giovedì 23 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°12)

Marilena non aveva legami familiari in linea retta essendo orfana di entrambi i genitori - periti nell'incendio della loro casa che aveva per non si sa quale oscuro disegno divino risparmiato lei - e senza figli. Dopo la loro morte, l'unico parente rimastole, il fratello della madre, l'aveva data a balia a una contadina e, appena si era fatta un po' più grande, l'aveva messa in collegio dalle monache. Ricordava della sua infanzia quello svolazzare di tonache nere, lo zio era prete, e il fruscio delle vesti monacali bianche, l'oro delle chiese, l'odore della canonica che sapeva d'incenso e polvere...
A ricordarle i suoi genitori una fotografia sbiadita, scattata il giorno delle nozze, e la sensazione vaga di un abbraccio, uno soltanto, in una mattina di sole, mentre una voce femminile cantava "Cocò, cocò cavallo, la mamma vien dal ballo, con le tettine piene, per darle alle putele... " forse, più che un ricordo, un desiderio o un rimpianto per qualcosa che non aveva potuto avere.
Era uscita dal collegio con il suo diploma di maestra sotto il braccio e una valigia di cartone che pesava ben poco. Lo zio prete si era rivolto al parroco che aveva contattato il vescovo, e una mattina di ottobre era arrivata in quel paese della Bassa padana, lasciandosi alle spalle il Friuli, le monache e una lunga fila di giorni tutti eguali che già sbiadivano in un grigiore indistinto nella sua memoria.
Insegnare le era piaciuto subito anche se, avendo una pluriclasse, era costretta a passare in contemporanea dalle aste pasticciate degli alunni del primo anno ai dettati e ai problemi degli alunni più grandi, in quello stanzone, gelido d'inverno e già rovente all'inizio della primavera, dove i bambini arrivavano con gli zoccoli infangati  e le mantelle inzuppate d'acqua ed era, a volte, più il tempo che passava ad asciugarli, accendere e rinvigorire il fuoco nella stufa, correre a cercarli nel cortile per farli rientrare dopo l'intervallo, medicare punture di tafani o piccole ferite, che quello che poteva dedicare alla loro istruzione, tanto più che il dialetto che parlavano rendeva, almeno per tutto il corso del primo anno, problematica la comunicazione.
Maestra giovane e inesperta, era cresciuta professionalmente e umanamente insieme a loro, imparando a conoscerli uno a uno, con quei nomi strani che i contadini inventavano per i loro figli per non ricorrere ai nomi dei santi, poiché la maggior parte degli abitanti della Bassa si ricordava di loro (dei santi e delle sante) soltanto quando si metteva a bestemmiare... E le occasioni non mancavano perché la vita era veramente dura e la fame tanta.
Marilena aveva trovato  alloggio, sempre grazie ai contatti dello zio prete, presso la sorella di una monaca di clausura,  la quale pur non avendo preso i voti vestiva come una suora e sapeva di cera sfatta e incenso, forse perché passava la giornata in chiesa, a sfregare ottoni, strofinare pavimenti e spolverare reliquie, segretamente - ma neanche tanto - innamorata di don Giuseppe, alto e imponente, occhi neri come la notte che si accendevano quando recitava i suoi sermoni dal pulpito, ma anche quando incontrava lei, Marilena, la giovanissima maestra venuta da lontano a ravvivare con i suoi berretti colorati, la sua giovinezza e la sua acerba grazia, il grigiore di nebbia che avvolgeva il paese come un velo da sposa.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_22.html