domenica 24 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Era uscita dall’ospedale e aveva spiegato ai bambini che sarebbe partita per alcuni giorni. Al marito, con insolita fermezza l’aveva comunicato, non chiesto.

Il treno correva veloce quasi volesse sfuggire all’ombra delle strette valli del retroterra ligure dove il sole entrava a stento e al buio delle gallerie che una dopo l’altra aveva attraversato fischiando. Ora la linea ferroviaria si snodava lenta, costeggiando il mare e seguendo le sinuosità della costa. Gabbiani bianchi svolazzavano emettendo rochi stridii, qualche bagnante, pur essendo solo aprile, stava disteso al sole, le gambe che sbucavano dai pantaloni arrotolati. Un cane correva, ubriaco di sole e libertà, sulla spiaggia. Lodovica si riempiva gli occhi di azzurro e, abbassato il finestrino, con il permesso del viaggiatore seduto davanti a lei, respirava quell’aria aspra di salsedine che le penetrava nei polmoni portandosi via il grigiore e la nebbia della pianura padana.
Aveva bisogno di leggerezza per andare, per camminare, pochi passi o un percorso più lungo. Non aveva importanza.
Cosa c’era oltre la curva?
Si sentiva come una scolara che avesse bigiato la scuola
Ancora mare?
E oltre alla seconda curva?
Non bisogna smettere di cercare.
Un modo, un tempo per dimenticare, da qualche parte ci sarà?
Dovrà pur esserci.
Si sentiva come quel cane.
Ubriaca di libertà.



E’ buio, e non voglio svegliarmi. Serro le palpebre, se potessi le incollerei per non aprirle, per non vedere.
Mi tappo le orecchie: le voci, alterate, mi strappano definitivamente al sonno.
Poi, i tonfi.
Mastico il gusto amaro della paura. Mi entra nel sangue e arriva al cervello.
Rimbomba.
Non posso scappare, non c’è un solo posto dove andare di notte, al buio.
Le gambe mi tremano, di freddo e di paura.
Mi tremano sempre più forte. Mi uccideranno?
C’è qualcosa che suona: un rumore insistente, lacerante.
“ Svegliati Lodovica “.
Di chi è questa voce, la conosco, è una voce che mi riporta indietro. A tanto tempo fa. Ma io gli occhi non li apro.
Ho tentato di alzarmi, mamma, ma non sto in piedi, sto malissimo. Non è che non voglia…non posso aiutarti. Singhiozzo.
Mi dovete spiegare perchè sono di nuovo qui, in questa casa buia, fredda, in questa prigione senza sbarre dalla quale non posso scappare.
Il suono lacerante non dà tregua.
Apro gli occhi.
Intorno a me mobili estranei. Una lama di luce chiara filtra dalle imposte socchiuse.
Il trillo della sveglia continua, monotono, a tagliare il silenzio.
E’ stato un incubo.
E’ stato soltanto un incubo.
Mi passano per la testa, mi rimbombano dentro frasi sconnesse, mentre a bocconi, a morsi recupero me stessa.
Recupero i pezzi della donna che sono diventata, recupero la mia dignità, ma anche quella fragilità che mi è propria, che non posso, non voglio più negare.
Mi alzo, vado in cucina e accendo la radio.
Dalla finestra intravedo il cielo, la giornata si annuncia serena.
Esco sul terrazzo, mi avvolgo in una coperta e sorseggio il mio caffé, mentre il giorno sfugge silenziosa alla stretta della notte. Il panorama davanti ai miei occhi è ampio: cielo e mare si fondono all’orizzonte in un azzurro indistinto. Gli stridii rochi dei gabbiani punteggiano il silenzio cadenzato dal mormorio della risacca.
Sulla seggiola, accanto a me, “La recherche du temps perdu“. L’ho finito ieri, il libro. Appena cominciata è invece un’altra e ben più impegnativa ricerca.
E’ da lontano che devo ripartire: è da quel grumo di dolore e di rabbia inespressa che devo iniziare.
Ho l’indirizzo di uno psicologo.
L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio.
Ieri ho sentito i ragazzi. Il padre ha portato Alessandra da sua madre...
I ragazzi erano disorientati, attenti alle parole che usavano.
Ho sentito una fitta di rimorso, una pugnalata nel ventre e ho capito che mi sono massacrata a sufficienza. Sanno che sono la mia vita, il mio orgoglio, il sangue che mi scorre nelle vene e la mia allegria. Non possono raccontarsi balle. Nemmeno io. Non potrò essere una buona madre fino a quando non avrò guardato in faccia i miei demoni, uno a uno, accettando di convivere con loro.
Un passero tenta una manovra di avvicinamento. Gli allungo una briciola di pane.
Esita, avanza e indietreggia, combattuto tra fame e paura. Cosa prevarrà? Dipenderà dalla sua voglia di vivere, dalla sua fame di vita.
Afferra la sua briciola e prende il volo.
Prende il volo e va’.
Come me. (Fine)