martedì 28 febbraio 2012

Point d'ésprit

Mi sarebbe piaciuta una vecchiaia più rispondente al personaggio: o amorevole, tutta torte, nipotini e storie sussurrate nelle sere fredde, quando fuori piove o nevica e la casa è una cuccia calda,  oppure una vecchiaia fiammeggiante, ancora lì a protestare, a chiedere, a pretendere un mondo diverso: più corretto, più equo.
Invece la vita (?) ha deciso diversamente: la mia vecchiaia è dolente e dolorosa, ingabbiata nelle maglie strette di una patologia che non concede spazio...
Della donna che sono stata quasi nulla è rimasto: a volte mi sorprendo a fissare quella sconosciuta che da uno specchio mi sorride. Esitante. Chi sei? - le chiedo, prima di riconoscermi.; solo allora, sconsolata, la faccio entrare. La ospito nella mia casa, già sapendo che "l'ospite è come il pesce; dopo tre giorni puzza"... E convivo con il fetore. A tutto ci si abitua: ci sono giorni in cui non lo sento, anche perché la malattia, benevola, mi ha privato parzialmente dell'olfatto.
Non avrebbe potuto privarmi anche dei dubbi? ( la patologia intendo). E fare piazza pulita delle domande, no? Quelle domande che non trovano risposte, che finiamo per tacitare con risposte vaghe, illogiche, banali.
Troppa grazia! Dubbi e domande, che si alimentano gli uni delle altre e viceversa, punteggiano la mia vita solitaria come pois quel tessuto, passato di moda, che le nonne usavano per confezionare quelle tende vaporose che  filtravano la luce nelle camere da letto. "Point d'ésprit" si chiamava quel tessuto, anche se, come la mia attuale vita,  non aveva nulla di  spiritoso.

sabato 25 febbraio 2012

Il nostro insensato vivere

Calava la sera sulla cittadina infreddolita, dove la neve, ridotta  in  poltiglia fangosa che quasi nulla conservava del suo originario candore,  si accatastava ancora lungo le strade. L'amica le sedeva di fronte, in poltiglia anche lei, eh sì che tracce della sua bellezza, a osservarla con attenzione, ancora emergevano prepotenti, come prepotente, quasi aggressivo, era stato il suo fulgore. Bella era stata, bellissima, ma ora appariva gonfia, pallida, i riccioli scuri aggrovigliati, scomposti, a celarne a tratti lo sguardo sperso, da animale braccato. 
Parlava lentamente, scegliendo con cura le parole, quelle stesse parole di cui negava la validità, bocciandole come inutili, in quel suo ripetere e ripetersi: "Non serve parlare, anzi  porta fuori strada, consente di mentire, di nuovo, a se stessi. Le parole non sono spiegazione, chiarimento, via d'accesso all'incomprensibile, sono muro, barriera, ultima trincea a difesa di una speranza che è pura illusione, sogno infranto che non abbiamo la forza di contemplare".
La ascoltavo e condividevo, anche se non del tutto.E una frase si legava all'altra, come perle in una collana che, alla fine, non abbellisca ma strozzi...
Troppe parole inutili. Avremmo bisogno di silenzio per risentire le emozioni salire alla superficie, per liberarle dalla zavorra del "detto". Avremmo bisogno di capire perché siamo naufragati proprio lì, su quella costa tanto temuta, razionalmente evitata. Combinazione? Casualità? Fato? Magari! Sarebbe consolatorio non avere responsabilità, imputare al vento e alle correnti, che a noi non obbediscono, di aver fatto naufragare la nostra barca su quegli scogli tanto temuti. 
Ma quella paura che le parole negano, la pelle la lascia filtrare, percepire: un vissuto in netta contraddizione con il detto. 
La risposta degli altri, a ciò che siamo non a ciò che diciamo, è lo specchio che ci rimanda alla nostra verità... 
Nulla è più doloroso, e altrettanto temuto, della verità, ma scoprirla è, forse, l'unico "senso" del nostro insensato vivere.

mercoledì 22 febbraio 2012

Nati tra il '40 e il '45.

