dio sa dove - badando solo che non ti scippino la borsetta,  non ti facciano cadere, non ti rubino il posto passando davanti nella fila - l'ennesima - in cui ti trovi ingabbiato.
Io, con le mie mani impacciate, malate, rallento la corsa. Sento salire il fastidio, qualcuno sospira, seccato. Sbuffa. A me cade il bastone, quello che si china a raccoglierlo sembrerebbe dallo sguardo più  incline a spaccarmelo sulla testa - per eliminarmi, e non solo dalla coda che si va allungando a vista d'occhio - che a porgermelo per permettermi di stare in piedi. Mi scuso. Lui non risponde: sarebbero male parole.
Dove sono quei ragazzi che davano una mano alle vecchiette maldestre? Forse soltanto sui sillabari delle elementari, ammesso che esistano ancora i sillabari...
Arranco tra scale con elevatori non funzionanti, semafori per "normali" - che non prevedono i miei tempi da anatra azzoppata - e piazze che ricordavo ampie e ora mi appaiono sterminate. I ricordi mi aggrediscono dietro ogni angolo, riportandomi a tempi lontani.
Il dentista è velocissimo.
"Se ci sbrighiamo - si fa per dire - potremmo riuscire a prendere il treno dell'una e trenta" dice mia sorella. Avrei voglia di vedere "la piccola", ma le farei attraversare tutta la città nell'ora di punta... un panino rosicchiato in fretta, in macchina. Per vedere questa madre a brandelli?
Come un soldato durante la ritirata dal Don, mi rimetto in  marcia.
Sono mortalmente stanca.