giovedì 30 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°16)

Erano rimasti fianco a fianco seduti sull'argine a guardare l'acqua del fiume fluire. In silenzio, o quasi. Lui non aveva nemmeno tentato di baciarla, soltanto quando l'aveva sentita tremare si era tolto la giacca posandogliela sulle spalle e lei l'aveva ringraziato, a bassa voce, per non turbare quel silenzio che li avvolgeva, perfetto. Poi, quando a Oriente il cielo era schiarito, lui si era alzato, e l'aveva accompagnata fino alla porta di casa, lasciandola così, con una carezza impacciata sulla guancia. Lei, che ben poco sapeva di uomini, l'aveva guardato allontanarsi, la giacca gettata su una spalla... mentre dal portone la Rosina, in camicia da notte e scialle, sbucava borbottando:
" E' quasi giorno, Marilena! Rientrate, rientrate per l'amor di Dio, prima che qualcuno vi veda", accostando il lume per spiarle il viso.
"Vedo che vi siete divertita... " aveva aggiunto, ma lei si era limitata a sorridere, misteriosa e inaccessibile.
"Spero non abbiate fatto sciocchezze... Gli uomini, si sa, hanno le mani lunghe e 'chi va al mulino s'infarina'... "aveva aggiunto.
"Non siamo stati al mulino" aveva risposto lei ridendo - una  vampata di rossore che le dava un'aria sana, per lei insolita, da contadina abituata a stare all'aperto - prima di chiudersi alle spalle la porta della camera, lasciando la Rosina a friggere di curiosità.
Da quel giorno avevano cominciato a vedersi con regolarità, e lei aveva pensato che l'amore fosse quello: i baci rubati sull'erba, le prime carezze, l'odore di Gualtiero, della sua pelle nuda calda di sole e di desiderio, le risate e gli abbandoni dopo quegli abbracci lunghi, intensi, ai quali le ombre della notte o il sorgere del sole li strappavano, riportandoli a una percezione del tempo che, in quella casa sul fiume sospesa tra cielo e campi, acqua, nebbie e silenzio, sembravano avere perduto. Cosa poteva saperne lei, dell'amore? Dove, quando l'aveva incontrato? Nella sua vita di orfana l'aveva cercato nel sorriso di qualche suora, nell'espressione dello zio prete che quando la vedeva, a Natale di solito, lasciava trasparire un sentimento di pietà, ma nulla d'altro, se non il larvato sollievo di vederla ripartire, dopo pochi giorni, per non sentire più borbottare la perpetua infastidita dalla sua presenza... Poi, di nascosto, lei aveva letto qualche libro che si concludeva sempre con il trionfo dell'amore, conquistato attraverso mille peripezie e destinato - lo si intuiva chiaramente - a perdurare immutato e fedele nei secoli, come il motto dell'Arma dei Carabinieri.
Per la prima volta nella sua vita, ora, qualcuno l'aspettava, si preoccupava per lei, la riscaldava se provava freddo e, ben lontano dal considerarla un impiccio o un problema da risolvere, la faceva sentire preziosa come un regalo per la Prima Comunione, prelibata come il cappone a Natale, bella, sontuosamente bella come un tramonto sul fiume... Inaspettata, imprevedibile come un'annata senza grandine o un'estate senza siccità.
(Continua... )

martedì 28 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°15)

E così dal vecchio baule era uscito quell'abito di chiffon di seta: azzurro o grigio? L'aveva indossato, mentre dalla bocca della Rosina usciva un incontenibile "oh" di meraviglia...  Poi , le forbici tra i denti come un pirata il coltello, l'aveva accorciato, ripreso sui fianchi, imbastito e cucito. La sera della festa aveva completato l'opera, acconciandole i capelli con una crocchia molle, quasi sfatta, in modo da dare al suo viso quel contorno fulvo capace di valorizzarne l'incarnato pallido, quasi opalescente, come una decisa pennellata di colore. Poi, la Rosina era rimasta lì a rimirarsela per qualche minuto... Il rimpianto per ciò che non aveva, e non avrebbe più potuto avere, che affiorava nello sguardo, prima di smarrirsi nel reticolo di rughe che le ingabbiavano gli occhi.
Lei, Marilena, nulla aveva né avrebbe più dimenticato di quella sera: la musica, gli sguardi degli uomini che le scivolavano addosso, Desmo che faceva il galante, il Lambertini che l'aveva invitata a ballare, stringendola troppo; e lei che si era irrigidita, a disagio, mentre lui le sussurrava: "Siete bellissima questa sera, la più bella della festa... Una regina, la mia regina". E... Gualtiero, quel ragazzo sconosciuto, seduto accanto a Desmo, in silenzio, lo sguardo che non la lasciava ammirato, incantato, quasi soggiogato... Quando il disagio per le parole e il corpo del Lambertini stretto al suo era affiorato sul suo volto, Gualtiero si era alzato, infilandosi lento e calmo nella calca delle coppie che affollavano la pista da ballo, e aveva dato un colpetto sulla spalla al suo inopportuno cavaliere; poi l'aveva presa tra le braccia, con una delicatezza impensabile in quel pezzo d'uomo. Il Lambertini aveva mugugnato tra i denti una protesta, ma la stretta della mano di Gualtiero sulla sua spalla lo aveva fatto desistere, mentre una smorfia di dolore, rabbia e delusione gli si disegnava sul volto  puntuto che l'eccitazione e il calore del locale avevano reso, contrariamente al suo colorito abituale, quasi paonazzo.
"Grazie... " lei gli aveva sussurrato e lui aveva risposto con un sorriso, guidandola sicuro nella danza, tra le coppie che vorticavano intorno a loro. Avevano ballato insieme tutta la sera, ignorando le chiacchiere di Desmo che, ubriaco, brindava a Mussolini, al fascismo, al luminoso futuro che il Paese avrebbe avuto... lanciando oblique occhiate d'invidia a Gualtiero.
 "Vogliamo fare due passi? Fa troppo caldo qui e il fiume è bellissimo in notti come questa, illuminato dalla luna... " le aveva proposto e lei l'aveva seguito, sicura, fidandosi di lui, già decisa ad affidarsi alla sicurezza che quelle  larghe spalle da contadino le promettevano: stanca di solitudine, di bambini non suoi, di desideri solo immaginati e mai vissuti come quelli che aveva intuito in Rosina, in quella sua pelle incartapecorita di donna che mai mano di uomo aveva accarezzato o desiderato.
(continua.... )
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domenica 26 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°14)