Per andare a scuola passava davanti a case bombardate, sventrate dalle bombe degli anglo-americani. C'era qualcosa di osceno in quelle stanze esposte al pubblico sguardo dove, ancora, qualche mobile a pezzi giaceva di sghembo, assurdamente in bilico, quasi proteso sul vuoto. Una madonna, appesa a un chiodo, oscillava quando si alzava il vento. Polvere dappertutto. E macerie, cumuli di macerie da cui sporgevano gli oggetti più disparati che lo scoppio delle bombe, come la rabbia di un un dio irato, aveva fatto a pezzi e lanciato in tutte le direzioni. Più avanti si levava un muro, solo quello rimasto in piedi, di una casa che giaceva a pezzi tutto intorno. Piantato sulle macerie il cartello con la scritta "Pericolo".
Quel muro sembrava la tavolozza di un pittore con i suoi riquadri azzurri, verdi, gialli e rosa. Ogni riquadro una stanza, o meglio ciò che di quella stanza era rimasto... E gli abitanti? Cos'era rimasto degli abitanti? Lo chiedeva a sua madre, a suo padre, ma loro facendo una smorfia borbottavano: "Se ne saranno andati altrove" e cambiavano discorso. I bambini capiscono quando non è il caso di porre altre domande.
A scuola, accanto alla carta geografica dell'Italia, due manifesti: uno per i funghi velenosi e l'altro per gli "ordigni bellici". Da non toccare né gli uni, né gli altri. Ma si sa che i ragazzini sono curiosi, e Mario, seduto davanti alla cattedra per vedere meglio la lavagna, aveva perso un occhio e la mano destra per aver raccolto da terra quello che gli era sembrato un giocattolo.
Al'uscita da scuola c'erano più donne che uomini, molte vestite di nero. Sua madre, quando la coglieva a osservare con occhi indiscreti quel nero dilagante, strattonandola, le diceva: "E' una vedova di guerra... ". Il padre di Maria era un "invalido di guerra": aveva perso una gamba in Russia, nella "ritirata". Maria ogni tanto veniva a scuola con una guancia gonfia, metteva la testa sul banco e la maestra non le diceva nulla. Fingeva di non vedere.
Poi, pian piano, le macerie vennero rimosse, arrivarono squadre di operai  che alzarono impalcature, sui terrazzi tornarono a fiorire i gerani e lungo i viali vennero piantati, a rimpiazzare gli alberi tagliati per riscaldarsi o falciati dalle bombe e dagli incendi, altri alberi...
Lei scoprì il motivo del suo particolare affetto per la nonna materna e la zia: a pochi mesi di vita era stata affidata alla famiglia della madre. Con due bambine piccolissime, quando si erano intensificati a tutte le ore del giorno e della notte i bombardamenti,  sua madre aveva portato lei, la figlia minore, a Monfalcone. Per questo motivo sapeva così poco sui suoi primi anni di vita, per questo motivo, a volte, la madre le dava un senso di estraneità...
Nel palazzone, dove viveva con la famiglia da bambina, c'era un appartamento pieno di mobili  e di libri -come lei e gli altri bambini avevano scoperto sbirciando all'interno dal terrazzo comune posto all'ultimo piano - che incuriosiva molto i bambini del caseggiato, convinti che fosse abitato dagli spiriti. Un giorno sua madre le disse che il proprietario, un ebreo, era stato "deportato".  Quella fu la prima volta in cui le parlò di Mussolini e dei fascisti. Fu la prima volta in cui la guerra ebbe, per lei, un colpevole, diventando non un'aggressione aliena o una punizione voluta da Dio, ma il frutto della scelta di un uomo e di coloro che in quell'uomo avevano creduto.
Nelle famiglie la guerra non trovò facilmente parole per essere descritta: per anni rimase "un non detto" indicibile, qualcosa da dimenticare, un'orrore che ingoiata una generazione, avvolse in un cono d'ombra dai contorni indefiniti, quei bambini nati, come lei, tra il '40 e il '45...


lunedì 20 febbraio 2012

Ricordi quella strada che...

Sono quasi le sette. Albeggia, non nevica più in Emilia. La gatta appollaiata sul termosifone spalanca occhi tondi, gialli come i lampioni che illuminano la strada. Qualcuno sfreccia in macchina, veloce.
Comincia un altro giorno.
Tu cosa pensi, immobile nel tuo letto d'ospedale? All'intervento da subire, ai rischi, al dolore del risveglio, ingabbiato nell'intreccio dei tubi? O è la vita, la tua vita che ti scorre davanti agli occhi? Immagini rubate, qua e là: alcune chiare e recenti, altre fumose come cartoline d'epoca, lontane. Sullo sfondo Trieste, la "nostra" Trieste: amata e odiata, impossibile da dimenticare come la giovinezza, la nostra giovinezza che il vento si è portato via... Chissà dove e chissà quando. 
Non pensare alla sala operatoria, amore mio, pensa a quella strada, poco più che una striscia sottile d'asfalto, quasi una biscia scura attorcigliata lungo i fianchi della collina, quella strada che costeggia vigneti bassi, zappati a mano, che danno grappoli piccoli di uva  aspra, uva cresciuta nel vento... Come noi. 
Ricordi la prima volta? La macchina s'inerpicava come un mulo di montagna, ansante e, a ogni curva, il panorama davanti ai nostri occhi si allargava, invaso da un'azzurro che senza soluzione di continuità univa mare e cielo. Ridevamo, di cosa non ricordo: gli innamorati ridono molto e, complici, scacciano la malinconia. Tu eri scuro di sole come uno zingaro, nero di occhi e di capelli...  Io ti dicevo che sapevi di spezie, ricordi? Sulla mia pelle di bionda solo un'ombra dorata di sole. Eguali nell'imprevedibilità dei cambiamenti d'umore, diversi in tutto il resto: come il deserto e il mare Erano ancora lontani i litigi: quegli scontri furenti, cattivi, le offese e le minacce di non vedersi più. Mai più. Poi arrivava una tua lettera o una mia telefonata: "Sei  tu?" Io tacevo, ma tu riconoscevi il mio silenzio... 
Quel giorno d'estate, all'ennesima curva, ci si parò davanti un'osteria: pergolato verde di "fragolino", tavolini di ferro, tovaglie a quadretti azzurri e... mare. A perdita d'occhio. Nel piatto: peoci, sardoni fritti e "radicio triestin". Gusti dimenticati o, forse, inventati. Come la tua camicia azzurra e il mio vestito bianco, quella gonna a balze che, come una vela sul mare, si riempiva di vento.
Non sono più stata così felice.
Mai  più.

