domenica 20 giugno 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°27)

"Allora?" le chiesi impaziente.
Mentre il cameriere appoggiava la tazzina davanti a lei, Gloria afferrò la borsetta e alzò gli occhi voltandosi come a cercare qualcuno ma inforcando contemporaneamente un paio di occhiali dalla montatura piuttosto vistosa. Doveva  essere il segnale convenuto, perché la portiera posteriore della macchina che brillava immobile sotto il sole si aprì.  Lentamente, mentre il respiro si fermava quasi strozzandomi e Enrico mi afferrava una mano per calmarmi, qualcuno uscì: una figura si stagliò chiara, ritagliandosi uno spazio in quell'azzurro d'acqua e di cielo. Illuminata dal sole, riconobbi mia figlia dal maglione che indossava, mentre muoveva qualche passo,  subito seguita da un uomo che vidi soltanto di spalle. Stavo per alzarmi quando la voce di Gloria tagliò l'aria, facendomi accapponare la pelle. "Non dare in smancerie! Tua figlia sta bene come hai potuto verificare." Dopo pochi secondi, le due persone accanto alla macchina, dopo essersi guardate attorno,  risalirono accostando la portiera dell'automobile, consentendomi soltanto d'intravedere il viso di mia figlia semi nascosto dall'onda dei capelli, di cogliere in lei un impaccio nel muoversi e di registrare nella memoria quel gesto lento, titubante, nel togliersi un ricciolo dal volto, un gesto non suo. Era probabile fosse spaventata, incerta, se non addirittura terrorizzata - dissi a me stessa, cercando di calmarmi.
"Cosa le avete fatto?" sbottai, mentre le mani mi tremavano e sentimenti contrastanti: dal sollievo, per  averla potuta anche se solo per un istante vedere, alla rabbia, filtrati attraverso la paura e l'incertezza, mi scoppiavano dentro, dandomi la sensazione di essere su una giostra, come quelle che da bambina con il loro moto circolare mi facevano girare la testa.
Non mi rispose limitandosi ad alzare le spalle con aria seccata. Poi mi sussurrò:
"Verrai con me! Vedi quel palazzo alle mie spalle? E lì che dobbiamo andare e se l'informazione che mi darai sarà quella giusta usciremo da quel portone e io avrò un cappello bianco. Altrimenti indosserò un cappello rosso e... "
Tacque, mentre Enrico e io all'unisono, ripetevamo: "E... "
"Vostra figlia non vi sarà restituita!" disse.
Enrico mi zittì con uno sguardo dicendo: "Accetteremo soltanto se sarete disponibili a uno scambio. Vi propongo di prendere me al posto della ragazza. La mia impressione è che questa storia l'abbia, come sarebbe normale, provata. Mi è sembrata traballante.  Deve tornare da sua madre sana e salva, oggi, indipendentemente dall'informazione che vi forniremo. Abbiamo passato al setaccio la casa e la nostra memoria: più di quello che abbiamo fatto non potremmo fare... Dovete restituirci nostra figlia. E' criminale quello che state facendo e non ha giustificazioni!"
