domenica 18 luglio 2010

Un altro sconosciuto alla mia porta

                    Omer ha cambiato casa, al suo posto sono arrivati due ragazzi del Kosovo. Hanno un bambino che nei lunghi mesi invernali, non ho quasi mai visto. La madre, una ragazza dai capelli chiari, l'ho incontrata l'altro giorno: lo sguardo attonito di chi non capisce... dalle parole alle regole, agli usi, fisso su di me. Mi ha fermata ed è cominciato tra noi un dialogo gestuale, inframmezzato, più che da parole, da borbottii, esclamazioni e sorrisi. L'ho fatta entrare in casa, lei si è guardata attorno stupita, curiosa. Il piccolo Tipi, in braccio a sua madre, mi osservava. Non rideva, né sorrideva, limitandosi a guardarmi, con quello sguardo da piccolo uomo che non si aspetta nulla di buono. Mi ha colpita la differenza di atteggiamento rispetto a Omer e alla moglie. Espansivi, solari, il sorriso immacolato che scoppia risaltando sulla pelle nera si muovono con movenze feline, il corpo sciolto che sembra ritmare nei movimenti sonorità che soltanto le loro orecchie sono in grado di cogliere. Ridono sempre, e  lei , la moglie di Omer, gira da mesi con Michela, la figlia che sta per compiere un anno, legata sulla schiena, in modo da avere le mani libere, all'uso africano. L'ho vista nascere e crescere questa bambina, dormire, sbadigliare, imparare a sorridere pelle contro pelle con sua madre, l'orecchio appoggiato alla sua schiena forse per sentire il battito del suo cuore  mentre si addormentava senza una lacrima e si svegliava allegra, i denti che sembravano una manciata di riso nella bocca grande e piena come quella di suo padre.
La madre di Tipi è diffidente, sembra spaventata, anche quando afferra il bambino per dargli un bacio è brusca, priva di quella calma che trasuda dal corpo pieno dell'altra madre e lo sguardo che avvolge il figlio lascia affiorare un fondo di paura, una preoccupazione che rifiuta ogni forma di condivisione. Vengono da una terra contesa e martoriata, vengono da una guerra feroce e sono guardinghi. Sembrano cercare soprattutto lavoro - lei si è offerta di darmi un aiuto in casa  - non contatti umani e men che meno amicizia. Le offro un caffè e Tipi, affascinato dall'arcobaleno di colori della mia libreria, abbandona il riparo che le braccia della madre sembrano offrirgli e punta come un bombardiere sui miei libri, lanciandosi subito dopo alla scoperta della casa. Lo afferro appena in tempo mentre tenta di arpionarsi alla mia gatta che dopo una soffiata di avvertimento si rintana nel cesto della biancheria da stirare.
Dopo un po' se ne vanno, lei con quel portamento altero e pieno di orgoglio che mi richiama alla mente quello di mia nonna, il bambino lanciandomi un' ultima occhiata, senza rispondere a quel "ciao, ciao" che continuo a  ripetergli, strabuzzando gli occhi e tentando buffetti sulle sue guance per farlo sorridere.
Il giorno dopo lei mi stira delle camicie e io riempio di facce sorridenti un foglio, sillabando a Tipi lentamente parole semplici. Esitante prende un pennarello e lo struscia sul foglio.
                          Quando se ne va, mentre sua madre borbotta un ciao tra i denti, lui mi fissa, si concentra e articola quel "cia-o" che subito dopo affonda in un sorriso. Il piccolo uomo venuto dal Kosovo ha accettato la mia offerta d'amicizia - penso e vado sul computer a tradurre in albanese una frase di Tolstoj ringraziando Omer che mi ha insegnato ad aprire la porta a uno sconosciuto e al suo mondo. La frase che voglio tradurre è la stessa che ha affascinato Omer  e che è diventata il suo motto, la chiusa alle sue lettere, il suo cavallo di battaglia: ".Al di là della nostra cultura non c'è il vuoto, c'è un'altra cultura... "(Lev Nikolaevic Tolstoj)