sabato 18 febbraio 2012

La politica di Mario Monti è fallimentare?

http://www.facebook.com/photo.php?v=292785457453123
              
Aggiungo per chiarire:
"Si chiama Mes, acronimo di Meccanismo europeo di stabilità. È una sorta di fondo salva-stati, che i paesi membri si impegnano a costituire versando una quota iniziale che varia da paese a paese (e quote successive decise ad insindacabile giudizio del consiglio dei governatori). Nel caso dell'Italia si tratta della terza quota per dimensioni (dopo Germania e Francia), pari a circa il 18 per cento del totale. Circa 126 miliardi di euro solo come quota iniziale, che se ne escono dalle nostre casse già stremate. Per finanziare cosa?"… 


Anche le banche, private, in difficoltà? Certamente. Quelle stesse banche che non concedono più nemmeno un euro di finanziamento alle imprese e alle famiglie? Bien sûr.
Finalmente abbiamo un meccanismo sovranazionale al quale i Paesi membri hanno delegato quote di sovranità nell’ambito, delicatissimo, della Finanza. Quella allegra? 
Vi invito a rileggere questi post, scritti nel 2008:

http://falilulela.blogspot.com/2008/12/quando-venne-introdotto-leuro-e-la-b.html

mercoledì 15 febbraio 2012

Malattia e solitudine


L’ingresso dell’ospedale era animato da un incessante flusso, in entrata e in uscita, di gente che si portava dietro il sapore della nebbia, il primo freddo dell’autunno. Aspettava su quella panca scomoda, rabbrividendo nella vestaglia troppo larga. Quando li vide entrare, la faccia tirata che accomuna spesso i visitatori di questi luoghi di sofferenza, fece loro un cenno, esitante. I figli la raggiunsero e si sedettero davanti a lei.
Si mise a piangere quasi subito, mentre la osservavano impacciati.
Quella malattia neurologica, progressiva e degenerativa, diagnosticata da poco più di un anno, pur non avendole tolto ancora molto in autonomia, le aveva devastato l’anima.
Aveva paura.
Aveva tentato, com’era nel suo carattere temprato da una vita difficile, di ingabbiare quella paura nelle maglie strette della razionalità, di neutralizzarla con l’ironia, di tenerla a bada con la speranza che la ricerca scoprisse un farmaco miracoloso o si avventurasse in un trapianto di cellule staminali… Tutto inutile!
Perché a lei, dopo tanti guai, dopo tanta fatica… Perché proprio a lei?
Perché a lei che non aveva fumato, né bevuto, mangiato in modo sano: perché? L’unica risposta che aveva trovato – ed era una donna piena di fantasia – era stata: “E perché no?”
“Non ce la faccio più!” disse.
Silenzio, rotto solo dallo scalpiccio dei passi e da voci estranee.
Alzò la testa e li osservò, uno a uno, cercandone lo sguardo, come un naufrago cerca un salvagente nel pieno di una tempesta.
Il figlio maggiore aveva un tono forzatamente calmo, volutamente rassicurante quando si decise a guardarla. “Ci sono case-famiglia… “ borbottò. E sorrise, quel sorriso con cui l’aveva conquistata fin da bambino.
La figlia maggiore sbottò: “Devi darti una smossa, ho parlato con il neurologo… Starai molto peggio di come stai ora”.
Ma cosa ne sai di come sto? – pensò.
“Stai drammatizzando, stai esagerando! Ragiona!”
Non ci riesco – risposero muti i suoi occhi.
“Prenditi degli antidepressivi, degli ansiolitici e… rimettiti in piedi. Io non posso, nessuno di noi può occuparsi di te, abbiamo la nostra vita”.
La figlia piccola sobbalzò e incrociò il suo sguardo. Lei vi lesse disperazione, ansia; la sua stessa impotenza.
Aveva fatto di tutto e di più per preservarli dal dolore del mondo, aveva combattuto contro tutto ciò che aveva o avrebbe potuto procurare loro ansia, preoccupazione dolore, angoscia. Nelle loro battaglie l’avevano avuta accanto… Sempre.
Si alzò; si alzarono anche loro: impacciati come bambini sorpresi a rubare la marmellata, la abbracciarono uno a uno, le sfiorarono le guance con un bacio.
“Ti accompagniamo al reparto?”
“Vado da sola” rispose.
Quando rientrò in camera la vicina di letto le disse: “Sono venuti i suoi ragazzi a trovarla, eh, lei è fortunata: ha tre figli… e due nipotini “
“Eh sì” rispose.


