giovedì 11 marzo 2010

Auguri a una donna che non c'è

E'una domanda che, come un messaggio in bottiglia lanciato in mare, ogni tanto borbotto o scrivo sul mio blog, con ormai solo una vaga speranza di ottenere risposta. Dove sei finita Babsi Jones? Dove picchi sui tasti di un pc le tue storie? Cosa scrivi, cosa hai scritto per l'Otto marzo? Hanno tentato di imbrigliare, zittire, soffocare la tua voce... Perché? Tu che sai cos'é l'ingiustizia, tu che della diversità conosci il sapore esaltante e il veleno che nasce dall'invidia di chi è uguale agli altri e a essi legato da un patto di uniforme mediocrità, perché sei scomparsa?
A una figlia femmina dare in dote la genialità è... E' volere troppo? Troppo cosa? Genialità é potere o si traduce in potere? E' spendibile sul mercato, ha una quotazione, è barattabile? Noi donne siamo poco adatte a questi giochi e poco pratiche di potere.
Il potere se non lo sai gestire ti stritola, ti fa a pezzi, ti ingoia. Che Paese è quello in cui arriva prima l'invidia - come un'avanguardia di paracadutisti in guerra - e poi il plauso, ma un sussurro appena, una bava di vento? Per distrarre. Per permettere di colpire a fondo, per sempre e senza possibilità di errore. Fra i tanti quotidiani colpi che questo Paese in cui vivo mi allunga a tradimento c'è anche questo: l'avermi privata del piacere di leggerti e della possibilità di seguire la tua evoluzione artistica e le tue scoperte nell'esplorazione di quella terra senza confini che è la scrittura...
Restano le tue parole, resta il tuo lucido reportage dell'orrore e dall'orrore, resta la voglia di sapere quello che non si può non intuire.
Resta, incrollabile, la speranza di rivederti e/o risentirti, riconoscere prima o poi da qualche parte la tua scrittura, quella modalità narrativa che azzanna e morde e urla, ma sa ritrovare in dolcezza tutto ciò che brucia in furore.
Ciao Babsi e, anche se in ritardo, auguri per la Festa delle Donne...

Egon Shiele

Egon Shiele occhieggia minuto, gli occhi grandi, neri e febbricitanti che fissano dagli ingrandimenti fotografici affissi alle pareti il visitatore. Esplode e, in fretta con la velocità con la quale una meteora solca il cielo luminosa e poi si spegne, compie il suo itinerario artistico All'ombra di Klimt, il maestro a cui s'ispira non soltanto nel tratto pittorico, ma nel bisogno di infrangere le regole di un perbenismo borghese che inquadra e irreggimenta, muove i primi passi. Il tratto iniziale è precisissimo e attento, ma le prime figure femminili già tradiscono una passionalità che il suo corpo minuto non sembra in grado di contenere. E' al rosso che affida il compito di evidenziarla, il rosso che esplode negli abiti, che incatena lo sguardo agli stivaletti dai quali slanciate e impudiche emergono le gambe nervose delle sue modelle, viste di lato, spalancate, di schiena, con i talloni rotondi che tastano il terreno e si allontanano... Da lui? Da un mondo che sta per esplodere nell'orrore della prima guerra mondiale? La femminilità diventa l'anima della sua pittura, la femminilità che aggredisce il visitatore in quella carrellata di donne scomposte che ritraggono un immaginario femminile che spazia dalla madre cieca, esposta in una delle sale, che può spegnere gli occhi sul mondo perché il suo compito è solo quello di prosciugarsi allattando i figli, alle donne che esibisconi attributi femminili che sembrano inglobarle negando loro qualunque valenza che esuli da quella sessuale.
I quadri che non ritraggono figure femminili ritrovano una ricercatezza di maniera che nei colori accesi tenta di comunicare il prorompere delle emozioni e delle contraddizioni alle quali Freud darà una legittimazione accendendo i riflettori su un vissuto nascosto, prepotente, non più strizzabile nei bustini e occultabile sotto le gonne lunghe di cui la prima guerra mondiale farà piazza pulita definitivamente.
L'apoteosi di un percorso artistico che è scoperta di se stesso e delle proprie più intime pulsioni si conclude - nella mostra - su un corpo femminile adagiato e offerto allo sguardo di chi guarda su un lenzuolo stropicciato che incornicia cangiante più che un corpo un potere che quel lenzuolo sembra negare o evidenziare? lasciandoci intuire che cosa significhi per il grande pittore austriaco l’imperscrutabile potere di seduzione dell’eterno femminino.

