sabato 22 maggio 2010

Cicale indemoniate

Come luna che il pozzo rispecchia
danza  la notte che l'amore incanta,
stordente di cicale indemoniate,

solitaria
e bugiarda
è la notte che più non dividiamo

che,
ognuno con il suo egoismo gramo,
libertà  chiamiamo.

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°23)

Ero  in quella condizione dell'anima che in natura trova una corrispondenza forse  nell'apparizione effimera e imprevedibile dell'arcobaleno a sottolineare dopo l'urlo e la violenza del  temporale, con le nuvole ancora minacciose a sfidare il vento, l'insopprimibile stupore che suscita la coesistenza, anche se fugace, degli opposti.
Gli avvenimenti sconvolgenti degli ultimi giorni, infatti, spogliandomi di ogni difesa, mi stavano facendo percepire la realtà esterna con una passionalità e una capacità di emozionarmi che non riuscivo più a controllare ma, nonostante l'angoscia, la presenza del musicista mi riportava a una pienezza del vivere di cui avevo smarrito perfino il ricordo.
Le ore passavano, la luce del giorno perdeva di lucentezza: noi, un panino tra i denti, continuavamo ostinati, di ora in ora più disperati, a passare al setaccio la casa, fino a quel momento in cui, passandomi accanto, Enrico mi sfiorò e io voltandomi incrociai il suo sguardo notando, stupidamente, quanto gli somigliasse nostra figlia, quanto fossero eguali  i loro occhi, mentre lui mi attirava a sé e Venezia mi esplodeva dentro riportandomi all'urlo rauco del gondoliere, allo sciabordio dell'acqua che s'infrangeva incessante sui muri dei palazzi  in una lunga inesausta carezza,  a quelle notti in cui il cielo sopra ai canali scoppiava di stelle che  specchiandosi nell'acqua l'accendevano di bagliori dimenticati.
Ci ritrovammo riconoscendoci a pelle: lo stesso odore, gli stessi gesti , lo stesso disperato tentativo di  dimenticare una realtà che non sapevamo gestire, pur  amandoci. Ci ritrovammo perché mai c'eravamo lasciati e, mentre ancora le nostre mani si cercavano, sbirciai l'orologio.
Un'ora all'ultimatum.
Il cuore mi si contrasse.
"Abbiamo guardato  dappertutto" disse Enrico, poi aggiunse: "Mi fai venire sempre la voglia di suonare. Ricordi? Io suonavo e tu canticchiavi. Canticchiavi a Letizia quella tiritera, quando tentavi di addormentarla in quelle sere estive che Venezia ci donava, trasformando ogni piazzetta in un palcoscenico teatrale degno di una commedia goldoniana... ".
"Ambarabà, ciccì coccò, Cappucetto si mangiò tre gelati, ben ghiacciati. Poi dal gelataio andò e altri cinque ne comprò. Ne pagò cinque più tre... "
All'unisono esclamammo: "Ma è questa?"
"Come continua? Chi te la insegnò?" mi  stava chiedendo, frenetico, Enrico.
"Che non fanno 23, né 21, né 28, ma soltanto e solo 8!" gridai, un po' ridendo e un po' piangendo: di gioia, di sollievo.
Grata a mia madre, a Enrico, all'amore, al desiderio. Al mondo intero.
continua...