Ma quando il primo inverno passato nella Bassa aveva ormai lasciato il posto a una brusca primavera, e i bambini le avevano portato mazzi di violette e primule raccolte lungo i fossi, e le giornate si  erano allungate e intiepidite, Marilena  aveva avvertito  il morso della solitudine.
La Rosina, sospirando, le ripeteva: "La giovinezza è un soffio, vola via... e non ritorna; cercati un bravo ragazzo... ".  Marilena sorrideva. Ma un giorno, all'uscita dalla scuola, aveva trovato ad aspettarla il Lambertini in compagnia di un ragazzo alto, un certo  Desmo, irritante ma anche eccitante nella sua spavalderia, che l'aveva invitata a partecipare.a una serata danzante alla Casa del Fascio, e lei dopo tante insistenze aveva accettato.
Appena arrivata a casa, ne aveva parlato con la Rosina.
"Ma che idea mi è venuta? Ci sarà anche quel Lambertini che non sopporto, anzi, a ben pensarci, è stato lui che ha organizzato tutto. Intuendo che non avrei mai accettato un suo invito, si è fatto accompagnare da quel ragazzo...  ", ma la Rosina, curiosissima, l'aveva interrotta chiedendole: "Come si chiama? Si sarà ben presentato?"
" Sì, sì... si è presentato, mi sembra abbia detto di chiamarsi Desmo, Desmo Bru... Bruni?"
"E' Desmo Brunelli. Gran bel ragazzo: è un fascista convinto sai!"
"Non mi piacciono gli uomini troppo presi dalla politica" aveva replicato Marilena
"Oggi chi non è fascista non va da nessuna parte... Non mi dirai che ti piacciono gli anarchici, i socialisti... "
Marilena, ridacchiando, le aveva risposto: " Cosa ne dice don Giuseppe dei socialisti?"
"Quello che ne dicono le persone serie: senza i fascisti ci avrebbero portato via anche le sedie della cucina... " e la Rosina dicendolo si era segnata, quasi chiedendo conferma  a Dio sulla verità di ciò che stava asserendo.
"La politica non la capisco, ma la miseria, la povertà dei braccianti sono reali" aveva replicato Marilena, dubbiosa.
"I poveri ci sono sempre stati e i ricchi pure, ma ognuno al  proprio posto. Che gente è quella che fa marcire il raccolto per protesta? Con la fatica che si fa a farlo crescere, il grano. Come non bastassero la grandine, la pioggia, le inondazioni del Po... e poi, lo sai, te l'hanno detto che uno di loro, un bracciante di nome Ninetto, ha ucciso - l'estate passata, c'era ancora la vecchia maestra - Decimo, l'ultimo figlio dei... "
" Ma non è sicuro, la Gendarmeria non ha trovato questo Ninetto che sembra scomparso nel nulla... E il bambino non si sa da chi sia stato ucciso. L'ho chiesto anche al Lambertini, che era presente, ma non ha voluto parlarne... " aveva risposto Marilena.
La Rosina l'aveva guardata, per un istante diffidente, ma Marilena, già distratta, l'aveva abbracciata chiedendole: "Che vestito indosserò alla festa? Non posso andarci con il grembiule nero da maestra!"
"Alla tua età staresti bene anche con quello!, ma andiamo a frugare nel baule dove ho conservato gli abiti di mia madre, tanto" e così dicendo, una tristezza senza fondo le aveva incupito sguardo "a me non servirà mai più nulla di ciò che ho religiosamente conservato per una vita".
(continua... )
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Visone del tutto personale della scrittura, nulla di accademico:
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sabato 25 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°13)

Marilena, appena giunta al paese, era stata subito corteggiata dal Lambertini, l'uomo di fiducia dei Beriot, i proprietari terrieri più ricchi della Bassa. Quell'uomo lascivo, dal cranio disadorno e giallastro come la sua faccia, i radi baffetti scuriti e bruciacchiati dal tabacco e gli occhi piccoli che le scivolavano addosso mentre con la lingua s'inumidiva le labbra sottili quasi pregustando il sapore della sua pelle, la disgustava al solo vederlo. Il Lambertini non perdeva occasione per farsi trovare nei paraggi della scuola, offrendole un passaggio sul suo calesse quando pioveva o proponendole una passeggiata nelle giornate di sole, ma lei trovava sempre una scusa, voltandogli le spalle con quell'aria decisa ma educata da ragazza cresciuta in collegio, un rossore lieve che, come un soffio di belletto, le accendeva il volto rendendola agli occhi del maturo spasimante ancora, se possibile, più attraente.
In quei primi mesi nel paese, i boschi accesi di rosso e il fiume lucente di nebbia, a Marilena erano bastati il calore dei bambini, le risate con cui seguivano i suoi racconti, la fiducia che le dimostravano  affidandosi alla stretta delle sue braccia per farsi consolare, soprattutto i più piccoli, quando guardavano sconsolati allontanarsi le madri, attaccati alla finestra... E poi la libertà mai sperimentata, mai provata in anni di collegio, di chiusura, di finestre tra lei e il mondo, a isolarla dalla vita.
Rosina, la suora mancata, la coccolava, preparandole, al mattino, l'uovo sbattuto con lo zucchero e i biscotti appena sfornati che lei, Marilena, spesso si ficcava nelle tasche per portarli ai bambini, consapevole di essere una privilegiata di fronte a molti dei suoi alunni che, magri come acciughe e pallidi, se avevano un pezzo di pane nero e duro da mangiare per merenda, erano già fortunati.
Figli di braccianti traslocavano - facendo San Martino, come si diceva nella Bassa - a ottobre, finita la stagione del raccolto e della vendemmia, con i loro quattro stracci legati  alla meglio sui carri trainati dalle vacche. Emigravano, come stormi di uccelli alla ricerca dell'estate, sperando in paghe meno misere. Dietro a loro, braccianti ancora più poveri, costretti ad accontentarsi di paghe ancora più basse, con bambini sparuti come uccellini infreddoliti, affamati e pieni di pidocchi, prendevano possesso delle case appena abbandonate.
Marilena, che li vedeva passare davanti alla scuola, si affacciava alla porta per un ultimo abbraccio, prima di vederli sparire, ingoiati dalla polvere o dalla nebbia.
(continua... )
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giovedì 23 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°12)

Marilena non aveva legami familiari in linea retta essendo orfana di entrambi i genitori - periti nell'incendio della loro casa che aveva per non si sa quale oscuro disegno divino risparmiato lei - e senza figli. Dopo la loro morte, l'unico parente rimastole, il fratello della madre, l'aveva data a balia a una contadina e, appena si era fatta un po' più grande, l'aveva messa in collegio dalle monache. Ricordava della sua infanzia quello svolazzare di tonache nere, lo zio era prete, e il fruscio delle vesti monacali bianche, l'oro delle chiese, l'odore della canonica che sapeva d'incenso e polvere...
A ricordarle i suoi genitori una fotografia sbiadita, scattata il giorno delle nozze, e la sensazione vaga di un abbraccio, uno soltanto, in una mattina di sole, mentre una voce femminile cantava "Cocò, cocò cavallo, la mamma vien dal ballo, con le tettine piene, per darle alle putele... " forse, più che un ricordo, un desiderio o un rimpianto per qualcosa che non aveva potuto avere.
Era uscita dal collegio con il suo diploma di maestra sotto il braccio e una valigia di cartone che pesava ben poco. Lo zio prete si era rivolto al parroco che aveva contattato il vescovo, e una mattina di ottobre era arrivata in quel paese della Bassa padana, lasciandosi alle spalle il Friuli, le monache e una lunga fila di giorni tutti eguali che già sbiadivano in un grigiore indistinto nella sua memoria.
Insegnare le era piaciuto subito anche se, avendo una pluriclasse, era costretta a passare in contemporanea dalle aste pasticciate degli alunni del primo anno ai dettati e ai problemi degli alunni più grandi, in quello stanzone, gelido d'inverno e già rovente all'inizio della primavera, dove i bambini arrivavano con gli zoccoli infangati  e le mantelle inzuppate d'acqua ed era, a volte, più il tempo che passava ad asciugarli, accendere e rinvigorire il fuoco nella stufa, correre a cercarli nel cortile per farli rientrare dopo l'intervallo, medicare punture di tafani o piccole ferite, che quello che poteva dedicare alla loro istruzione, tanto più che il dialetto che parlavano rendeva, almeno per tutto il corso del primo anno, problematica la comunicazione.
Maestra giovane e inesperta, era cresciuta professionalmente e umanamente insieme a loro, imparando a conoscerli uno a uno, con quei nomi strani che i contadini inventavano per i loro figli per non ricorrere ai nomi dei santi, poiché la maggior parte degli abitanti della Bassa si ricordava di loro (dei santi e delle sante) soltanto quando si metteva a bestemmiare... E le occasioni non mancavano perché la vita era veramente dura e la fame tanta.
Marilena aveva trovato  alloggio, sempre grazie ai contatti dello zio prete, presso la sorella di una monaca di clausura,  la quale pur non avendo preso i voti vestiva come una suora e sapeva di cera sfatta e incenso, forse perché passava la giornata in chiesa, a sfregare ottoni, strofinare pavimenti e spolverare reliquie, segretamente - ma neanche tanto - innamorata di don Giuseppe, alto e imponente, occhi neri come la notte che si accendevano quando recitava i suoi sermoni dal pulpito, ma anche quando incontrava lei, Marilena, la giovanissima maestra venuta da lontano a ravvivare con i suoi berretti colorati, la sua giovinezza e la sua acerba grazia, il grigiore di nebbia che avvolgeva il paese come un velo da sposa.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_22.html

