giovedì 8 aprile 2010

Politica e terremoto

Il padre dei miei figli è abruzzese, e L'Aquila la vidi per la prima volta quando andai a conoscere la sua famiglia. A pochi chilometri dalla città un paese abbarbicato alla montagna: case di sasso, una spolverata di mandorli in fiore color cipria e l'aria, frizzante e sempre troppo fredda, che ti accarezzava la faccia portandosi dentro quel vago gusto di resina che è l'odore dei boschi. Ora quelle valli, quei paesi sembrano frantumati, basiti nel silenzio che solo il rumore del vento osa violare. Dall'alto degli elicotteri le tendopoli dei terremotati sembrano laghetti.
Ricordo, anche se sono passati molti anni, quei paesini e la città, una delle tante belle città italiane, una delle più fredde, sempre ai primi posti per le temperature invernali più basse, e ricordo le chiese e i monumenti. E tanti giovani per le strade, perché era città universitaria. Gente solida, un po' chiusa, i ragazzi che prestavano il servizio militare nel corpo degli alpini, come i friulani della terra di mia madre; e, come loro, schivi, fino a quando non bevevano un paio di bicchieri e, solo allora, diventavano loquaci. Nelle cantine del paese noi giovani cantavamo le canzoni di montagna e mangiavamo spiedini di agnello. A fianco degli alpini del Friuli scavarono per giorni, quei ragazzi, per tirare fuori i superstiti del terremoto del '76, mescolando preghiere e bestemmie sotto il sole, mentre s'infilavano tra i muri sbriciolati sperando che una scossa di assestamento un po' più forte non li mandasse al Creatore.
Una fotografia mi ritrae sorridente e giovanissima accanto alla Fontana delle 99 Cannelle. E' stata danneggiata? Rido in quella fotografia, non so ancora che non tornerò mai più in quella città, che la cancellerò dalla mia vita... Non so, come potrei?, che la ferirà a morte, conservandola soltanto nei miei ricordi, una furia ben più devastante della mia, una furia che in una manciata di secondi travolgerà le sue case, devasterà le sue chiese, affogherà nella polvere le sue vetrine scintillanti, scagliando panchine scardinate su aiuole che nessuno più curerà.
Ho visto sfilare le immagini alla TV di una città fantasma, dello strazio di chi ha perso la propria gente, la casa, le radici, quel tessuto umano e sociale che avvolgeva la città in un alone rassicurante e che il terremoto ha devastato.
Eppure...
Eppure il Friuli è stato ricostruito mattone su mattone, casa su casa.
Ricordo al posto che oggi è di Bertolaso, Zamberletti: promise ai terremotati che il Friuli sarebbe stato ricostruito, e mantenne la promessa.
Ho rivisto Gemona, epicentro del sisma: le case dalle imposte color pastello che si ricorrono lungo le strade che portano alla chiesa, ricostruita pezzo per pezzo. Tutto rigorosamente antisismico.
Quanti anni sono passati? Soprattutto, quale altro terremoto invisibile, ma altrettanto devastante, ha distrutto la coscienza civile del Paese, ha istituzionalizzato il furto facendone mestiere, professione e ... orgoglio da esibire come italica virtù? La tragedia dell'Aquila, a differenza di quella del Friuli, ha portato alla ribalta anche il dramma di un Paese che, con il tacito accordo di tutti, ha costruito con la sabbia al posto del cemento, che ha sfruttato e sfrutta il dolore per trarne vantaggi elettorali, che mente sapendo di mentire. La tragedia di questa città è ancora più amara di tante altre che l'hanno preceduta perché ha esposto allo sguardo di tutti non soltanto una città devastata ma anche la devastazione di un intero Paese.
Non sarebbe il caso di chiedersi a che cosa servano gli osservatori: geologici e della politica? E se ci sia ancora una parte del Paese disposta a rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire? E non solo case.