lunedì 20 settembre 2010

Bella la vita dello scrittore?


Splendida vita quella dello scrittore, anche se all’interno di questo post di Giulio Mozzi gli ostacoli che lo scrittore incontra sul suo cammino sono tutti correttamente segnalati. Perché in questa filière editoriale lo scrittore è l’artista, è il pifferaio magico, è il cantastorie fascinoso che sa incantare colui che legge penetrandogli dentro e aprendogli le porte del mondo fantastico che la sua arte gli consente di evocare.
Se poi, di questa capacità di narrare che gli è stata data in dono dalla complessa e oscura alchimia che decide delle caratteristiche di ognuno di noi, lo scrittore volesse fare strumento idoneo a consentirgli di vivere, trampolino di lancio per acquisire notorietà, se non addirittura espressione di una genialità o presunta tale idonea a farlo diventare ricco e famoso, beh, allora la faccenda si complicherebbe notevolmente e, su questo punto è inutile mi dilunghi perché l’autore del post, Giulio Mozzi, è concisamente esaustivo.
Arte e denaro accostati producono un suono stridente, sono come il Diavolo e l’Acqua Santa. Essere uno scrittore e non uno scribacchino dipende da quello che si scrive e da come lo si scrive e, sarò un’illusa?, questo è  l’aspetto che più inquieta chi narra o tenta di farlo. L’artista è un vanesio, nonostante possa essere anche timidissimo, e la sua arte è come il panno rosso del matador: danza davanti al pubblico dell’arena incatenandone lo sguardo a ogni gesto, a ogni spostamento, a ogni guizzar di muscoli del matador che, appunto, mata, uccide o viene ucciso.
Che cos’è infatti l’arte, qualsiasi forma d’arte, se non l’espressione estrema, e quindi anomala, della normalità?

Vite diverse

             Accanto  a me, stessa stanza bianca, asettica, a descrivere l'inferno lei mugugnava parole spezzate, scomposte come il suo  corpo, quel grumo d'ossa tenute assieme dal dolore su cui si schiantava l'orrore  che lo sguardo della figlia non riusciva più a contenere.
Era la mia vicina di letto: aveva la mia stessa malattia: il morbo - ora diventato malattia, come se cambiando  le parole mutasse l'essenza di ciò che descrivono, - di Parkinson.
Sono rimasta parecchi giorni in quell'ospedale: lunghe ore vuote, con lo sguardo fisso sui riquadri di cielo, che le finestre incorniciavano, scoprendone la mutevolezza. Forse mai nella mia vita l'avevo osservato così a lungo e con tanta attenzione: nero e impenetrabile nelle ore notturne, animato appena qua e là dall'alone dorato di quelle luci che illuminano sempre l'entrata di un Pronto Soccorso  ospedaliero, o invaso - erano passati pochi minuti o lunghe ore? - da uno spiraglio di luce che  lasciava emergere nuvole in corsa, cieli bigi e, a volte, il sole che, a fiotti, fiotti caldi di sole, entrava dalle finestre. Il sole, a settembre, ha una luce di una tonalità calda, morbida, avvolgente, quasi volesse farsi perdonare  la sua fuga nell'oscurità dell'inverno in arrivo.
L'alternativa al cielo era la parete: bianca, uniforme e vuota come un foglio di quaderno, sulla quale immaginavo di scrivere i miei pensieri, le mie fole.
Pensavo. Molto. Almeno quando il Dolore me lo consentiva, perché quando arrivava lui, il Signore delle Steppe, invadeva anima e corpo e il pensiero era solo speranza, raggrumata e contorta, di qualcosa, qualunque cosa potesse imbrigliarlo, imprigionarlo, scaraventarlo lontano, in quel cielo che sembrava indifferente e così lontano.
Cosa pensavo?

(continua...)