mercoledì 22 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°11)

Il silenzio che per anni tra lei e il marito era stato mancanza di parole, ma mai di affetto, e complicità che bastava uno sguardo a sancire o un sorriso a suggellare, aveva assunto ora una valenza diversa. Inquietante. Le parole tra loro non più superflue, ma pericolose, rese taglienti come coltelli da lei che con quelle frasi sibilline sembrava trastullarsi, senza che Gualtiero ne cogliesse il senso pur percependone l'aggressività e la furia a stento trattenuta.
Incapace di tenere testa alla moglie sul piano dialettico - nei pochi anni in cui aveva frequentato quella scuola di paese che aveva vissuto come una gabbia, una galera che gli aveva fatto conoscere, per la prima volta nella sua vita, tedio e noia, insegnandogli solo a leggere e a scrivere stentatamente, perché a far di conto, velocemente e in modo corretto, glielo avevano già insegnato la sua miseria di contadino e le ruberie del padrone   - si difendeva nell'unico modo che conosceva, trattando la moglie come in campagna aveva visto trattare le donne: con arroganza e disprezzo. Considerandole petulanti come galline, ciarliere come gazze e ottuse come vacche... ma indispensabili, ovviamente, al pari degli schiavi per i padroni.
Se Gualtiero avesse soltanto intuito che lei si sentiva, in quella cucina - che lui aveva così amorevolmente dipinto di verde, perché le desse la sensazione di trovarsi in un bosco - come lui si era sentito a scuola: in trappola e come lui allora, in gabbia, nonostante le finestre (abitavano all'ultimo piano) spalancate sul cielo e quella porta di cui possedeva le chiavi e che avrebbe potuto varcare in ogni momento... ma per andare dove? In un'altra galera, anche se più complessa da definire, con le sue sbarre non sempre visibili e le sue grandiose promesse. Vere o fasulle? Ma era lei, Marilena, con quel suo sentirsi fuori luogo, fuori posto, fuori tempo massimo, dentro e fuori casa, la nota sbagliata, stridente, che rovinava il coro?
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_21.html

martedì 21 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°10)

"Ci vuole poco a farsi amare nella stagione dei gelsomini, quando fioriscono i giardini... " mormorò Marilena.
Gualtiero la guardò, interdetto. "Ma cosa stai dicendo?"
"Che le  stagioni cambiano" lei gli rispose.
"E allora?"
Lei tacque e tornò ai fornelli. L'inverno cingeva d'assedio la casa, ma non soltanto quella.
Gualtiero non capiva, o fingeva di non capire? Cosa era cambiato in lui? Nulla. Era l'uomo di sempre, ordinato e metodico, che la cercava nelle notti più fredde, in silenzio, riscaldandosi a quel tepore momentaneo che la pelle di lei gli aveva sempre dato. Poi, si addormentava tenendola stretta. Come sempre, come allora nella casa sul fiume.
Ma erano passati gli anni, la casa era stata venduta, avevano comperato quell'appartamento nel casermone di periferia, vicino alla fabbrica. Gualtiero a volte, finito il lavoro, si fermava all'osteria a bere un bicchiere di vino, ad ascoltare i compagni. Ma li ascoltava o ruminando quel suo silenzio, ancorato alla sua abituale visione del mondo, si limitava a valutare la bontà del vino? - si chiedeva Marilena, muovendosi nervosamente avanti e indietro nella cucina, come un inquieto uccello in una gabbia troppo stretta.    
"Mussolini non mi piace", e lo disse aggressiva, portando in tavola il risotto fumante.
"Perché?"
"E' ridicolo!"
Gualtiero affondò la forchetta rigirandola nel piatto e il calore del cibo gli arrossò il viso stanco. "Ha riportato l'ordine" disse.
"Con quali metodi?" e, senza attendere la sua risposta, ostinata, una ruga sottile che le si disegnava tra le sopracciglia, concluse  "e comunque é ridicolo!"
"Un cane ringhioso lo devi picchiare, anche un toro che ti molla un calcio: una legnata e via.Voi donne... Cosa ne capite, voi donne,di quello che succede fuori, nel mondo " e, dopo una breve pausa, seccato, concluse " E, ora, lasciami mangiare in pace... "
Marilena avrebbe voluto rispondergli che l'eco di ciò che stava avvenendo nel mondo, arrivava fino a lei, invadeva la sua cucina, s'insinuava prepotente nei suoi pensieri, la faceva riflettere, rendendola inquieta, dubbiosa, ma il volto di Gualtiero, gli occhi abbassati sul piatto, la mascella rigida che si muoveva mentre ritmicamente masticava, escludevano ogni possibilità di comunicazione, conferendo al silenzio, calato bruscamente sulla cucina, una insolita e fastidiosa sonorità.
(continua... )

http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_20.html

lunedì 20 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°9)

