mercoledì 22 febbraio 2012

Nati tra il '40 e il '45.

Per andare a scuola passava davanti a case bombardate, sventrate dalle bombe degli anglo-americani. C'era qualcosa di osceno in quelle stanze esposte al pubblico sguardo dove, ancora, qualche mobile a pezzi giaceva di sghembo, assurdamente in bilico, quasi proteso sul vuoto. Una madonna, appesa a un chiodo, oscillava quando si alzava il vento. Polvere dappertutto. E macerie, cumuli di macerie da cui sporgevano gli oggetti più disparati che lo scoppio delle bombe, come la rabbia di un un dio irato, aveva fatto a pezzi e lanciato in tutte le direzioni. Più avanti si levava un muro, solo quello rimasto in piedi, di una casa che giaceva a pezzi tutto intorno. Piantato sulle macerie il cartello con la scritta "Pericolo".
Quel muro sembrava la tavolozza di un pittore con i suoi riquadri azzurri, verdi, gialli e rosa. Ogni riquadro una stanza, o meglio ciò che di quella stanza era rimasto... E gli abitanti? Cos'era rimasto degli abitanti? Lo chiedeva a sua madre, a suo padre, ma loro facendo una smorfia borbottavano: "Se ne saranno andati altrove" e cambiavano discorso. I bambini capiscono quando non è il caso di porre altre domande.
A scuola, accanto alla carta geografica dell'Italia, due manifesti: uno per i funghi velenosi e l'altro per gli "ordigni bellici". Da non toccare né gli uni, né gli altri. Ma si sa che i ragazzini sono curiosi, e Mario, seduto davanti alla cattedra per vedere meglio la lavagna, aveva perso un occhio e la mano destra per aver raccolto da terra quello che gli era sembrato un giocattolo.
Al'uscita da scuola c'erano più donne che uomini, molte vestite di nero. Sua madre, quando la coglieva a osservare con occhi indiscreti quel nero dilagante, strattonandola, le diceva: "E' una vedova di guerra... ". Il padre di Maria era un "invalido di guerra": aveva perso una gamba in Russia, nella "ritirata". Maria ogni tanto veniva a scuola con una guancia gonfia, metteva la testa sul banco e la maestra non le diceva nulla. Fingeva di non vedere.
Poi, pian piano, le macerie vennero rimosse, arrivarono squadre di operai  che alzarono impalcature, sui terrazzi tornarono a fiorire i gerani e lungo i viali vennero piantati, a rimpiazzare gli alberi tagliati per riscaldarsi o falciati dalle bombe e dagli incendi, altri alberi...
Lei scoprì il motivo del suo particolare affetto per la nonna materna e la zia: a pochi mesi di vita era stata affidata alla famiglia della madre. Con due bambine piccolissime, quando si erano intensificati a tutte le ore del giorno e della notte i bombardamenti,  sua madre aveva portato lei, la figlia minore, a Monfalcone. Per questo motivo sapeva così poco sui suoi primi anni di vita, per questo motivo, a volte, la madre le dava un senso di estraneità...
Nel palazzone, dove viveva con la famiglia da bambina, c'era un appartamento pieno di mobili  e di libri -come lei e gli altri bambini avevano scoperto sbirciando all'interno dal terrazzo comune posto all'ultimo piano - che incuriosiva molto i bambini del caseggiato, convinti che fosse abitato dagli spiriti. Un giorno sua madre le disse che il proprietario, un ebreo, era stato "deportato".  Quella fu la prima volta in cui le parlò di Mussolini e dei fascisti. Fu la prima volta in cui la guerra ebbe, per lei, un colpevole, diventando non un'aggressione aliena o una punizione voluta da Dio, ma il frutto della scelta di un uomo e di coloro che in quell'uomo avevano creduto.
Nelle famiglie la guerra non trovò facilmente parole per essere descritta: per anni rimase "un non detto" indicibile, qualcosa da dimenticare, un'orrore che ingoiata una generazione, avvolse in un cono d'ombra dai contorni indefiniti, quei bambini nati, come lei, tra il '40 e il '45...