lunedì 11 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Ludovica ricordava ancora la scena dell’arrivo della madre nella loro casa di campagna. Si era alzata prestissimo per rendere tutto lucido come uno specchio e, vedendo dalla finestra la macchina che s’inerpicava a fatica lungo il viottolo rischiando d’impantanarsi, era uscita in tempo per vederla affrontare l’ultima curva, per mano la figlia minore.
Era piovuto molto, un fango molle e limaccioso circondava la casa colonica e rendeva insidiosi i viottoli acciottolati e fangosi.
La macchina aveva frenato, schizzi di fango erano finiti sul grembiulino di Alessandra.
Sua madre era scesa dal taxi con un sorriso impacciato e si era guardata intorno, scacciando con la mano le mosche che si avventavano su di lei, mentre l’orrore le si dipingeva sul viso, notando la puzza di letame che ammorbava l’aria, la stalla cadente e la casa rozza e squadrata che le si parava davanti, affacciandosi sullo stitico giardinetto dove alcune galline marciando impettite devastavano quei pochi fiori che, ancora non si sa come e perché, si ostinavano a sbocciare.
L’aveva aiutata a scaricare le valige: la casa, nonostante le stufe accese, era gelida. Nella confusione del momento, andando in cucina, si era accorta di aver bruciato l’arrosto.
Avevano pranzato, affettando salumi e recuperando qualche fetta d’arrosto: l’atmosfera era tesissima e anche i ragazzini tacevano, pensierosi, sbirciando l’espressione sui volti degli adulti.
Avevano scambiato poche parole mentre tutti mangiavano in fretta, poi Giovanni si era alzato accostando la sedia con violenza ed esclamando:
“Io ho da fare, scendo al paese. Sarò di ritorno per la mungitura”.
“Mi porti con te, babbo?”.
“Non posso” aveva replicato suo marito, con evidente imbarazzo.
Appena uscito il genero sua madre le aveva detto, aspra: “Ma cosa ti è saltato in mente… Perché? Perché questa pazzia di trasferirvi in campagna, improvvisarvi contadini?”
“Siamo appena arrivati…” lei aveva borbottato.
“Con tre figli, cosa puoi fare con tre figli. Te l’ho sempre detto, non puoi dire che non te l’abbia sempre detto! Non era uomo al quale imporre tre figli”.
“Imporre?” lei aveva sussurrato, aggiungendo: “Ci sono i bambini di là, abbassa il tono di voce, per favore…” mentre si metteva un dito sulle labbra, per indurla a tacere.
“Dovevi pensarci prima ai bambini.”
Aveva sperato nel suo arrivo, nel suo aiuto. In quel momento per un abbraccio che le consentisse di sfogarsi, di esprimere la paura, l’umiliazione che provava, il dolore e la rabbia che si alternavano massacrandola, per un abbraccio avrebbe dato qualunque cosa. Mentre le lacrime le strozzavano la gola, pensò "Cristo! Ma non vedi in che condizione sono? Mamma, non lo senti l’odore della mia disperazione. Sono in trappola! Sono in trappola com’eri tu: non vedo vie di fuga”.
Ma sulla cucina, più eloquente di mille parole, era calato il silenzio.
“Ho capito mamma, non ho ancora pagato il conto? Non ho ancora scontato la colpa di essere nata?"



La scelta di vivere in campagna aveva obbligato Ludovica e il marito, per la prima volta dopo anni, a condividere le giornate. Lui la guardava infastidito, una punta di disprezzo in fondo allo sguardo più significativa di qualunque parola. Lei si chiedeva chi fosse quell’estraneo che invadeva la sua cucina trascinandosi dietro i contadini dei dintorni, ridendo in modo irritante e, dopo aver stappato una bottiglia di troppo, dando fondo alle sue provviste.
Strappando ore al sonno, leggeva come una pazza, per capire e forse capirsi, alla ricerca di risposte che aveva già chiare dentro se stessa, ma non trovava il coraggio di ascoltare. Delusa dal marito si attaccavo sempre più ai figli, per i quali ormai viveva e che lui sembrava ignorare.
Sua madre, che aveva deciso di fermarsi per qualche giorno per darle una mano, le ripeteva “Tutti gli uomini sono così” ma quella frase le suonava falsa. Legata a generalizzazioni di comodo, la infastidiva e basta.
“Ti devi rassegnare” aggiungeva, concludendo con quell’ormai a stento sussurrato che faceva assumere al suo viso un’espressione da vinta, da sconfitta, che le gelava il sangue.
Giovanni si era portato in campagna un cavallo, ne comperò un altro. Arrivarono facce nuove, appassionati di equitazione. Arrivò anche una ragazza che lo guardava adorante: lui così fuori dagli schemi, così trasgressivo nonostante una moglie e tre figli. Arrivava in stivali e camicetta, profumata, fresca come una rosa, i pantaloni attillati da cavallerizza che sottolineavano la linea rotonda dei fianchi sui quali lo sguardo di Giovanni, fino a quel momento spento, si posava, insistente, accendendosi di bagliori dimenticati. Parlavano di cavalli e lei pendeva dalle sue labbra. Poi, finita la stalla, partivano e Ludovica dalle finestre della cucina li vedeva rincorrersi lungo le colline chiare di sole o cavalcare affiancati.
Per convenienza, ogni tanto, partivano con qualche amico.
Con i figli aggrappati alla gonna, anzi al grembiule diventato la sua divisa d’ordinanza, cercava con lo sguardo le loro sagome in corsa, precipitando nel pozzo nero della sua solitudine e umiliazione.
Sua madre, evitando di guardarla, chiudeva le imposte sospirando.
Lei le grandinava addosso parole di disperazione. Di rabbia.
Cercava un’alleata.
Sua madre continuava a parlare di rassegnazione.
Poi, una mattina fece la valigia, porse una rigida guancia al genero, l’abbracciò scuotendo la testa e decise di ripartire. (continua...)