       Gualtiero non avrebbe più dimenticato quel giorno d'agosto... e quel dubbio su quanto aveva visto, intravvisto?, attraverso quella coltre d'acqua che cadeva dal cielo, abbattendosi sui campi dove le spighe, ormai mature, crollavano a terra falciate da quella tempesta d'acqua che sembrava non avesse fine. Era arrivata la Guardia Regia; c'erano stati interrogatori, arresti. Alcuni erano riusciti a fuggire, tra loro anche Ninetto. Il Lambertini e Desmo si erano proclamati innocenti, affermando il primo di aver appoggiato il fucile - che era abituato a portare con sé, a tracolla, solo per sparare ai cani randagi o a qualche fagiano sorpreso nei campi -  accanto al calesse, e il secondo spergiurando di non averlo, quel maledetto fucile, nemmeno visto. Le donne, spaventate da quanto era successo e intimorite dai gendarmi, avevano dato versioni confuse, contrastanti.
Rosina, la madre di Decimo, era quasi impazzita dal dolore: il ragazzino, l'ultimo dei suoi dieci figli, il più piccolo della fattoria, pulcino goffo tra galletti, era stato sepolto sotto una semplice croce di legno, poiché - come aveva detto il padre - "Era ai vivi, ed erano tanti, che si doveva pensare". Ma la madre di Decimo non era riuscita  a darsi pace per quella sua creatura che non c'era più, e ogni mattina passava al cimitero, lo scialle nero sulla testa, una preghiera sulle labbra e un dono stretto tra le dita: una chiocciola vuota di lumaca, un fiordaliso, un quadrifoglio o un sassolino di fiume.
In quello sguardo disperato, che si posava sospettoso su chiunque le stesse di fronte, affiorava ora, accanto alla disperazione, anche un ostinato bisogno di giustizia,  perché se non aveva più un figlio da amare avrebbe dovuto avere almeno il suo assassino da odiare.
Com'era prevedibile, il raccolto era andato quasi del tutto perduto, ad alcune vacche era venuta la mastite e anche il vino aveva fatto la sua parte, risultando acidulo e così aspro da farlo sputare anche ai bevitori più incalliti.
Era seguito un anno terribile per i contadini della Bassa, e non soltanto per loro; anche nelle città la vita si era fatta difficile, con tutti quegli uomini tornati dal fronte, senza più lavoro, costretti, gli operai come i braccianti agricoli, ad accettare paghe da fame. Un'ondata di scioperi si era abbattuta sul Paese: la piccola borghesia, i ceti industriali e agrari avevano tremato, ma anche tramato... E Mussolini aveva riunito intorno a sé uomini decisi a ristabilire l'ordine, a contenere la protesta. Desmo aveva aderito con entusiasmo al fascismo, entrando prima a far parte dei Fasci Italiani di Combattimento e iscrivendosi, poco dopo, al Partito Nazionale Fascista.
E Gualtiero, dietro, anche se non sempre del tutto convinto.
(continua... )

http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_17.html

venerdì 17 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°8)

Ninetto non l'aveva vista arrivare: aveva il sole in faccia e rideva. Centrato in piena fronte, il sangue che mescolandosi al sudore e alla pioggia gli appannava la vista, era caduto in ginocchio. Ma, quasi subito, portandosi una mano al viso e bloccando con l'altra, perentorio, i due uomini che si erano avvicinati per sorreggerlo, si era rialzato ed era sceso, ancora barcollante, dal terrapieno, lo sforzo che gli strappava dalle labbra una sorta di urlo da animale ferito. Dietro a lui, seguendone ogni passo, si erano  avvicinati minacciosi anche gli altri.
Poi, l'inferno. I Dellavilla erano stati i primi a mollare i falcetti e a darsela a gambe sotto il temporale estivo,  mentre il Lambertini, il viso contratto dalla paura sotto il cappello fradicio di pioggia, persa la sua abituale baldanza, indietreggiava dicendo qualcosa tra i denti che i tuoni, le urla delle donne raggruppate intorno alla porta della stalla e i gemiti delle mucche, rendevano un incomprensibile balbettio.
Poi Ninetto era quasi rotolato addosso a Desmo mentre lui, Gualtiero, si era trovato davanti altri due braccianti inferociti. Sotto l'acqua che scendeva a secchi gli uomini avvinghiati, ansimando sotto i colpi che ricevevano e restituivano, si erano ritrovati a sguazzare nel fango, tra i sassi che volavano e le donne, che uscite dalla stalla, avevano invaso l'aia gridando e mescolando alle urla, totalmente inascoltate dagli uomini che continuavano a picchiarsi, segni di croce e preghiere.
Nessuno seppe mai, con certezza, da dove fosse spuntato quel fucile, chi l'avesse portato, se fosse stato il Lambertini a sparare, oppure uno dei braccianti di Ninetto, se non Ninetto stesso, o, presa dalla disperazione, pensando soltanto di sparare un colpo in aria, una delle donne... ma qualcuno lo puntò contro la spalla e fece partire un colpo, basso, ad altezza d'uomo, no, un po' più basso, ad altezza di bambino. Decimo, il nipote più piccolo di Gualtiero, sembrò per un attimo volare, come un passero nell'aria, per poi ricadere scomposto nel fango, la maglietta che s'inzuppava d'acqua e diventava rossa, sempre più rossa, come se il bambino tenesse tra le braccia, stretto al petto, un mazzo di papaveri.
(continua... )

Alla fine la vita ti prende sempre, o quasi, per i fondelli

Ho visto ieri La versione di Barney del regista Richard J. Lewis. Risulta sempre difficile portare sullo schermo (?) un romanzo, ma nel caso in questione tale scelta avrebbe richiesto, boh, una bravura sovrumana. Se il film si salva è soprattutto grazie alla indiscussa bravura di Dustin Hoffman e Paul Giamatti.
Ricordo di aver letto il libro, anzi di averlo divorato, in una notte o poco più, resa particolarmente percettiva da una febbre da cavallo per un'influenza che mi aveva costretta a letto. Mordecai Richler, quando decide di scrivere la sua autobiografia è appesantito, ma più che dagli anni, dalla vita e lo sa, ma vorrebbe conoscere le ragioni di quel peso, frugare nel sacco che gli pende sulle spalle, quel sacco gonfio di errori, bugie sussurrate a mezza voce, piccole e grandi vigliaccherie, intelligenza genialmente ignorata e presuntuosamente rivendicata. Ma è anche malato, e questo non lo sa, ma è troppo intelligente per non intuirlo. E allora, per non impazzire o esagerare con la depressione, si ancora alle parole, s'incatena alla  terra attraverso i ricordi, i suoi ricordi, quelli che lui sceglierà di selezionare per costruirsi una vita che possa rendere accettabile, giustificandola, la violenza della morte. Ma è ateo, ebreo, ironico - ancora, disgraziatamente per lui, intelligente - e quindi dalla sua memoria tracima il vero Barney, un po' coglione, apparentemente disincantato ma tanto ingenuo e fragile da credere all'amore eterno, ben sapendo che è amore di sé e per sé, e che nulla, o ben poco, ha fatto per rispettare questo sentimento, per preservarlo dai miasmi mortali del suo egoismo. A fare da sfondo alla sua storia tutta l'arroganza di quel mondo americano, stereotipato e fasullo, in cui si agitano scrittori, pseudointellettuali, registi radical-scic che passano la vita a sbranarsi, malignando uno alle spalle dell'altro e, sempre a scapito di qualcun altro, ad arricchirsi. Ma la memoria - il serbatoio della sua vera vita, il porto sicuro dal quale fuggire ma sapendo di poter sempre tornare - gli si rivolterà contro... Smangiato dall'Alzheimer, riafferrerà brandelli di emozioni autentiche, squarci momentanei di una vita che, come quasi tutti noi, avrebbe voluto diversa, ma senza avere la capacità di renderla tale.
Nel film, purtroppo, la profondità, l'ironia e l'incanto che accendono il romanzo, sfumano, rendendo la storia piacevole, ma nulla di più.

giovedì 16 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°7)