Ora i nipotini erano diventati tre e alla paura si era abituata. Come al dolore del corpo e a quello dei distacchi, degli abbandoni troppe volte subiti. Nulla poteva contro la malattia, nulla contro la solitudine che – quasi sempre – l’accompagna. La piccola si era dimostrata la più forte e la più tenera. Il maschio era fuggito lontano ma consapevole delle sue scelte, assumendosene la responsabilità. La figlia maggiore e i nipotini li intravedeva, a volte, per strada. Un po’ impacciati i bambini, aggressiva lei: come, quasi sempre, i più fragili.



domenica 12 febbraio 2012

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°22 - Parte seconda)

Piero, "il Professore" come lo chiamavano i compagni, sobbalzò, lo sguardo alla porta d'ingresso e la mano alla cintola, il cuore che accelerava i battiti. Il silenzio colmava la stanza che un pallido sole cominciava a illuminare. Il passo che l'aveva spaventato si allontanò attenuandosi, sommerso da altri più rassicuranti rumori: lo sbattere di una porta, il latrato di un cane, il borbottio di una voce.
Un'altra giornata cominciava con la paura, la rabbia e la determinazione  di sempre: spingendolo all'azione. Aveva preparato l'articolo da stampare clandestinamente. Sapeva che, passando di mano in  mano, avrebbe raggiunto i compagni, ridando loro fiducia, alimentando la speranza, incitandoli alla  lotta...
Il regime si faceva sempre più arrogante, ma la gente ancora non capiva, non si rendeva conto, credeva alle fandonie di quell'ometto impettito e della sua spettrale corte di servi. Aveva incantato anche Hitler che, astro nascente della Germania, aveva attinto  a piene mani al fascismo per dare vita al nazismo. E L'Inghilterra si limitava alle schermaglie diplomatiche, la Francia non reagiva, la Russia era una speranza ma...
"Vuoi un goccio di caffè?"
La voce di Mario lo distolse dai sui pensieri.
"Mi ci vuole, anche se questo caffè fa schifo".
"Hai finito l'articolo? Fammelo leggere, se lo capisco io, lo capiranno tutti... " e rise, quella sua risata generosa, contagiosa, che gli illuminava il volto largo e solido, dandogli un'aria da ragazzo, anche se ormai doveva essere sulla quarantina. Era la sua ombra Mario, il suo angelo custode. Lo seguiva, passo passo, attento, fiutando il pericolo... se era ancora vivo lo doveva a lui.
Sapeva che il Debosi era sulle sue tracce, sapeva tutto di quel fascista. Come in un minuetto cortese si controllavano a vicenda: ora preda, ora cacciatore, si perdevano e si ritrovavano. Sentì il dolore che quel nome riportava a galla dilagargli dentro, come una marea che solo la vendetta avrebbe potuto fermare. Filtrato attraverso la razionalità quel desiderio di vendetta diventava senso, espressione di giustizia, ma lui non si raccontava balle, lui sapeva che l'odio che provava era la sua forza. E la sua debolezza. Per questo lo nascondeva e lo controllava. Quale poteva essere il punto debole del fascista? Era abbastanza ricco, era temuto e blandito dal potere che lui, il Debosi, ossequiava. Non aveva figli, ormai i genitori erano anziani... I compagni gli avevano ucciso un amico, un fascista privo di sfaccettature. Un bestione violento e arrogante, conosciuto per le spedizioni punitive che aveva quasi sempre capeggiato. Desmo si chiamava, un'anima nera, più nera della notte e della camicia che esibiva indossandola come una bandiera. E poi c'era la moglie del Debosi, la maestrina venuta dal Nord. Ma di lei sapeva ben poco: era una persona riservatissima, che non aveva amiche né parenti. L'aveva incontrata pochissime volte, di sfuggita, ma anni prima, su un treno, l'aveva aiutato a fuggire, senza sapere chi fosse: d'istinto. Un incrociarsi di sguardi, il suo terrorizzato e quello di lei profondo e partecipe, che avevano, anche se solo per un istante, sancito un'alleanza. Poi, lui era stato raggiunto e preso dagli uomini dell'Ovra, ai quali era miracolosamente sfuggito con l'aiuto di Mario, pochi minuti dopo l'aggressione...
(continua... )

sabato 11 febbraio 2012

Lavoratori


Alcuni giorni fa, per motivi di salute, ho preso il treno per Milano. A pochi metri dalla stazione centrale, una scena ormai abituale nel nostro Paese: operai arrampicati su un traliccio come, altrove, su una gru o sul tetto di un edificio in grado di sfidare il cielo in altezza. Operai che protestano, gridano, urlano la loro rabbia. E la loro disperazione. Hanno perso o sono sul punto di perdere quella manciata di euro che consentiva la sopravvivenza. Anche alle famiglie.


Scesi in tutta fretta dal Paradiso, sembrano essere tornati, dando l'impressione di essere, o lo sono sempre stati?, tanti. Continuano a licenziarli in massa, a metterli in mobilità, in cassa integrazione... e loro sfilano nei cortei, affollano i banconi delle osterie, cadono in depressione, urlano nei megafoni, mandano segnali: per ricordarci che ci sono, che dormiamo su letti che hanno costruito, che usiamo macchine che hanno  assemblato, che indossiamo abiti che hanno confezionato.
                                                                                                                                                                                                                                      Chi sono oggi gli operai e che peso hanno nell'attuale società? Anche il mio amico Salvatore Lo Leggio nel suo blog se lo chiede, ripercorrendo la Storia operaia attraverso la letteratura che a quella storia ha dato voce. L'operaio artigiano, quello che "costruiva"con le mani , ma soprattutto con la testa e con la fantasia, conferendo agli oggetti funzionalità, solidità e bellezza, non esiste più, si è perso nel buio di tempi lontani. E' stato divorato e travolto dal progresso industriale: dalle logiche della fabbrica, ispirate alla produzione di massa finalizzata al profitto.