                     "Criminale? C'è stato di peggio, ben di peggio nel vostro civilissimo Paese e", aggiunse, mentre il suo volto s'induriva assumendo quell'espressione che ben conoscevo, che le faceva affiorare nello sguardo quell'anima spersa, che dava i brividi e gelava la parola sulle labbra, "senza giustificazioni, e men che meno valide".
Sentendo Enrico proporsi al posto di nostra figlia io non mi ero meravigliata, limitandomi a sorridergli grata per la sua proposta ma, forse senza riflettere a sufficienza, ora, balzata in piedi, ero pronta a seguire Gloria. Avere visto Letizia mi aveva dato una sferzata di energia, una forza che  mi pulsava nelle vene. E soltanto in quel momento mi rendevo conto dell'angoscia che mi aveva tenuta sveglia per giorni, del terrore che, annidato in fondo alla mente e alle viscere, non avevo voluto analizzare temendo che mia figlia fosse già stata uccisa.
Enrico si alzò e fece un passo verso di noi ma, vedendo la macchina in attesa mettere in moto e aspettare con il motore acceso, ebbe un'esitazione: lanciò un'occhiata verso la piazza lasciando scivolare sui finestrini scuriti uno sguardo rabbioso e impotente che si concentrò, un istante dopo, sul volto imperturbabile di Gloria, mentre un sospiro gli sfuggiva e le mani, strette a pugno, in un gesto di rabbia gli ricadevano inutili lungo i fianchi.
Io gli sorrisi, cercando di mettere in quello sguardo che ci scambiammo tutto il calore, la riconoscenza e l'amore che provavo per lui, poi mi voltai verso Gloria che fremeva, già nuovamente infastidita, e la seguii.
Fatti pochi passi entrammo nell'atrio silenzioso e ovattato di una biblioteca. La luce, filtrata da pesanti tende, illuminava appena i locali. Tavolini con persone intente a sfogliare libri si allineavano in lunghe file regolari.
Brillavano gli ovali che le lampade disegnavano fluttuando nell'aria come stelle in una notte estiva. Gloria si accomodò  invitandomi con un cenno del capo a fare altrettanto. Poi estrasse un libro dalla borsetta, mi guardò e mi disse:
"Allora cos'hai scoperto?".
"Cosa stai cercando?"
"Un'indicazione che questo libro dovrebbe fornirmi... "mi rispose, incerta.
"Forse una serie di lettere o delle parole?" le chiesi, tentando di mercanteggiare sulle mie informazioni, approfittando dell'emozione che, stranamente, sembrava averla contagiata.
Il libro che aveva appoggiato sul tavolino era sporco, sciupato e non riuscii a decifrarne il titolo ma, mentre occhieggiavo e Gloria lo apriva su una pagina qualunque osservandolo pensierosa e inquieta, capii i motivi del mio imbarazzo: non era scritto in italiano.
Gloria alzò gli occhi e disse: "E' inutile che tu allunghi il collo come una gallina cieca intenta a cercare il suo chicco... E' scritto in tedesco".
"In tedesco balbettai" fingendomi stupita e spaventata, mentre in realtà cercavo di cogliere ogni possibile informazione.
" Allora?" mi chiese Gloria mentre il mio sguardo registrava il tremore delle sue mani e la luce faceva brillare sulla sua fronte una lieve, significativa traccia di sudore. (continua...)

