mercoledì 15 febbraio 2012

Malattia e solitudine


L’ingresso dell’ospedale era animato da un incessante flusso, in entrata e in uscita, di gente che si portava dietro il sapore della nebbia, il primo freddo dell’autunno. Aspettava su quella panca scomoda, rabbrividendo nella vestaglia troppo larga. Quando li vide entrare, la faccia tirata che accomuna spesso i visitatori di questi luoghi di sofferenza, fece loro un cenno, esitante. I figli la raggiunsero e si sedettero davanti a lei.
Si mise a piangere quasi subito, mentre la osservavano impacciati.
Quella malattia neurologica, progressiva e degenerativa, diagnosticata da poco più di un anno, pur non avendole tolto ancora molto in autonomia, le aveva devastato l’anima.
Aveva paura.
Aveva tentato, com’era nel suo carattere temprato da una vita difficile, di ingabbiare quella paura nelle maglie strette della razionalità, di neutralizzarla con l’ironia, di tenerla a bada con la speranza che la ricerca scoprisse un farmaco miracoloso o si avventurasse in un trapianto di cellule staminali… Tutto inutile!
Perché a lei, dopo tanti guai, dopo tanta fatica… Perché proprio a lei?
Perché a lei che non aveva fumato, né bevuto, mangiato in modo sano: perché? L’unica risposta che aveva trovato – ed era una donna piena di fantasia – era stata: “E perché no?”
“Non ce la faccio più!” disse.
Silenzio, rotto solo dallo scalpiccio dei passi e da voci estranee.
Alzò la testa e li osservò, uno a uno, cercandone lo sguardo, come un naufrago cerca un salvagente nel pieno di una tempesta.
Il figlio maggiore aveva un tono forzatamente calmo, volutamente rassicurante quando si decise a guardarla. “Ci sono case-famiglia… “ borbottò. E sorrise, quel sorriso con cui l’aveva conquistata fin da bambino.
La figlia maggiore sbottò: “Devi darti una smossa, ho parlato con il neurologo… Starai molto peggio di come stai ora”.
Ma cosa ne sai di come sto? – pensò.
“Stai drammatizzando, stai esagerando! Ragiona!”
Non ci riesco – risposero muti i suoi occhi.
“Prenditi degli antidepressivi, degli ansiolitici e… rimettiti in piedi. Io non posso, nessuno di noi può occuparsi di te, abbiamo la nostra vita”.
La figlia piccola sobbalzò e incrociò il suo sguardo. Lei vi lesse disperazione, ansia; la sua stessa impotenza.
Aveva fatto di tutto e di più per preservarli dal dolore del mondo, aveva combattuto contro tutto ciò che aveva o avrebbe potuto procurare loro ansia, preoccupazione dolore, angoscia. Nelle loro battaglie l’avevano avuta accanto… Sempre.
Si alzò; si alzarono anche loro: impacciati come bambini sorpresi a rubare la marmellata, la abbracciarono uno a uno, le sfiorarono le guance con un bacio.
“Ti accompagniamo al reparto?”
“Vado da sola” rispose.
Quando rientrò in camera la vicina di letto le disse: “Sono venuti i suoi ragazzi a trovarla, eh, lei è fortunata: ha tre figli… e due nipotini “
“Eh sì” rispose.


Ora i nipotini erano diventati tre e alla paura si era abituata. Come al dolore del corpo e a quello dei distacchi, degli abbandoni troppe volte subiti. Nulla poteva contro la malattia, nulla contro la solitudine che – quasi sempre – l’accompagna. La piccola si era dimostrata la più forte e la più tenera. Il maschio era fuggito lontano ma consapevole delle sue scelte, assumendosene la responsabilità. La figlia maggiore e i nipotini li intravedeva, a volte, per strada. Un po’ impacciati i bambini, aggressiva lei: come, quasi sempre, i più fragili.