martedì 12 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Ludovica era tornata a casa dopo aver accompagnata la madre alla stazione, i ragazzini che litigavano sul sedile posteriore della macchina. L’aveva sommersa di parole, valanghe di parole, le aveva detto che non sarebbe riuscita ancora per molto a reggere quella situazione, aveva pianto e imprecato. D’altronde aveva gli occhi per vedere, ma si rifiutava anche soltanto di guardare.
Alla stazione, con il treno che arrivava sbuffando, baciandola in fretta le aveva sussurrato quella frase – che ormai stava diventando un ritornello stantio tra loro – quella frase che non le era né d’aiuto né di conforto: “Gli uomini sono tutti così… ”
Aveva affrontato l’ultima curva, sentendo una fitta di dolore al petto: lo sguardo che registrava l’abituale squallore della stalla cadente, la casa tetra e grigia, il giardinetto attraversato dal viottolo fangoso.
Era arrivata a casa.
Suo marito non c’era. Nemmeno il cane.
La sensazione di solitudine e di abbandono l’avevano presa alla gola.
Era sola sul cocuzzolo di quella collina aspra e silenziosa, in quella casa gelida, a combattere con le mosche, con i figli, con gli alunni, con le stufe, i polli e la disperazione.
Un cielo bigio gravava opprimente e qualche goccia di pioggia aveva cominciato a cadere.
Dov’era suo marito? Un borbottio di tuono aveva rotto il silenzio e la pioggia era aumentata d’intensità, mentre restava lì, senza avere la forza di fare un passo, sentendo che l’umidità, le penetrava nelle ossa. Cristo Santo, ma cosa aveva fatto della sua vita? Come si era ridotta? Elemosinava amore di nuovo e, come sempre, non ne riceveva. A nulla era valso assecondare suo marito, venire a vivere in questo posto dimenticato da Dio…
Un brivido di freddo sulla pelle, il maglione bagnato che aderiva al corpo e la voce dei ragazzi che, già all’interno della casa, la chiamavano, l’aveva riportata alla realtà.
In cucina pane sbocconcellato, due salami decapitati e bottiglie di vino dappertutto. Mosche a volontà.
“Abbiamo fame, mamma. Cosa si mangia?”
Riordinando meccanicamente, aveva preparato la cena.
“Aspettiamo il babbo?”
Aspettiamo il babbo.
Le colline erano già nere contro il tramonto quando arrivò.
Si guardò intorno. Non fece una carezza ai bambini, il suo sguardo la trapassò quasi fosse diventata trasparente.
“Ho già mangiato”disse, prendendo il giornale sportivo dal tavolo.
Lei colse la delusione sul viso dei figli. Lucrezia gli si avvicinò, lui la scansò senza guardarla, senza vederla. Gli chiese qualcosa. Non rispose, forse non aveva sentito.
“La bambina sta parlando con te” disse.
Di nuovo non rispose. Alzò soltanto gli occhi e la guardò.
Cosa le si scatenò dentro in quel momento? Si vide per un istante come lui la vedeva: una donnetta noiosa che gli aveva scodellato tre marmocchi in rapida successione, un ingombro, un fastidio, un gravame di orari, di pranzi e cene con i ragazzini che si facevano i dispetti, favole raccontate a voce bassa, lunghi pomeriggi domenicali passati a sbadigliare davanti al televisore e fuori… il mondo, pieno di persone da conoscere, luoghi dove andare. Donne intriganti con i tacchi a spillo e gli occhi invitanti, altro che lei, trentenne che passava la vita a spignattare, correggere compiti, schiaffata in poltrona in tuta da ginnastica, un libro che la isolasse dal mondo sulle ginocchia. Una che odiava i cavalli, non si muoveva, delicata come le tette delle monache, un figlio sempre in braccio e il sorriso sulle labbra solo tra carrozzine e biberon. Per lui obliqui sguardi di disprezzo e silenzi colmi di tristezza. Lui non era fatto per la famiglia, lui aveva voglia di avventure, di viaggi, di liberà. Lei era la sua palla al piede. L’aveva capito!
Aveva gettato la maschera. Partita la suocera non avrebbe più dovuto fingere. Adeguarsi agli orari della famiglia? Lui la famiglia non la voleva. Gli usciva dagli occhi! L’aveva capito?
Il rifiuto, quello no, non poteva reggerlo. Altri rifiuti le salirono alla gola mentre lui, senza degnare di un’occhiata nessuno, a passi strascicati, andava verso la porta d’ingresso.
La rabbia l’accecò.
Volò il primo piatto, quello con la sua cena, schiantandosi contro il muro.
“Sei impazzita?”
Volò il secondo piatto.
Si riparò, codardo, dietro allo stipite della porta.
Poi si sporse dicendo: “Sei una pazza ister…”
Un altro piatto s’infranse a pochi centimetri dalla sua faccia attonita.
Quando sulla tavola non rimase più nulla lei si fermò, lasciando scivolare lo sguardo sul pavimento
coperto di cocci.
Poi avrebbe ricordato la coda irta del gatto terrorizzato e il lungo pianto spaventato di Alessandra. Aveva saltato il fosso, dimenticando la paura, il rischio di un domani incerto, la prudenza. Sapeva che avrebbe pagato il prezzo di una vita durissima, ma aveva deciso di andarsene, di riprendere in mano il filo spezzato della sua vita, di recuperare la sua dignità.
Rimase sveglia a pensare: tutta la notte.
Accanto a lei suo marito russava, tranquillo. (continua...)