Sono stati la manovalanza del "miracolo italiano". Erano gli anni Sessanta: tutti in tuta blu, orari ferrei, cieli plumbei e nebbiosi, cieli del nord... Soldi pochi, ma sicuri. Il lavoro che non richiedeva più fantasia; solo precisione, velocità, attenzione. E obbedienza. Ma i figli avrebbero potuto studiare, diventare "dottori", anche se la fabbrica si mangiava tutte le energie, il tempo e, spesso, anche la salute. Ciò che contava era il profitto, il guadagno del padrone. E lo sviluppo, quello del Paese, che si credeva - con quanta ingenuità - inarrestabile. Le tute blu in piazza facevano paura perché il Sessantotto aveva cambiato tante cose... Di lì a poco Lama e Agnelli si  sarebbero accordati sul "punto unico di contingenza".
Il benessere si diffondeva nel Paese con il tepore di una primavera anticipata.

E gli operai? I sogni di molti sfumarono rivelandosi pure illusioni: altro che figli dottori! Era un motorino nuovo che volevano i loro figli, o il giubbotto e i jeans firmati. A scuola collezionavano bocciature, non s'iscrivevano più ai sindacati e la politica non era più di moda. Si accalcavano ai concerti rock, non ai comizi!
Il Paese diventò più ricco ma più ottuso, quindi meno attento ai segnali di cambiamento. Quanti operai avrebbero dato - poco dopo -  il loro voto a quel padrone così simpatico, così alla mano, così accattivante, così diverso dai soliti padroni da non sembrare nemmeno uno di loro: calcio, donne  e barzellette... Esattamente come tanti di loro (gli operai) alla domenica davanti al bancone del bar.   


Poi, la crisi! Non era la prima, ma questa era veramente dura, tanto dura da far arrivare nella fabbrica più grande del Paese non solo un nuovo padrone, ma un padrone nuovo. Innovativo, lo definì, in tempi non sospetti, Mario Monti; come se rendere più duro, meno retribuito e meno garantito il lavoro in fabbrica fosse per i padroni fare qualcosa di nuovo! La Fiom messa in castigo, restava, resta da cancellare l'articolo 18, compito assegnato al ministro del Welfare Fornovo che, anche se in lacrime, sembrerebbe irremovibile.


Accusato di lavorare male, di essere troppo giovane e sognatore (posto fisso), troppo vecchio (arrugginito), sfigato e, se giovane,  iperprotetto, il lavoratore è diventato il capro espiatorio di una crisi che sta subendo, ma che non ha provocato. Non è lui l'artefice della "economia di carta", né della globalizzazione...

Scesa dal paradiso, la classe operaia è finita dritta all'inferno, questo è vero, scoprendo però di essere un esercito: composito, ma enorme. Li ricordate i partigiani in montagna? Alcuni vestiti da contadini, perché tali erano, altri in divisa, parecchi studenti... Un'armata Brancaleone che aveva in comune, però, la voglia di cambiare un mondo ingiusto.

In quell'inferno ci sono, ora,  colletti bianchi e tute blu, ci sono tute rosa, laureati e persone con la licenza media, chi non ha ancora mai lavorato e chi lo ha fatto quasi per una vita. Ci sono LAVORATORI: tutti sulla stessa barca, perché - come recita Brecht - la scelta della non solidarietà, oltre che immorale, è stupida! 
E anche sull'attualità di Marx ci sarebbe da riflettere!

venerdì 10 febbraio 2012

La crisi ridotta all'osso


I responsabili della crisi che il Paese sta vivendo cominciano a delinearsi con una certa chiarezza. Sul banco degli imputati la Finanza, i politici e l’Europa.
La Finanza ha preso i debiti contratti dai clienti delle banche e li ha cartolarizzati (trasformati da crediti in titoli di credito, pensate alla differenza tra farsi prestare una certa somma e firmare una cambiale), poi li ha venduti sul mercato finanziario e, come una pioggia di coriandoli, questi debiti, diventati con complesse operazioni d’ingegneria finanziaria prodotti finanziari autonomi, hanno invaso il mercato alimentando speculazioni legate al rischio d’insolvibilità che è struttura portante di ogni debito/credito, e alla possibilità di scaricarlo. Ogni debito/credito, passando di mano in mano ha alimentato centinaia, migliaia di operazioni, in un giro di valzer sempre più vorticoso e… redditizio. Tutto ha funzionato fino a quando il debitore originario alla scadenza ha pagato. Il sistema è saltato nel 2008 negli Usa con la crisi dei subprime, prestiti concessi dalle banche a clienti poco solvibili contando, come garanzia, sull’aumento inarrestabile degli immobili che con quei prestiti erano stati acquistati. Il resto è storia nota.
Com’è potuto succedere? Avidità e mancanza di controlli e di norme a tutela del risparmiatore. E qui entra in ballo la politica, con gravissime responsabilità: incompetenza, corruzione, soggezione al potere della ricchezza finanziaria e…. sguardo corto: da politici che guardano alla rieleggibilità, non da statisti che si pongono come obiettivo il benessere delle future generazioni.
Rimane l’Europa: partita, con il piede sbagliato, dall’economia e dalla moneta unica, tralasciando la politica che avrebbe dovuto sancire le regole, uniformarle, istituzionalizzando la solidarietà e l’equità… Rissosa, vecchia, farraginosa e miope l’Europa ha perso la rotta e sta andando alla deriva.
Il quadro tracciato non è brillante e non è esaustivo: è soltanto un tentativo di sintetizzare gli errori fatti per poter valutare la validità delle scelte che sta attuando il governo in carica. Voi che ne dite?

