domenica 25 settembre 2011

L'orgoglio dell'onestà

La mia schiena va sempre peggio: non regge il sia pur esilissimo peso del mio corpo. Mi avvilisco, rumino sull'idea di scaraventare il pc in cantina e rinunciare alla scrittura, poi ho un soprassalto d'orgoglio ( la struttura portante della personalità non te la cambia nemmeno la malattia!) e telefono a un falegname: anzi a tre appartenenti alla categoria. Il primo non ha tempo, il secondo spara prezzi assurdi, il terzo non ne vuol saper di redigere un preventivo, ma sembra competente e assicura, a parole, che il prezzo sarà equo. E così, tre giorni dopo, mi arriva a casa una specie di carrello, girevole, su ruote, che si può infilare sotto il letto e che mi consentirà di scrivere al computer stando distesa sul letto, sorretta da una incastro di cuscini e cuscinetti.

Sono (quasi) felice... Riprendo a scrivere: a fatica, ma riprendo.

Il giorno successivo alla consegna del carrello, questo simpatico signore - con il quale ho anche amabilmente conversato del più e del meno - vedendomi tra le mani il libretto degli assegni, cambia espressione e, sbrigativo, esclama: "No, no, non voglio assegni, solo contanti.... Non converrebbe nemmeno a lei: 20%, anzi 21%  di Iva!!"

Mi guarda negli occhi deciso, senza il ben che minimo imbarazzo; "Tanti libri alle pareti, ma se non ci fossi io a farle due conti.... " sembra pensare mentre mi allunga uno sguardo dove stupore e commiserazione s'intrecciano. La cosa strana non è questa, la cosa strana è che sono io che mi sento imbarazzata: imbarazzata a chiedere la fattura. Come se stessi facendo una proposta indecente!

Eccolo qui, davanti a me, un esemplare di quella fauna che ha contribuito - e contribuisce - pesantemente al disastro economico e sociale cui stiamo assistendo, eccolo qui ad ammettere, non candidamente ma con forza, quasi spiegasse a un interlocutore un po' ottuso come stanno le cose, che aggirare la legge ( nella fattispecie quella sull'obbligo della fatturazione e del pagamento dell'Iva da parte degli artigiani, nonché dell'Irpef sui proventi percepiti) è normale, se non doveroso. Perché? Perché conviene. Ovviamente!

Mi rammenta, caso mai l'avessi scordato, il mio vantaggio economico; non menziona il suo. E io, ottusa ex professoressa in pensione, malata e un po' rincitrullita, capisco: sì!, di botto trovo la risposta a una domanda, che ne riassume però molte altre, che mi frullava in testa da settimane, mentre correvo dietro a proposte e controproposte, manovre ed emendamenti, articoli di giornalisti e commenti....

Cosa possiamo fare noi, noi semplici cittadini senza potere, noi come singoli individui, di fronte a una crisi di questa portata? Mi sono data tante risposte, ma nessuna soddisfacente e men che meno risolutiva, mi sono affannata a cercare soluzioni di tipo tecnico e/o politico e ora, guardando questo ometto emiliano, dall'aria bonaria (che assomiglia un po' a Bersani) mi verrebbe quasi voglia di abbracciarlo... Sì, perché mi toglie dall'incertezza, mi permette di tracciare di nuovo linee nette per identificare confini precisi, mi riporta all'orgoglio dell'onestà.


E' l'onestà - parola abusata e forse desueta - che ci rende diversi. E' difficile essere onesti ed è maledettamente costoso. Assumere la responsabilità delle proprie scelte non è comodo, per niente! E' da fessi per intendersi. Ma è l'unica arma che abbiamo, individualmente, per cambiare rotta.



Storia di nebbie e acquitrini n°35

Gualtiero entrò nello stabilimento ancora vuoto. Silenzioso. Gli piaceva arrivare prima degli altri, sentire rimbombare i suoi passi, scricchiolare la porta del suo ufficio... Poi, sedersi, aspettando che gli stanzoni della fabbrica si riempissero di gente, in un crescendo di voci e tonfi, e sbuffi, e cigolii. Con pochi gesti precisi raddrizzò alcuni oggetti sulla scrivania e si sistemò comodamente sulla seggiola lasciando scorrere un'occhiata soddisfatta intorno a sé. Sentì l'inconfondibile ticchettio che annunciava l'arrivo della Rosina, un po'affannata, con nello sguardo e nel passo quella voglia malcelata di scappare, di volar via, come un passero su un ramo troppo basso, troppo esposto.
"Sono in ritardo?" balbettò entrando, il maglioncino che già le scivolava dalle spalle, mentre afferrava il grembiule.
"No" rispose Gualtiero, seguendo il profilo di quel corpo sodo di donna che la luce del mattino illuminava,
mentre la sua fantasia maschile già volava e lui immaginava che al maglioncino seguisse la camicetta... Poi, con un fruscio di seta la sottoveste; quella sottoveste che aveva a volte intravvisto - o solo immaginato - in un rapido accavallarsi di gambe.
"No, sono io in anticipo" rispose brusco, recuperando il controllo d sé, mentre un esitante battere di nocche sulla porta dell'ufficio, richiamava la sua attenzione.
"Ah Benedetto sei tu? Vieni, vieni!"
Il ragazzo entrò, un po' impacciato, restando in piedi, il basco tra le mani, davanti alla scrivania. In attesa.
"Siediti e tu, Rosina, lasciaci soli!" esclamò perentorio Gualtiero.
Benedetto si sedette, in silenzio.
"Allora, cosa mi racconti? Hai saputo qualcosa di Primo? E di Giuseppe?"
"No, li ho seguiti all'osteria, ma si sono seduti a un tavolo a parte... " cominciò il ragazzo, al quale Gualtiero non dette il tempo di continuare, interrompendolo con un gesto seccato della mano, mentre borbottava: "Ma non ti sei seduto al loro tavolo... o sistemato accanto, o messo a gironzolare nei pressi... in modo da sentire qualcosa?"
"No" rispose, piccato, l'altro, concludendo "nell'osteria tutti parlavano ad alta voce, e loro sussurravano... e poi temevo s'insospettissero".
"Va bene, va bene, allora continua a seguirli e fammi sapere. Vai,vai... che non ti paghiamo per perdere tempo", concluse Gualtiero, indicando al ragazzo la porta con un gesto eloquente del braccio.
(continua... )