Milano da bere?

Dieci marzo 2010. Su Milano scende una manciata di fiocchi di neve. Striminziti, a contatto con l'asfalto, si sciolgono in un soffio appena accennato di vapore che si confonde con i gas di scarico dei tubi di scappamento. Il mio treno dovrebbe partire alle 15.20. Il condizionale è d'obbligo. All'interno della stazione centrale viaggiatori raggelati vagano come spettri o siedono rigidi su ciò che resta delle sale d'attesa passeggeri, rigorosamente chiuse. Forse in ristrutturazione? L'aria freddissima s'insinua sotto le volte mussoliniane facendo oscillare i tendoni di plastica macchiati di calce. Gente in fila batte i piedi e si soffia sulle mani davanti all'unico bar di quattro metri per tre che promette nell'insegna intermittente un po' di calore. Non c'è una sola seggiola, questa è una città che non concede soste, si beve in fretta, quello davanti che paga, quello dietro che spinge. Una persona come me con problemi a stare in piedi, soprattutto al gelo e immobile, a causa di una malattia neurologica se ne stia a casa. Cerco di tradurre in parole di senso compiuto quel gracidare che erutta dagli autoparlanti comunicando ritardi, treni soppressi e cambi di binari. Intanto salgo e scendo su scale mobili che percorrono in lungo e in largo la stazione seguendo indicazioni che dovrebbero portare a... A? Ai treni, decine di indicazioni portano ai treni? Ma se a sinistra c'è la città, a destra cosa diavolo ci potrebbe essere se non i treni? Cerco disperatatamente un posto dove sedermi a bere qualcosa di caldo. Dietro a un vetro, al coperto, qualcuno è seduto. Arrancando esausta mi avvicino. Entro, sottraendomi alla sferzata d'aria fredda che mi ha letteralmente gelata. Sono seduti: sì, per terra. La spruzzata di neve ha intanto mandato in tilt le partenze dei treni. Ripercorro scale mobili, che come moderni gironi dell'inferno dantesco lastricati d'acciaio inargentano la stazione, e mi infilo tra la folla che staziona sotto la tabella luminosa che dà le indicazioni sulle partenze.
Mancano cinque minuti alla partenza del mio treno che risulta indicato ma senza il riferimento al binario. Che fare? Forse partirà, uno tra i pochi, dal binario indicato nell'orario generale? Ne intravvedo uno che appare e scompare tra schiene e cappelli. Faticosamente lo raggiungo e tento d'infilarmi. Nonostante gli spintoni rimango in piedi, sostenuta dalla gente che mi circonda, anche se provo la spiacevole sensazione del pesce in barile Dovrebbe partire dal binario 18. Guardo l'orologio: mancano due minuti alla partenza. Riesco a districarmi, ma con un movimento brusco e, quando mi ritrovo sotto al tabellone delle partenze una fitta alla schiena mi blocca. Il treno è in partenza, il binario è il numero 18.
Io ho un dolore alla schiena che mi attanaglia. Forse è il freddo che mi impedisce di svenire - penso, mentre mi sento Lara de "Il dottor Zigavo" e salgo su quel maledetto treno che sembra una tradotta di soldati mandati a morire in Russia.
Mi lascio alle spalle la Milano da bere con un solo desiderio: quello di vomitarla!