giovedì 9 febbraio 2012

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°21 - Seconda parte)

Come la Cenerentola  della quale tante volte a scuola aveva narrato la storia, Marilena fuggiva, lasciandosi alle spalle un mondo di cartapesta che non le apparteneva, che non aveva cercato né avrebbe voluto. La seguiva Gualtiero, in silenzio. 
L'autista del padrone di casa li attendeva, ossequioso. Attraversarono la città, a quell'ora quasi deserta. Buia. Si udiva soltanto ansimare il motore.
"Siamo arrivati; fermi dopo l'angolo".
Scesero. 
Marilena sentì che il marito bisbigliava qualcosa all'autista mentre lei varcava il portone di casa.
Entrarono nell'appartamento.
"Sono stanca morta, vado a dormire" disse Marilena.
"Non t'interessa saper cosa mi ha detto... "
Lei lo interruppe. Brusca.
"Che sei bravo? Che contano su di te?" mormorò, lasciando scivolare a terra la stola di piume di struzzo che cadde frusciando. Leggera.
Gualtiero le afferrò una spalla, lei si sottrasse.
"Ho mal di testa... " gli disse.
Lui l'agguantò, la strinse tra le braccia cogliendone il tepore, il profumo che le saliva dai capelli. Cercandole la bocca, ne incrociò lo sguardo, sprezzante. Il sapore di polvere della notte estiva sommerse ogni altro profumo. La odiò e si odiò per quel desiderio di lei che non conosceva soste, per quella debolezza che gli impediva di prendersela come una mela staccata dal ramo, con la forza. Si scostò senza staccare gli occhi dal suo viso. Lei abbassò lo sguardo per nascondere il sollievo, poi gli voltò le spalle e sparì in camera.
Basta che non se ne vada - pensò. 
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori, lungo la strada deserta, rimuginando pensieroso.
"Non se e andrà, è come tutti gli altri che ho intorno: mi disprezzano, ma hanno bisogno di me, di qualcuno che faccia il lavoro sporco. Come in campagna, qualcuno deve spalare la merda" sussurrò appoggiando la fronte sul vetro della finestra per calmarsi, mentre un'ombra attraversava la notte e spariva subito dopo nell'oscurità.
"Qualcuno controlla i controllori" disse, di nuovo freddo, attento, prima di chiudere le imposte e andare a dormire.
(continua... )

martedì 7 febbraio 2012

La bontà è obsoleta?



Ricordo che negli ormai lontani anni della mia infanzia la bontà era un valore. Ho avuto la fortuna di crescere in una città di provincia, rassicurante, un po' sonnolenta dove i bambini potevano ancora giocare nei cortili e per strada. Eravamo una bella banda di ragazzini, una banda con un nocciolo duro formato da mia sorella, i figli della migliore amica di mia madre ed io. Gli altri non erano sempre presenti: andavano e venivano, dando vita ad un ricambio che rendeva il gruppo piuttosto variegato. Ad un'analisi superficiale i bambini possono risultate buoni, forse perchè la bontà è spesso sentita come una forma d'innocenza e l'innocenza siamo soliti ricondurla all'infanzia.
Eppure ricordo bambini cattivi.
Mi chiedo cosa caratterizzi in modo inequivocabile la cattiveria dalla bontà. Penso sia la risposta emotiva alla sofferenza dell'altro da sé. Ho visto alcune volte brillare, davanti al racconto delle mie peripezie, negli occhi di chi mi stava ascoltando una soddisfazione, quasi una gioia, quasi sempre imprigionata in una forma di pietismo, per renderla accettabile socialmente. Non dobbiamo dimenticare che viviamo in un Paese cattolico, la cattiveria non è valore cristiano e quindi deve essere dissimulata. La persona cattiva gode delle disgrazie altrui, indipendentemente dal fatto di averle provocate, magari per soddisfare il bisogno di una vendetta personale, comportamento forse discutibile ma che avrebbe comunque una propria valenza giustificativa.
Oggi la bontà è guardata con sospetto, quasi fosse un valore superato, obsoleto e non è difficile intuirne la ragione. Il mondo è dei vincenti e ciò che dà la misura del valore sociale di una persona è il denaro.
Mi chiedo se si possa essere buoni e vincenti contemporaneamente.
Non credo.
La vittoria dell'uno comporta la sconfitta dell'altro, è l'altra faccia della medaglia, è il saldo zero che alla fine deve risultare a livello globale, fatti tutti i conti. Lo sconfitto soffre e il vincente percorre la sua strada con, davanti agli occhi, il dolore che provoca.
La bontà è debolezza?
E' vulnerabilità?
No, non credo. Penso che la persona buona soffra molto più di quella cattiva di fronte a tutto ciò che provoca dolore nell'altro da sè, quindi è molto sensibile, per esempo, all'ingiustizia, di qualunque tipo d'ingiustiza si tratti. Ma dipenderà dalla forza, intendo forza d'animo, la sua reazione di fronte al dolore.
La forza d'animo, caratteristica diversa dalla bontà, può rendere accettabile la difficile convivenza con la bontà.
Nel secolo appena trascorso, poi, la psicoanalisi ha proposto una chiave di lettura diversa sulle motivazioni che porterebbero allo sviluppo di una caratterialità rispetto ad un'altra. L'influenza dell'ambiente, familiare o sociale che sia, integrandosi o sovrapponedosi a quella che, in maniera forse semplificata, chiamiamo indole, patrimonio che ci trasmettono i cromosomi, rende ancora più complessa l'analisi dei comportamenti.
Per la psicanalisi in un uomo cattivo ci sarebbe sempre un bambino poco amato o maltrattato e questo è comprensibile perché l'obiettivo di fondo della disciplina psicoanalitica è quello di contenere la sofferenza trovando alibi giustificatori per ogni comportamento deviato. La religione perdona i cattivi, a patto che si pentano, la psicoanalisi li giustifica, a patto che si distendano per un congruo numero di anni, a pagamento, sul lettino dell'analista.
Mi chiedo come mai nessun dolore, nessuna catastrofe personale riescano a cambiare la struttura portante della personalità... Quando mai abbiamo visto una persona cattiva diventare, realmente, buona?
Ho capito che il presidente Mario Monti la considera un difetto...