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°26)

   Lugano splendeva sotto il sole, illuminando i palazzi che nascondevano i caveaux delle banche gonfi di gioielli e di mistero. La cittadina puzzava di denaro come una pescheria, anche la più linda, di pesce.  Funzionari di banca cerimoniosi e untuosi si bevevano un caffè per togliersi dalla bocca il gusto rancido che vi ristagna quando la schiena si piega troppe volte davanti alla ricchezza e le palpebre filtrano sguardi che l’invidia illividisce.
           Il caffè, i tavolini rivolti verso il lago, ruotava intorno a un cameriere impeccabile che, in attesa delle ordinazioni, lasciava scivolare  uno sguardo severo sulla mia faccia, sconvolta dalle troppe notti senza sonno, e sulla camicetta stropicciata, notando forse l’assoluta mancanza di gioielli che risplendevano invece al collo, ai polsi e alle dita delle numerose signore che, sorseggiando infusi, tisane e caffè, si sussurravano maldicenze e indiscrezioni esplodendo in risatine, subito soffocate in nome di un bon ton che le uniformava al pari delle condizioni che regolamentavano i loro conti correnti bancari. I nostri occhi, che febbricitanti e riarsi setacciavano ogni angolo, ogni movimento, ogni macchina che scivolasse lungo la strada o finestra che un raggio di sole facesse brillare anche solo per un istante, diventavano sempre più inquieti al passare dei minuti  senza che nulla accadesse, assumendo quell'aria interrogativa che le domande senza risposta conferiscono allo sguardo. 
Il tempo passava, il sole si spostava nel cielo invadendo angoli fino a quel momento privilegiati dall’ombra. Sentivo il cuore battermi disordinatamente nel petto, colpi irregolari che s’infrangevano contro le costole, quasi volessero spezzarle per esplodere da quel mio corpo troppo minuto per contenere tanta paura e tanto dolore. Il mio sguardo scivolava su Enrico cogliendo soprattutto negli occhi - lo stesso taglio, colore, la medesima intensità pensosa -  la somiglianza tra padre e figlia. Davanti agli occhi mi sfilavano in rapida sequenza immagini, una carrellata di immagini che me la riportavano alla memoria: piccolissima, appena me l’avevano messa tra le braccia, in quella Venezia che sembrava promettere solo bellezza e tenerezze  infinite, con il fiocco e la cartella al primo giorno di scuola, alle feste di compleanno con le torte sempre più ricche di candeline, di burro e di tensione e poi...  in fuga: dalla città, dal padre, dalle promesse non mantenute che il mio volto  chiuso, serrato nella rabbia e nel rancore, doveva averle comunicato. Gli anni erano passati,  lei e io sole contro il mondo, le domeniche ai giardinetti, l’attesa di quel padre che i teatri si contendevano rubandoglielo, mentre io diventavo sempre più tesa e litigavo con sua nonna sciorinandole dinanzi agli occhi una femminilità dolente, inacidita dal rancore e dalla solitudine. Ero ormai un grumo di paura, di disperazione e di rabbia, ma ero anche attenta, accorta come una leonessa in caccia per procurarsi il cibo per i cuccioli, quando, con la coda dell’occhio, notai quella falcata inconfondibile, il lungo abito che vorticava intorno alle caviglie e i capelli che brillavano sotto il sole: Gloria, decisa, stava attraversando la piazzetta dirigendosi verso il caffè dove Enrico e io continuavamo, per non dare nell'occhio e anche per calmare i brontolii delle nostre viscere contratte, a ingurgitare tè e ingoiare pasticcini.
“Eccola!”
Si sedette.
"Posso avere un caffè?" disse.
Non  le mancava la faccia tosta - pensai, mentre Enrico passava l'ordinazione al cameriere.
"Non ti dirò né consegnerò nulla, senza prima aver visto... " borbottai.
"E lui cosa ci fa qui?" chiese Gloria, squadrando  Enrico 
"E' con me, ma non fingerti meravigliata, ci sorvegliate da... da non so nemmeno quanto tempo"
Poi, mentre la voce mi si spezzava, dissi:
"Come sta Letizia? Mi auguro non le abbiate fatto del male!"
 "Alle mie spalle, sta parcheggiando dall'altra parte della piazza una macchina scura, i finestrini abbassati. Aspettano un mio cenno per far scendere tua figlia dalla macchina. Avrai modo quindi di verificare le sue condizioni. Ora tocca a te! Cosa avete trovato?" concluse, mentre i suoi occhi si illuminavano per un istante di quella luce che solo l'odio era in grado di accendere.
"Che garanzie abbiamo di riavere Letizia, dopo averle rivelato il risultato delle nostre ricerche?" chiese Enrico.
Il  tono della sua voce era fermo, lo  sguardo calmo, consapevole, scivolava sul volto di Gloria.
"Nessuna, ma non avete scelta. Posso soltanto ripetervi che non siamo assassini, vogliamo... "
"Ladri si!" la interruppi.
Si voltò lentamente verso di me e poi, mentre un 'ombra le increspava il volto pallido quasi un presagio di pianto lo attraversasse, mormorò: "Non è denaro che cerchiamo, ma qualcosa per noi di ben più prezioso" e tacque, assorta.
Il sole ci illuminò per un istante, poi l'ombra ci avvolse in un gioco di luci e tenebre quasi a sottolineare quella schermaglia di proposte e controproposte alle quali era affidata la vita di ciò che avevo di più prezioso.
Gloria, com'era nelle sue abitudini, era riuscita con quelle poche parole ancora una volta a sorprendermi.
(continua...)
Nb: ho reinserito la puntata per un errore di trascrizione dell'indirizzo su Friend Feed. Pardon!

