lunedì 22 marzo 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate (n°2)

Era una donna strana che al di là di quella frase, pronunciata quasi in un sussurro, parlava poco di sé ed era abilissima nello sviare le domande.
Viveva sola in quella casa enorme sulla collina, ai margini del bosco, nel silenzio che solo qualche squittio di uccello o il gemito del vento infrangeva. Non si sapeva da dove venisse, non riceveva visite, ma il postino le recapitava spesso dei pacchi che lei ritirava prendendoli tra le braccia con grande attenzione e stringendoli al petto con delicatezza, quasi coccolandoli come fossero neonati che una madre ninnasse per farli addormentare. Spesso la si vedeva girare per i viottoli della campagna o uscire dal bosco, un cesto pieno di fiori di campo tra le mani, la gonna che strusciava sull'erba. Il primo giorno in cui ci conoscemmo, scambiando due parole mentre aspettavamo il nostro turno in fila all'ufficio postale, m'invitò a prender un tè a casa sua. Anche se un po' stupita, accettai e la seguii con la mia macchina lungo la strada a tornanti che portava alla collina. Le case andavano diradandosi mentre salivamo e i campi si susseguivano brulli, alternandosi ai vigneti che spezzavano la monotonia del paesaggio. Qua e là alberi spogli alzavano al cielo i loro rami contorti; la macchia scura del bosco dominava dall'alto la collina, le punte diritte dei pini che sembravano cercare il tepore di un pallido sole invernale che la nebbia, frantumata in banchi che ingoiavano la macchina a tradimento, celava dando la sensazione di un paesaggio più sognato che visto. Finalmente dietro all'ultima curva la macchina che mi precedeva rallentò. Una casa in pietra emerse dalla nebbia, le imposte di legno e un porticato proteso a rinserrare, quasi volesse proteggerlo, un portoncino. Rompendo la monotonia dei grigi da grandi vasi addossati gli uni agli altri in un disordine pittoresco e voluto occhieggiavano piante di mandarini e limoni, cariche di agrumi. Quel profumo aspro insolitamente mischiato a quello del bosco e della terra fracida di umidità mi afferrò alla gola appena scesi dalla macchina.
Entrammo e lei, dopo aver gettato della legna nel camino, soffiò per rinvigorire il fuoco che si stava spegnando.
"Hai una casa bellissima... " le dissi guardandomi intorno.
Sorrise.
"Io avrei un po' di paura a starmene da sola... "
"Paura di cosa?" mi rispose e mi lasciò scivolare addosso uno sguardo che non riuscii a decifrare, opaco, improvvisamente estraneo come la sua voce che aveva assunto una tonalità bassa, roca, qusi la gola le si fosse chiusa e facesse fatica a parlare.
"Paura?!" ripeté con quella voce che inquietava e aggiunse: "Ho fatto la torta di mele. Vuoi assaggiarla?"
Annui, allungando le mani verso il calore che proveniva dal caminetto, mentre lei armeggiava con il bollitore dell'acqua. Nel silenzio ebbi la sensazione di un fruscio seguito da un rumore. Mi voltai e lei mi disse: "Ho un cane, protesta perché vorrebbe entrare".
Poi sorrise e si voltò verso la credenza a prendere le tazze.
(continua...)

La casa delle bambole - racconto a puntate (n°1)

Ci fu un inverno - che anno era l’Ottantacinqe? - in cui nevicò per un mese e il termometro scese a meno venticinque. I vecchi scossero il capo e dissero: "Ora geleranno anche le radici delle viti... "
E così fu.
Mi chiedi come si possa capire se quello che sembra autocontrollo sia invece landa artica dei sentimenti. Non dalle parole che usiamo per spiegare ma anche per mentire. Negli anni questi cuori gelati imparano a mimare i sentimenti, ma se i gesti si possono imitare, lo sguardo, il sorriso tradiscono anche i più abili. Diffida di chi non ti guarda negli occhi. Diffida di certe labbra che sembrano una sciabolata inferta a un volto e che, come ferite subite, chiedono vendetta. Lo sguardo di queste persone è raggelante perché è il riflesso di un’anima vuota. E’ un deserto senza calore, una landa gelata senza brividi, un bambino senza innocenza. Mi chiedi se io abbia conosciuto…? Sì!
Mia nipote si accoccolò ai miei piedi, sul tappeto, mettendosi comoda e io cominciai a raccontare.
L’avevo conosciuta, questa giovane donna, banalmente, entrambe in fila per fare un pagamento alla posta. Mi aveva invitata a casa sua, una casa enorme arredata con un gusto personalissimo, raffinato e inimitabile. Regina incontrastata di questo regno fuori dal tempo lei, con i suoi abiti decadenti e un po’ assurdi, soprattutto per gli abitanti di quella spruzzata di case sparpagliate sulla collina: contadine emiliane che salutavano cerimoniose continuando a dare il becchime alle galline, il grembiule annodato sui fianchi, i cani che abbaiavano diffidenti a chiunque passasse davanti ai poderi.
Appena conosciuta mi aveva detto: “Bisogna fare attenzione a non soffrire troppo: il dolore è come il vetriolo: sfigura! Brucia, come un inverno di ghiaccio... ” (continua...)