domenica 5 febbraio 2012

Illogicità


Spalancò le imposte su quello che ormai sembrava un paesaggio lunare: bianco, gelato. Era una domenica di febbraio, l’orologio segnava le sette… un accenno di luce, cui la neve conferiva una lucentezza anomala, annunciava il giorno. Le giornate si stavano allungando – pensò. E sorrise. Che cosa sarebbe cambiato per lei? Freddo o caldo, neve o pioggia influivano ben poco, ormai, sui ritmi della sua giornata. Era la sua malattia a impostare la danza, a scegliere il ballo che si faceva di stagione in stagione più gravoso: i movimenti sempre più lenti, l’equilibrio incerto, i dolori più forti, i pensieri confusi. Cosa le aveva detto sua sorella – anche la memoria cominciava a vacillare –, ah sì: “Ti sembra di essere logica?” Sapeva cogliere ogni sua defaillance. Implacabile.
Quanto alla logica, l’uso che ne aveva fatto nella vita era stato altalenante: nei sentimenti non se n’era servita molto. Anzi per nulla, altrimenti non avrebbe portato avanti per anni quella lunga, tormentata storia d’amore con un uomo che l’aveva amata poco, e male. Non si sarebbe sacrificata tanto per i figli, sempre convinta che le parole e l’affetto avrebbero finito per dare i loro frutti, che una mattina se li sarebbe trovata di fronte maturi, tranquilli… equilibrati. Cresciuti insomma, fuori per sempre dalle brume di quelle difficili adolescenze che erano state la loro e la sua dannazione.
La logica l’aveva usata nell’organizzazione pratica di una vita difficile, nell’infilare in una sola giornata la cura di tre figli, un lavoro portato avanti con rigore e il tran tran, ripetitivo ma indispensabile, dei lavori domestici. Tutto da sola. Il padre dei figli assente, sotto tutti i profili, quell’amore a senso unico, qualche amicizia vera e, nei momenti peggiori – ed erano stati non pochi – sua madre, l’unica a darle un aiuto pur rimproverandole quel divorzio, celato alle sue amiche per anni, quasi si fosse trattata di una vergogna da nascondere con ogni mezzo.
Forse era stata proprio l’assenza di logica a salvarla, a consentirle di reggere quella vita durissima.
Perché lei amava la vita, anche la sua, quella vita che aveva orari da “ bergamino”: fatica tanta e soldi pochi. E problemi sempre, e soddisfazioni… quasi mai. Ma a lei bastava.
A modo suo era stata felice, illogicamente felice.
Ora, da tempo, il gusto della felicità l’aveva dimenticato, ma l’amore e la curiosità per la vita, quelli, incrollabili e tenaci, continuavano a resistere.
Sordi a ogni logica.
Lasciò cadere qualche briciola di pane sul davanzale e tornò a letto… sapeva che sarebbe arrivato un pettirosso, reso meno prudente dalla fame.
Succedeva sempre d’inverno, quando nevicava.