Desmo, alto e largo di spalle, il passo lento e sicuro del contadino, ignorando ostentatamente gli uomini schierati sul terrapieno, aveva raggiunto con un balzo il campo di grano, ponendosi alla testa dello sparuto gruppetto di braccianti che lo seguiva, come un cane il padrone, allarmato ma anche rassicurato da tale arrogante baldanza.
Anche il Lambertini - pure lui a gambe larghe come il Ninetto, le braccia conserte, l'aria truce, il sudore che, più per la paura che per il caldo, gli ammollava il viso sparuto e appuntito da faina - aveva tirato un sospiro di sollevo.
"Le donne possono andare a mungere... " aveva detto Desmo ad alta voce, per farsi sentire da tutti, aggiungendo: "Ora al grano ci pensiamo noi! Forza ragazzi, che il tempo sta cambiando... "
Il Lambertini, riacquistato colore, saltellava di qua e di là, dando consigli ormai inutili, poiché le spighe avevano ricominciato a cadere a terra in larghi mucchi dorati sotto i colpi dei falcetti.
Dall'alto gli altri braccianti guardavano, in silenzio.
Lui, Gualtiero, ricordava di essersi avvicinato  a Desmo, quasi a cercare protezione dietro le larghe spalle dell'amico. Il sole sempre più alto nel cielo aveva reso la calura quasi insopportabile, facendo ronzavano mosche e calabroni e, in sottofondo, frinire grilli e cicale, quando a quel crepitio di steli spezzati si era unito un borbottio di tuono in lontananza.
Sul terrapieno, immobili, gli altri uomini continuavano a osservare, sempre in assoluto silenzio.
Poi, erano cadute le prime gocce di pioggia: lente, rade... Il cielo aveva repentinamente cambiato colore, si era alzato il vento a scompigliare le spighe a terra, facendole volare. Una, dritta come un siluro, era arrivato sul terrapieno davanti a Ninetto che l'aveva afferrata,  infilandosela tra le labbra con un gesto lento e sicuro; un sorriso largo gli aveva rilassato la mascella contratta, e mentre le gocce di pioggia s'infittivano, le nubi si addensavano e i falcetti dei mietitori si fermavano uno a uno, gli era esplosa sulla bocca quella risata che aveva contagiato in un crescendo inarrestabile tutti gli uomini schierati sul terrapieno.
"Dai e dai, avete roto 'i bali anche... " aveva urlato Ninetto, alzando il dito verso il cielo.
A quel punto era volata, anch'essa dritta come un siluro, la prima pietra.
(continua...)

http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_15.html

mercoledì 15 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°6)

Gualtiero, invece, ricordava ogni particolare di quella mattina d'agosto, con il sole che incendiava i campi di grano e l'aria che sembrava percorsa da un pulviscolo d'oro... e l'Antonia che correva lungo l'argine, gridando. Era stata lei, la moglie del Ninetto - bracciante che era diventato nella zona quasi una leggenda, - a portare la notizia della riduzione della paga oraria ai braccianti, con il grembiule ancora allacciato addosso e le mani impiastricciate di farina. Ninetto, il marito, dopo averla ascoltata calmo, almeno apparentemente, si era asciugato il sudore; poi, lentamente, aveva alzato il falcetto. A quel gesto, tutti gli uomini si erano fermati all'unisono, il silenzio che calava, irreale, avvolgendo quei falcetti levati in alto, quelle spighe recise a terra, mescolate al rosso dei papaveri.
"Boia d'un mond laeder..." aveva borbottato uno degli uomini, il più anziano, asciugandosi il sudore che gli bruciava gli occhi.
Il Lambertini, l'uomo di fiducia dei padroni, era diventato pallido sotto l'ala del cappello che gli riparava il viso dal sole e gli dava un'aria da "signore", anche se, quando beveva con i contadini, solo  lo sguardo che gli scivolava, ingordo, sui fianchi delle donne, lo rendeva simile ai padroni. Poi, con fare sbrigativo, aveva detto a Ninetto: "Intanto falciate, che fa un caldo boia.... ci sono quelle nuvole che non mi piacciono; se non tirate su i covoni e viene la pioggia, qui possiamo dire addio al raccolto... "
 Lui, Gualtiero, era stato mandato a cercare Desmo, e se lo ricordava bene poiché tutto era cominciato in quel dannato giorno. Mentre correva lungo il viottolo aveva sentito i primi tuoni e la cappa d'afa sulla pianura farsi più soffocante.
Intanto il Lambertini, di fronte al rifiuto dei braccianti di riprendere il lavoro, aveva chiamato le donne di casa, affinché affastellassero almeno le spighe già recise, per portarle al coperto. Le vacche che venivano munte dalle donne, soprattutto d'estate quando il lavoro nei campi era più  faticoso e adatto agli uomini, avevano intanto cominciato a muggire e a battere gli zoccoli sul terreno, assetate, le mammelle gonfie di latte fino a scoppiare.
Quando lui e Desmo erano arrivati, dopo essere riusciti a reclutare altri braccianti - tra i quali I Dellavilla, che erano i più poveri della zona e abitavano sotto il livello del fiume, là dove alla prima pioggia il Po esondava - avevano trovato Ninetto e gli altri schierati sul terrapieno che costeggiava l'argine. Per un effetto di prospettiva, visti dai campi, posti  in basso, i braccianti apparivano più alti, qualcuno a gambe larghe, le braccia incrociate, negli occhi timore ma anche rabbia e determinazione. Scuri contro il cielo, incombevano come soldati  posti a guardia del raccolto.
Sotto, il ragioniere Lambertini, la camicia chiazzata di sudore e le scarpe impolverate, tentava di fronteggiare la situazione, dando ordini alle donne e scrutando ora il cielo, ora la strada  dalla quale li aveva visti arrivare.
(continua.... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_12.html

martedì 14 giugno 2011

Tolstoj e il referendum

Il risultato del referendum "sorprende", "sbalordisce", risultando "imprevedibile" per molti, forse troppi tra noi. Perché? Fino a quando a esserne sorpresa, anche se molto piacevolmente, è una persona come me - pensionata costretta in casa da problemi di salute, abituata a trarre informazioni dai giornali, dalla Tv e in parte - ma solo in parte, da Internet - la cosa non meraviglia, ma quando a essere colti di sorpresa sono politici, giornalisti, commentatori televisivi e opinion maker la faccenda non può non farci pensare.

Ma questi dov'erano in questi anni di fuoco? Con chi parlavano, che informazioni traevano dai loro contatti? Avevano colto segnali di cambiamento e, in caso affermativo, che indicazioni ne avevano tratto? Ora che è emerso - o sta emergendo - l'iceberg contro il quale la classe politica è entrata in rotta di collisione, mi (e vi) chiedo : "Ma la punta dell'iceberg nessuno l'aveva scorta? Nessuno, tra gli strumenti sofisticati d'indagine usati, l'aveva individuata? Il Paese viaggiava nella nebbia, veleggiava sommerso dalle brume?".

E dire che si era mostrato quel Paese, agghindato di tutto punto come per la messa domenicale, in piazza e in tanti(e): con le loro bandiere(sempre meno di partito), con i loro problemi urlati in quelle stesse piazze e, quando non bastava, sbandierati dall'alto delle gru, dai tetti delle fabbriche, sottolineati (anche) dagli scioperi della fame... Erano donne, precari, disoccupati e cassaintegrati, erano cittadini che bloccavano le ruspe per lavori  che avrebbero devastato il territorio, erano madri/padri, con i marmocchi sulle spalle o addormentati nei carrozzini, che passavano le nottate a presidiare le scuole materne, a reclamare quei nidi  (indispensabili per le donne lavoratrici) che si volevano "tagliare" , erano cittadini che si opponevano ai camion, stracolmi d'immondizia, che si volevano vuotare in discariche che confinavano con i loro orti, in inceneritori che avrebbero messo a rischio la loro vita e quella dei loro figli.

E allora perché tanta sorpresa? Soprattutto perché tanta sorpresa abbinata a tanta informazione? E' arrivato  forse il momento di interrogarsi sulla qualità dell'informazione? Sulla parte avuta dai giovani, dai precari, dalle donne nell'organizzazione di questa rivolta portata avanti con mezzi democratici e pacifici?