giovedì 17 giugno 2010

Cigni e anatroccoli

Cosa si fa quando si ha paura, una paura come quella che ti azzanna quando ti ritrovi nella  notte su una circonvallazione, sotto l'acqua che a stento ti consente d' intravedere cartelli stradali sui quali spiccano nomi di paesi sconosciuti? La benzina è al minimo, quasi come il tuo coraggio, e tu sei sola, una donna sola persa,  spersa, e ha ben poca importanza che l'intrico che ti imprigiona sia fatto di strade invece che di pensieri o di quelle che in famiglia chiamavamo paturnie. E' l'impatto con qualcosa che non sai, che non riesci più a gestire.
Gli altri intorno a te sembrano farcela benissimo. O fingono? Ammesso che lo facciano sono  grandi attori.
E tu? Tu sei una schiappa, altro che il guidatore di questa macchina che ti supera in tutta sicurezza, sollevandoti davanti agli occhi una sventagliata d'acqua fangosa che sembra un'onda da surf... per poi sparire, dissolvendosi in quell'oscurità che si ciba di paure, e tu, tu sei la personificazione della paura, la sua pavida tremante immagine.
Sei  Cappuccetto Rosso davanti al lupo, sei quel maledetto anatroccolo che Andersen ha tratteggiato con  tale maestria da renderlo il gemello siamese di generazioni di ragazzini ... Oh, my God, Andersen e lo sgraziato e sfigatissimo anatroccolo  bloccano per un istante il vortice dei pensieri. E' un apprendistato durissimo, quasi quello di un cadetto a West Point, che la vita ti ha richiesto, ti sta richiedendo? E' un percorso sterrato che sbucherà in un'autostrada a sei corsie? E' il destino dolce e amaro di chi viene al mondo dotato di una sensibilità più ricca, corposa e sfaccettata di quella dei "famosi" altri?
Forse.
Quel diavolo di Andersen deve averne mangiata di polvere per scrivere ciò che ha scritto, deve essersi sentito anche lui solo sotto le stelle nel silenzio di notti interminabili e bugiarde, deve aver provato la rabbia che schiuma sulle labbra di chi, ovunque si volti, scopre inferriate,  immaginarie o reali  non ha importanza, a sbarrargli la via. E' solo da quella rabbia e da quella paura, come una pianta da una una terra concimata di letame, che possono nascere i cigni? Bianchi o neri, estremi nel colore come nella forma, aerei, curvilinei come solo i corpi delle donne possono essere, è da loro che avranno tratto ispirazione quegli uomini spersi tra cielo e mare che sono i veneziani per dare alle loro gondole quella sinuosa, superba bellezzza?
Una sventagliata dei fari illumina il cartello e calma i battiti tachicardici del mio cuore. Imbocco la strada che mi porterà a casa. Andersen al mio fianco sogghigna. Ne ha salvata un 'altra? Ma è troppo vecchia per essere... Non è mai troppo tardi per riconciliarsi con la vita - penso, mentre l'ultimo rantolo della macchina mi conferma che la benzina è finita.
"Notte brava?"
Una volante della polizia stradale èsbucata dal nulla.
"Bravissima..." rispondo e  allungo al poliziotto la  patente, mentre nel cielo si accende un baluginio di luce.
A sconfiggere la notte.