giovedì 2 febbraio 2012

A sproposito di noia

"Su, fuori dal letto!" La voce della madre è dura, tutta spigoli e spezzate.
"Non si può dormire un po' di più?" borbotta il figlio.
"No!"
Il ragazzo si alza, strascicando i piedi  si avvicina alla finestra:  fuori tutto è bianco... freddo. Come le piastrelle sotto i suoi piedi nudi.
"Gelerà?" chiede più a se stesso che alla madre.
"Non lo so; è possibile... ma ora togliti dai piedi che cambio l'aria". Con gesti nervosi spalanca la finestra, fa volare le lenzuola e, per un momento, il biancore invade anche la stanza come un cielo sopra le loro teste, un cielo bianco che gli ricorda l'infanzia. 
Pensa spesso al passato chi non ha futuro.
"Passa al Comune: stanno cercando giovani per spalare la neve... almeno farai qualcosa invece di ciondolare per casa tutto il giorno".
"Non è colpa mia se non ho un lavoro" dice.
"Alla tua età, io... "
Non la lascia finire, non vuol sapere altro su sua madre trentenne, sul suo lavoro di stenografa, sul principale che le faceva la 'corte' ma lei niente perché era una ragazza seria perché ai suoi tempi (quelli di lei) le ragazze serie c'erano ancora non come adesso che vanno in discoteca a ballare sul cubo e sanno solo mostrare il culo e le tette rifatte e lei poi si è messa con il magazziniere che era un bravo ragazzo chi avrebbe mai pesato che fosse malato di cuore poco è vissuto il tempo di 'fare' lui che lei ha allevato a suon di sacrifici facendolo laureare in Lettere antiche che lei non sa nemmeno cosa siano... 
A questo punto di solito si concede una pausa per respirare e lui... fila. Se ne va fuori - a lei fa credere di essere in giro per colloqui di lavoro, ma non ci va più. E' inutile, il mondo del lavoro non sa che farsene di un laureato in Lettere antiche. Qualche supplenza, ma ora nemmeno quelle: le scuole non hanno soldi per pagare i supplenti e i ragazzi li mandano a casa o in palestra (quando hanno le palestre). 
Sì, va fuori e cammina. Abbandona la strada asfaltata e raggiunge per viottoli sterrati il fiume: poi si siede e lo guarda scorrere. Sembra immobile, ma scorre, va avanti, andrà avanti fino a quando le sue acque si confonderanno con quelle del mare. Anche lui sembra immobile...
"Che cosa parlo a fare... ?" 
Il freddo della stanza le ha, forse,  gelato la lingua - pensa. Il caldo, in genere,  la zittisce debilitandola. Le stagioni intermedie sono le peggiori, quelle che lei colma di parole. Sempre le stesse.
"Devi trovarti un lavoro: fisso, stabile e..." 
"Una brava ragazza, ma qualcuno dice che sarebbe noioso, scontato" lui conclude, precedendola, e ride, sommessamente, mentre vola giù  e le lenzuola gli danzano intorno confondendosi con il candore luccicante della neve.
(Ogni allusione a fatti, parole, persone ecc. è puramente casuale)

Perché si vedono in giro tanti banchieri?


Perché si vedono in giro tanti banchieri? Perché in ogni buco di paese vengono aperte nuove filiali di banche? Perché il tasso di bancarizzazione delle nazioni più evolute continua a salire? Perché, pur essendo i maggiori responsabili dell'attuale crisi, i banchieri imperversano, invece di starsene in un angolo in silenzio a coprirsi il capo di cenere. Perfino i politici, allontanati con garbo ma decisione, obbediscono ai nuovi padroni del mondo. Loro, i banchieri, dicono 'per senso di responsabilità'. Registro, perplessa.

Tante domande, poche risposte... moltissime parole, continui meeting (costosi e inutili) e pochi fatti, ma certi, che riassunti in cifre e statistiche danno la misura di un crescente disastro. La sensazione, che non è soltanto di pelle, è che qualcuno stia barando, giocando con carte truccate. 

In estrema sintesi è necessario dare liquidità ai mercati, ma senza far salire il tasso d'inflazione. Come lei ben sa, Presidente, il problema è arduo! Sullo sfondo, minaccioso, si profila un rischio concreto di stagflazione: quel mix infernale d’inflazione e recessione che equivale a mescolare il diavolo all'acquasanta.

Quando afferma che "abbiamo evitato l'impatto con il muro", dovrebbe aggiungere, in ossequio alla verità, che il mancato default ha reso però realtà il rischio di stagflazione. Dovrebbe anche aggiungere, nella sua difesa a oltranza dell'euro e delle istituzioni che lo tutelano, che la Bce, alla quale abbiamo devoluto piena sovranità in materia di politica monetaria, non ha centrato l'obiettivo di salvaguardare il potere d'acquisto della moneta. Infatti, uno dei prezzi più importanti per tenere sotto controllo l'inflazione - il tasso d'interesse - in pochi mesi è salito nel nostro Paese in misura inaccettabile. E con un Debito pubblico pari al nostro... E qui di nuovo entrano in ballo i banchieri e la Finanza. Perché non è certamente la casalinga di Voghera a speculare facendo innalzare lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi. La Bce non può finanziare direttamente gli Stati membri, ma potrebbe finanziare la Bei, che a sua volta potrebbe concedere credito per investimenti. Potrebbe, ma non lo fa. Perché? A questo punto iniziano i minuetti, gli accordi sussurrati, la fiducia concessa o negata, la solidarietà nella e della Ue soltanto dichiarata, sbandierata a parole, ma negata nei fatti.

Intanto si approfitta della situazione per mettere la museruola al mondo del lavoro, scaricando la responsabilità della crisi industriale sulla scarsa produttività del lavoro, quindi anche sui lavoratori (Marchionne insegna). Ma le responsabilità sono altrove: sono da ricercarsi nella globalizzazione che permette di delocalizzare le imprese dove i salari sono più bassi, nella mancanza di ricerca e innovazione, nella difficoltà di ottenere finanziamenti... Ma intanto, ripeto, si approfitta della situazione cercando di dare il colpo finale ai lavoratori penalizzati per primi e sempre di più.
Per quanto riguarda la riduzione dei costi della politica e la corruzione dilagante lascio la parola a Crozza... E rimango in attesa di risposte concrete, da parte dell’attuale governo, alle tante, troppe domande che mi pongo.