E' arrivato il momento - come affermava, per voce di un suo personaggio, Tolstoj in Guerra e Pace - che anche "la chioccia vada a lezione dai pulcini"?

lunedì 13 giugno 2011

E se...

E se la brezza fosse diventata vento?
E se avessimo ritrovato la voglia di partecipare?
E se le bugie si fossero azzoppate?
E se la verità, come un maratoneta etiope, scalzo e assetato,
fosse sul punto di tagliare il traguardo?
E se raggiungere il quorum fosse possibile, anche se difficile?
E se i sogni si avverassero?
L'altra Italia,
quella in piazza,
si darebbe a festa pazza.

domenica 12 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°5)

Marilena sospirando scese dal letto, cercando a tastoni le ciabatte. Il silenzio della stanza si andava animando dei rumori di sempre: sbatteva una porta, voci di donna si alzavano stridule, piagnucolavano bambini nel caseggiato dove la vita riprendeva.
"Gualtiero alzati! Ti preparo il caffè... "
"Bello forte: ho dormito male!" le rispose il marito, borbottando, quasi parlasse tra sé e sé. Non mi abituerò mai a questo posto, al suo rumore, all'aria fumosa, a queste case dai muri di carta - pensò, sentendosi addosso lo sguardo della moglie e intuendo, da quello sguardo, la profondità, il morso costante che doveva procurarle il senso di colpa.
Marilena, infatti, pensava, anzi era sicura, che il marito avesse lasciato la casa sul fiume e si fosse trasferito in città a causa sua: per toglierle quella smorfia amara dalle labbra, per restituire ai suoi occhi, grigi come le brume sul fiume d'inverno, quel fuoco che l'umidità di quella terra aveva spento, per ridarle quella forza che in lei  si era raggrumata tutta nella bocca che, tagliente, le induriva il volto, annullandone la dolcezza come un tratto di penna, netto, sopprime da un testo una parola sbagliata. Il figlio tanto atteso non arrivava, una nuova vita non poteva scaturire da quel loro nuovo, frettoloso, modo di amarsi, lei che si aggrappava a lui soltanto per farsi rassicurare dalle sue braccia, quando la civetta emetteva il suo grido o la cornacchia gracchiava indisponente, mentre più acuto si faceva il rimpianto di quelle lontane notti d'amore sull'argine del grande fiume o sul barchino nascosto tra  canneti, con il canto sommesso dell'acqua a cullarli e il velo della nebbia a celarne la presenza.
Gualtiero ora faceva l'operaio in fabbrica e lei non insegnava più: la sede a cui l'avevano assegnata si era rivelata troppo lontana, difficilmente raggiungibile con il sistema dei trasporti urbani, e Gualtiero, quando l'aveva vista allungarsi e impallidire come la luce di una candela prima di spegnersi, l'aveva fatta restare a casa: come fa un uomo che si rispetti, imponendosi! E lei? Lei aveva obbedito, come fa una donna consapevole del suo ruolo.
Mentre accendeva il fuoco e scaldava l'acqua in cucina, Marilena sentì il marito muoversi con l'abituale lentezza, il pavimento di legno che scricchiolava sotto i suoi passi calmi e sicuri di contadino che poco e male si adattava a quella vita di città, a quella frenesia di cose da fare, agli orari da rispettare con il fiato del padrone sempre sul collo. Gualtiero era tornato a casa allegro soltanto quel giorno in cui in fabbrica era arrivato Mussolini. 'Uno come lui!, legato agli stessi valori, quadrato, forte. Deciso a farsi rispettare! Uno della sua terra, insomma... ' aveva detto a Marilena, che aveva voltato la testa dall'altra parte fingendosi intenta a "tirare la sfoglia", per non cogliere nello sguardo del marito il rimpianto che lei ben conosceva, e non soltanto quello.
A Gualtiero, infatti, mancava il contatto con la grassa terra padana in cui affondare le dita, la vista del fiume con i suoi canneti e le anatre che si alzavano in volo, nere contro il cielo chiaro dell'alba, il ritmo delle stagioni... e la nebbia. Sì, gli mancava anche la nebbia, il suo odore, il senso di mistero che conferiva al paesaggio sfumandone i contorni per lasciarli appena intuire. Cosa aveva trovato in città? Soltanto il fumo, nero e denso, delle fabbriche ormai riconvertite dopo gli anni della produzione bellica, e compagni di lavoro che parlavano un altro dialetto, lamentandosi dei marmocchi, delle mogli e dei soldi che non bastavano mai.
Ma Marilena non sapeva tutto...
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/06/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata.html (puntata n°4)

sabato 11 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°4)

Veniva da una famiglia di mezzadri Gualtiero ma, contrariamente alle abitudini di casa, quando era morto quel lontano cugino di sua madre lasciandogli, con sorpresa di tutta la famiglia, quella casa squadrata, grigia come le nebbie che dal Po traspiravano alitando quasi perenni sulla pianura della sua terra, aveva messo sul carretto le sue quattro cose, uno schiocco di frusta e via... Da allora, alla sera, nonostante la stanchezza della giornata lavorativa, i conigli, le galline e l'orto, amava costeggiare la riva del fiume a piedi, vedendo l'acqua farsi scura per poi brillare, rilettendola, alla luce della luna. Era un solitario, Gualtiero, che non amava sprecare nulla, neanche le parole, abituato com'era alla frugalità contadina.                                                                                                                                             Al mattino, una tazza di latte e due rossi d'uovo ancora tiepidi, presi prima di salire sul carro per iniziare il giro dei casolari a raccogliere il latte, gli bastavano. Poi, quattro parole con i contadini insonnoliti - che smadonnavano sul tempo,  o sulle vacche, o sugli acciacchi che quella stagnante, persistente umidità, quasi un respiro costante del fiume, sembrava procurasse alle ossa - esaurivano il suo bisogno di contatti umani.                                                                                              
Però con Desmo aveva fatto un'eccezione: aveva cominciato a parlare: a parlare di politica. Desmo, l'unico figlio maschio dei Brunelli, quelli che abitavano l'ultima  casa che lui visitava nel suo giro mattutino, era un ragazzo deciso, a cui piaceva comandare, anche a costo di menar le mani e di alzare la voce. Quando lui, Gualtiero, arrivava in anticipo - e a volte succedeva - Desmo, dopo averlo fatto entrare in cucina, chiamava la madre che accorreva: una bottiglia di lambrusco in una mano e la cicciolata nell'altra; gli riempiva il bicchiere di vino, e poi spariva. Silenziosa come deve essere una reggitora emiliana quando sono gli uomini a parlare: di affari o di politica.
(continua.... )

