sabato 10 luglio 2010

Pelle di madre

          C'era una volta, tanto tempo fa e chissà se esiste ancora, una clinica con le finestre delle camere che davano sul mare, su quel mare che, spalancandosi davanti a quella città battuta dal vento, le assicura una via di fuga, quasi un'uscita di sicurezza, appagando insopprimibili bisogni di bellezza e libertà

          Tra lei e il mare, nella stanza 65 in quel lontano marzo del '68,  un mazzo, enorme, di tulipani gialli. Acceso come un sole nascente in un mattino d'estate, le avrebbe sempre ricordato la nascita di suo figlio, il primo risveglio in quella nuova pelle, quella pelle sconosciuta e diversa che è la pelle di madre. Come si era sentita? Sfinita, dopo quel parto interminabile e le doglie che le avevano arpionato i fianchi per ore, sempre più ravvicinate, incalzanti, fino a quella sala parto dove aveva pensato, ma anche sperato, di morire, in quei frenetici minuti ritmati da voci affannate, concitate, da quelle esortazioni "spinga, spinga, spinga più forte, ancora, non ci siamo, ancora.. " culminate in quel pianto stizzito, in quel fagottino nato con i pugni chiusi che tra le sue braccia aveva strillato con maggior forza, boxando contro l'aria, gli occhi dal taglio orientale che sembravano vedere il mondo e... trovarlo disgustoso. 
Ricordava ancora la stanchezza ma anche l'orgoglio e la tenerezza che le erano montati
dentro, invadenti come un'inarrestabile marea.

      Le era sembrato impossibile che quel bambino con il quale aveva condiviso tutto per mesi ora non fosse più sangue del suo sangue, pelle della sua pelle, respiro del suo respiro. Aveva avvicinato la culla al letto per poterlo controllare. Dentro, vaga ma presente, la paura di non trovarlo, di vederlo svaporare, sparire come un miraggio nella calura estiva. L'aveva osservato cercando in lui i lineamenti del marito o i suoi, quei segni distintivi che sanciscono l'appartenenza a un ceppo familiare... ma senza trovarli.

           L'ostetrica attaccandolo al seno la prima volta aveva esclamato:"Ma che caratterino!" e lei si era un po' offesa e il mattino seguente quando il medico le aveva consegnato la cartella clinica dicendole: "Tutto a posto, si torna a casa!" aveva accolto la notizia con gioia. Chissà perché all'ultimo controllo della temperatura, però, il termometro aveva evidenziato un bel febbrone obbligando il medico a  prolungare la degenza  e a  imporre la somministrazione di farmaci. Il pupo non aveva apprezzato e, vuoi il calore malato della pelle di sua madre, vuoi il sapore del latte reso diverso dai farmaci, aveva pianto con tutte le sue forze, rifiutandosi di ciucciare, si era graffiato le guance e aveva tentato di strapparsi i capelli. A lei quel latte non bevuto era stato tolto con un "tiralatte" provocandole una ferita ai capezzoli. Beh, per farla breve, le era venuta la mastite che avrebbe reso il suo allattamento per giorni e giorni un inferno.
Poi, finalmente, la febbre era scomparsa e lei era ritornata a  casa.

      Il pupo mangiava, anche se con faccino schifato,  e aumentava di peso. Lei piangeva allattandolo, prima per la mastite e poi per la mancanza cronica di sonno. Le lacrime di una madre avvelenano il latte, o lo rendono indigesto? Se lo sarebbe chiesta  tante volte, ma senza riuscire a trovare una risposta. L'incontro con l'alieno venuto dal mondo dei sogni, quello che ospita i bambini fantasticati ai quali s'ispirano gli spot pubblicitari, senza cacca e senza pianti, con sorrisi e sguardi d'intesa a mamme sottili come giunchi, fresche di parrucchiere e avvolte in abiti frou frou, si era trasformato in uno scontro.
Senza esclusione di colpi.

      Oggi, a distanza di tanti anni, mi chiedo, quando l'eco di tragici fatti di sangue che coinvolgono madri e figli bambini, mi giunge all'orecchio, perché il lato in ombra della maternità, quel cono buio che può inglobare un neonato a causa dei problemi preesistenti di una madre, non venga analizzato, studiato e pubblicizzato come dovrebbe. Mi chiedo perché la mistica della maternità che vede la donna non come persona con la sua complessità e quindi i suoi limiti, ma come madre perfetta per sua natura, quasi per diritto divino, sia così dura a morire. Madri non si nasce, si diventa, con fatica e con impegno, attraverso errori e correzioni di rotta, attraverso incontri e scontri con quell'altro da sé che è il figlio, in un cammino comune, in un viaggio che ci arricchisce e ci insegna ma che, come tutti i viaggi, è pieno di incognite e anche di sorprese. E non sempre piacevoli.

                   La madre perfetta rientra nello stereotipo femminile che ingabbia la donna  in schemi rigidi che non le appartengono, rassicuranti per la collettività, ma profondamente penalizzanti  e potenzialmente pericolosi per lei, soprattutto oggi, con le famiglie lontane, il lavoro che non tiene conto delle esigenze di una madre, la paura  del licenziamento - che i nuovi contratti di lavoro indirettamente consentono - e la mancanza di contatti  umani che isolano la neo-mamma già in difficoltà come persona. Qualcosa si muove, ma con fatica, con estrema fatica, incontrando ostacoli di ogni genere.
Perché?