venerdì 10 giugno 2011

Storia di nebbie e acquitrini




Non la smetteva di piangere quel neonato, ma Gualtiero non si era mosso, controllando anche il respiro per non allarmare Marilena, o piuttosto, per non dare un seguito a quelle parole che la moglie aveva appena pronunciato. Le donne senza figli sono come alberi senza foglie - pensò, cercando di riaddormentarsi, ma invano. Quando l'aveva conosciuta - a una festa organizzata alla Casa del Fascio - l'aveva trovata bella, anche se pure allora gli era sembrata troppo magra. Lui era abituato alle donne della Bassa padana,  fianchi e tette generosi, guance tonde e rosse: donne che partorivano veloci , sgravandosi come le vacche nelle stalle, per tornare al lavoro, a lavare le lenzuola e i panni del bambino, già il giorno dopo il parto. Forse anche per questa sua fragilità l'aveva colpito, sembrandogli un segno di distinzione, di eleganza. Aveva scoperto che Marilena faceva la maestra, e ridendo le aveva detto: "Bastava guardarle le mani, signorina... ", e anche lei aveva sorriso, mettendosi una mano davanti alla bocca, con la grazia con cui avrebbe potuto usare un ventaglio. Avevano ballato in silenzio, senza parlare, i loro corpi che si sfioravano a tratti, il profumo di lei che gli entrava nelle narici, ricordandogli l'acqua di colonia che sua madre si metteva dietro alle orecchie nelle grandi occasioni...
L'aveva amata subito, senza sapere nulla o quasi della sua vita. E lei?
Uomo quadrato, senza tentennamenti, non si era posto tante domande; non faceva parte della sua natura smarrirsi tra i pensieri. Lui amava fare, brigare: di giorno lavorava da un casaro, la sera zappava l'orto, si occupava delle galline, mungeva la capra, andava a prendere l'erba per i conigli. Era nato in una famiglia contadina, sapeva fare un po' di tutto, "aveva le mani d'oro", come diceva sua nonna.
(continua... )

http://falilulela.blogspot.com/2011/06/incipit-o-raccontino.html    (puntata n°1)
ttp://falilulela.blogspot.com/2011/06/e-incipit-sia-puntata-n2.html (puntata n°2)

Titolo provvisorio

Potrebbe essere Storia di nebbie e acquitrini. Il titolo è importante ma maledettamente difficile...

giovedì 9 giugno 2011

Scrittura: ora e sempre

E ora dovrò trovare un titolo, mentre il racconto si sta appena delineando... Ho il vizio di costruire  i miei racconti lunghi così: senza una scaletta. Penso sia sbagliato ma mi è congeniale. Ciò che mi preme di più è scrivere. E' una passione e di questo sentimento ha tutte le caratteristiche: è irragionevole, tenace, avvincente, prepotente, fascinosa, subdola, vivificante, sospettosa, ardita, possessiva fino alla dipendenza. 
Mi tiene in vita, aggrappata a un paracadute di parole...
Chi mi suggerisce un titolo?

E incipit sia (puntata n°2)

Allora è deciso. E incipit sia!
"Dormi, non è ancora giorno... " le disse, la voce di nuovo ferma anche se guardinga, soltanto il respiro un po'più affannoso prima di rivoltarsi nel letto pesantemente, offrendole la schiena. Lei rimase immobile, lo sguardo puntato sulla finestra, senza sapere cosa fare ma intuendo che sarebbe stato  tutto diverso da quel momento. "Dormi, non è ancora giorno... " le aveva detto, ma il giorno era arrivato e lei aveva dormito anche troppo.
Non avevano avuto figli. Il medico di famiglia al quale si era rivolta aveva scosso la testa e, tastandole la pancia, dopo averle infilato quell'aggeggio freddo, metallico, tra le gambe, aveva borbottato "Sembrerebbe tutto a posto... ", mentre lei si rivestiva. Poi, dopo averla guardata con aria di disappunto, le aveva  prescritto un ricostituente. "Deve ingrassare, è troppo magra...  E' per questo motivo che non rimane incinta!" aveva aggiunto, ma non del tutto convinto, dato che aveva sussurrato quel "forse" al quale lei si era aggrappata per poter continuare a sperare.
Nel casermone dove vivevano, tutte le coppie giovani avevano figli, e lei li sentiva giocare, gridare - soprattutto con le finestre aperte su quelle giornate estive interminabilmente chiare - litigare e ridere. I padri al ritorno dal lavoro si fermavano a salutarli; soltanto suo marito, solo Gualtiero, saliva subito, impettito, allentando sulle scale  la cravatta  per dare respiro al collo solido e corto, alla faccia quadrata che tradiva le sue origini contadine. 
Sentì distintamente il pianto di un neonato. Erano passate poche settimane dal trambusto di quella notte in cui era arrivata la levatrice e le urla si erano sentite fino al cortile, tanto che Gualtiero aveva borbottato "Sembra stiano ammazzando un maiale", ma con dispetto, perché con quel figlio il vicino si sarebbe assicurato una medaglia, un attestato firmato forse dallo stesso Mussolini...Be', lui, Gualtiero, era un buon fascista, andava alle adunate, e se lei non si fosse opposta con tutte le sue forze avrebbe partecipato anche alla Marcia su Roma, ma, ma.... figli, niente. Nemmeno l'ombra.
(continua... )

mercoledì 8 giugno 2011

Incipit o raccontino?

L'equilibrio è fatto per essere rotto - pensò. Nell'oscurità della notte estiva che il chiarore di una luna invadente attenuava, intravedeva la sagoma dell'uomo che le dormiva accanto; sentiva il suo respiro, quel respiro che l'aveva sempre rassicurata quando insonne si rivoltava nel letto cercando il calore del suo abbraccio, quel respiro che lasciava spazio a un  borbottio cantilenante: "Dormi, dormi, stai tranquilla... " che le faceva, finalmente, chiudere gli occhi e, obbediente,  abbandnarsi al sonno. Ma quella notte quel respiro l'aveva svegliata: fastidioso aveva infranto la perfezione del silenzio che le aveva conciliato il riposo,  insinuandosi - come un ospite sgradito - nella sua testa, mentre il  il corpo del marito si faceva muro, cancello, ingombro posto sul suo cammino. Turandosi le orecchie, si era scostata da lui rannicchiandosi sulla sponda del letto, mentre quel pensiero assurdo le ronzava nella testa "Mi impedisce di vedere le stelle... " La finestra spalancata era tagliata a metà da quel corpo massiccio,  non più asilo ma impedimento, estraneo penetrato nella sua vita, ladro, ladro di stelle, le sue stelle che quella notte brillavano soltanto per lei.
"Dormi, dormi... " Poi un silenzio innaturale.
"Cosa ti succede?" e il respiro era già soltanto sospiro.
"L'equilibrio è fatto per essere rotto" gli aveva risposto.
"Perché?"  le aveva chiesto, la voce che sembrava quella di un bambino deluso.
"Perché l'equilibrio è come l'ordine. Mortale... "
Le  stelle nel riquadro della finestra sbiadivano: una ad una.

lunedì 6 giugno 2011

Guerra umanitaria

Un film - 20 sigarette -, visto recentemente, mi ha riportato, con la spietata evidenza dell'immagine, alla guerra; be', alla guerra... ai ricordi che di quegli anni conservo immagazzinati nella memoria. Non avevo ancora tre anni nell'estate del '45, eppure qualcosa rammento: poco in modo diretto, parecchio attraverso meandri contorti che solo recentemente sono riuscita a percorrere. In casa, il ricordo della guerra emergeva a tratti, brusco e doloroso, più da certi sguardi che da veri e propri racconti... e chi l'aveva vissuta sembrava soprattutto voler dimenticare. Ma io, bambina cocciuta e curiosa, domandavo, spiando l'espressione dei volti, guardando quelle case distrutte, sventrate, che conservavano oggetti del vivere quotidiano, polverosi e traballanti, che di giorno in giorno sparivano - forse rubati di notte da chi dalla guerra era stato spogliato di tutto - mentre cercavo d'immaginare, tentando di capire le ragioni di qualcosa che mi sembrava - già allora - una follia collettiva.
"Com'era la guerra, mamma?" chiedevo. Lei rispondeva: "Brutta!", una ruga improvvisa tra le sopracciglia sottili, a evidenziare la ricerca di un ricordo, poi quel suo brusco "Ma non rammento quasi nulla... " per troncare il discorso, per lasciar sbiadire i ricordi. Mio padre, a differenza di mia madre, mi parlò del fascismo, del Duce, dei partigiani, lasciando emergere indignazione, rabbia. Colsi anche l'odio nel suo sguardo... una sera in cui mi parlò dei nazisti, ma la paura, il terrore - che, come tutti, non potevano non aver provato - non emersero mai. In quei rifugi, che poi erano solo cantine rinforzate con qualche palata di cemento e qualche trave in più, mentre le bombe degli "alleati" grandinavano sulle case, cosa si dicevano? Pregavano, smadonnavano, urlavano la loro paura o tacevano, abbracciati ai figli, alle mogli, ai mariti? L'orrore sembra non avere parole, rendendoci gli animali che spesso scordiamo di essere. Sentimento estremo si esprime per estremi: l'urlo e il silenzio. Di dolore e di orrore si guaisce, mugula e balbetta... Non si parla. E' allora che spesso subentra l'ironia che altro non è se non il pudore di non volerci esporre nudi, scoperti nell'anima, a uno sguardo estraneo. Così la guerra diventava commedia, assumendo contorni buffi e mia nonna mi raccontava di quando mia madre si era nascosta nel reggiseno le uova rubate a una contadina, dovendo poi darsela a gambe nei campi per sfuggire a un contadino troppo preso dall'esuberanza delle sue curve. Perché proprio 20 sigarette, rispetto a tanti altri film (decisamente più di guerra), mi ha fatto riflettere? Forse perché svela che non esiste la guerra umanitaria, che nella guerra non c'è nulla di umanitario, che come per i non vedenti o i diversamente abili dietro l'apparenza di un cambiamento ciò che varia è  soltanto la forma, la sostanza rimane la stessa, banale e orribile, come solo la guerra può essere: ancora e sempre indicibile.

sabato 4 giugno 2011

Buon lavoro, dottor Marchionne

Quanto alle recenti polemiche con Confindustria, Sergio Marchionne ha precisato: "Non c'è alcuna ostilità, nonostante alcune battute fatte di recente. Dobbiamo salvaguardare l'industria Fiat e assicurare che il piano industriale, incluse le norme contrattate con la maggioranza dei lavoratori, venga rispettato. Non posso - ha aggiunto - difendere ogni volta le scelte fatte con il consenso della maggioranza dei lavoratori. Non posso accettare che l'appartenenza a Confindustria indebolisca la Fiat. Capisco le ragioni storiche, ma la Fiat viene prima di tutto".
E finalmente un Padrone a tutto tondo: senza sbavature, senza ambiguità. Uno che si alza al primo trillo degli uccelli, non si mette nemmeno la cravatta, s'infila un maglione, un'aggiustatina ai capelli con la mano e via... in fabbrica a lavorare: se possibile tra due ali di lavoratori plaudenti. Roba da far arrossire il ragioniere più noto d'Italia, quel Fantozzi che volentieri Le cediamo perché, per le ragioni storiche che Lei ben conosce, da noi chi plaude al padrone che lo vessa è almeno  -  e ancora - una burletta.
Buon lavoro, dottor Marchionne.  

Gregor(a) Samsa

Il sole filtrava attraverso le imposte e guardingo sfiorava gli oggetti, illuminandoli uno a uno. "Oh Cristo, non aveva sentito la sveglia?" Cercò con lo sguardo l'orologio: era al solito posto e segnava le sei del mattino. Sospirò di sollievo e si rannicchiò sotto le coperte seguendo con gli occhi la danza muta dei raggi di sole che indoravano la stanza sottraendola all'oscurità della notte.
Ci sono persone che non amano il momento del risveglio, ma lei non apparteneva alla categoria: lei era sempre, o spesso, carica ... di progetti, cose da fare, curiosità da soddisfare anche in quella vita troppo indaffarata, troppo faticosa, ma piena, comunque, di soddisfazioni.
Milano, sotto le sue finestre, riprendeva la corsa esalando profumo di brioche appena sfornate e giornali freschi di stampa... Si alzò, puntandosi sui gomiti, vogliosa di brioche, ultime notizie e folla alla quale mescolarsi destreggiandosi sui tacchi alti dei sandali nuovi, le gambe lunghe e scattanti che lo spacco della gonna avrebbe lasciato intravedere.
Ricadde sul letto. Pesantemente.
Riprovò stupita.
Un sacco di patate: vuoto!
Il suo corpo si afflosciò, come una vela su un mare senza vento. 
Rise ... e ritentò. 
Un burattino senza burattinaio? O senza fili?
Si dette una sbirciata alle braccia, alle mani... Disarticolata, come un pollo disossato.
Rise di nuovo, una risata stridula, preludio a un singhiozzo.
"Mamma? Tutto bene? Perché non ti alzi?" La voce del figlio fugò il dubbio, la speranza che si trattasse di un sogno, di un incubo.
"Arrivo, stai tranquillo!"
Arrivo dove? - pensò, cercando di scendere dal letto. Planò sul pavimento, come un uccello centrato in pieno dal colpo di fucile di un cacciatore. Il sangue dal labbro spaccato le impiastricciò il mento, le riempì la bocca...
Cercò di strisciare sul pavimento: come un serpente, come un verme.
Come Gregor Samsa, come lui vergognosa e atterrita.
Come lui condannata per una colpa ignota, da un tribunale sconosciuto, al buio che circonda il mistero.

giovedì 2 giugno 2011

Il profumo della speranza

Ecco!, c’era quasi riuscita a crearsi una postazione, una trincea: un ultimo tentativo, disperato, di stare ancora al mondo scegliendo, e non subendo, cosa essere e cosa fare, nei limiti rigidissimi di manovra che ancora la malattia le concedeva.
Aveva trascinato nella sua camera da letto– Dio solo sa come, attingendo a quali residue forze – un tavolino basso, bassissimo, stile finta “arte povera”, ripescato dal fiume di “rudo”che si riversa di notte su Milano, infilandoci  sotto un materassino per fare ginnastica, un mare di cuscini e cuscinetti per sorreggerle la schiena e – oplà – il suo occhio sul mondo, il suo pc,  si era acceso e, ora, poteva sbirciare, guardare…
Poteva “comunicare”, di nuovo, in quel mondo di parole e immagini, liberandosi dalla prigione del corpo, dallo strapotere della carne che l’aveva imbrigliata in quel terribile inverno. Aveva passato la mattinata a cambiare prese, aggrovigliare fili, rimuginando rabbia e dolore… Sola come sempre si è soli nei momenti peggiori, quando nessuno capisce di cosa potresti avere bisogno per tentare di uscire da solitudini nere come pozzi in cui persino la luna d’inverno si rifiuterebbe di specchiarsi.
E ora il calore della Rete l’avvolgeva, ora fluttuavano palloncini color arancio, ora i leghisti erano più verdi delle loro camicie e i berlusconiani deglutivano incertezza, l’arroganza che si sfaldava colando come trucco sfatto sui loro volti di servi già pronti a rinnegare il padrone.
E ora ritrovava il miracolo della Rete e, anche se la schiena le faceva male  e le gambe si erano intorpidite, sentiva soffiare quel vento nuovo che aveva un profumo dimenticato, un profumo insolito, giovane e fresco: il profumo della speranza.