martedì 15 giugno 2010

Il coraggio è impudico e quasi sconveniente

Il coraggio non va più di moda! E rende chi lo possiede una persona fastidiosa,  per non dire volgare o addirittura impudica. Ben più sconveniente di una coscia nuda e di  un fondo schiena sculettante che - almeno - scatenano sani e normali desideri. Eh sì, il coraggio quello autentico - ben diverso dall'eroismo, suo parente stretto, fiammata che accende e distrugge, spirito kamikaze di persona votata alla morte -  è vita: è voglia di vita migliore non  soltanto per sé, egoisticamente, ma anche per parenti, amici, compagni di strada e di scuola, cittadini e... chi ne ha, più ne metta. Il coraggio è compagnone: cerca affetto, vuole coinvolgere. Crede nella solidarietà, nella condivisione dei valori che si porta dentro e che, senza tentennamenti, ritiene giusti perché attengono all'etica, non alla morale.
E' semplice e lineare, diretto nell'approccio, incapace di dosarsi - un tantino di coraggio qui e una spruzzata lì, appena un soffio, tanto per farne sentire il profumo. Si stupisce davanti alla vigliaccheria che non conosce e osserva stranito, come farebbe con un marziano capitato per caso sulla Terra.
Fa paura (il coraggio), è terrorizzante e impossibile da ignorare: il suo guizzo che lampeggia spicca come una lingua di fuoco accesa nella notte. Isolata. Come una donna troppo bella  e da tutti desiderata,  un invisibile immaginario confine, un cerchio, sempre lo racchiude, senza proteggerlo ma solo isolandolo.
Non c'è bancone di negozio che lo esponga,  non c'è cartellino del prezzo che ne renda possibile l'acquisto, né percossa, né bastone, né parola, né minaccia che possano spaventarlo.
Per farlo tacere c'è solo la lupara, o la dinamite o il tritolo.
Ma  io so che una traccia comunque rimane, una bava nel vento, una voce  che sembra uno stormire di fronde. Qualcuno la raccoglie: non si uccide il coraggi, solo chi lo possiede.
E questo mi consola, mi pacifica... un poco, ma anche mi addolora - tanto -  mentre ripongo "La parola contro la camorra" nella mia libreria, allungo una carezza, e me ne vado via.

venerdì 11 giugno 2010

Il Libro dei sogni



Dopo avervi depredato, ragazzi, di tutti i sogni, vogliono completare l'opera, manomettendo anche quel Libro che vi autorizzava a sognare, che vi dava il diritto di farlo? 
La Costituzione?
E' una bulimia di potere quella a cui stiamo assistendo?


Imbevibile Milano

Lo sferragliamento dei tram e l'urlo delle sirene sono quelli di allora e la gente che si muove e parla in fretta, sbuffando davanti alla minima incertezza di chi, passante o automobilista, intralci la sua corsa, sembrerebbe la stessa, eppure la sensazione che mi scivola sotto la pelle mi dà un senso profondo di angoscia. La città che mi accolse - sono passati vent'anni - con mattini nebbiosi che sapevano di croissant e caffè ristretto, da bere in fretta prima di scattare non di andare al lavoro, era pervasa ancora dalla voglia di fare, era orgogliosa, un po' superba come chi sa di essere il migliore. Circolavano soldi, tanti, e non ci ci perdeva in chiacchiere. Prima si lavorava e si produceva, poi si parlava, verificando che i risultati ottenuti fossero migliori di quelli preventivati.
E i ragazzi avevano un'aria disinvolta, anche se cominciavano a esserci troppe filiali di banche e troppa uniformità in quegli abiti grigio ferro con camicia azzurra e cravatta a strisce. Ma la città era sempre più grande e pronta ad accogliere e assimilare nuove ondate migratorie come, in ordine di tempo, aveva fatto con l'ultima, ingoiando contadini meridionali dalle mani callose e la coppola e sfornando dopo pochi anni milanesi di seconda generazione che parlavano in meneghino. Era ancora una città che sapeva premiare la fatica, l'impegno, capace di avvertire i cambiamenti ben prima della sonnolenta provincia italiana. Era la città dove gli operai avevano una tradizione di valori condivisi, dall'antifascismo alla lotta contro il terrorismo, dall'orgoglio per il lavoro fatto "a regola d'arte" alla solidarietà e alla cultura della fabbrica, che li rendeva "classe" dando loro un'appartenenza che già cominciava a traballare, ma ancora teneva. Le donne trovavano lavoro e, sulla scia dell'autonomia economica e del femminismo militante diffuso in città, acquisivano una sicurezza che stupiva ma anche inorgogliva le loro madri. Saliva il livello culturale: teatri, cinema,  librerie accoglievano conferenzieri e un  pubblico eterogeneo, sempre numeroso. I ricchi, tanti, si mimetizzavano dietro i portoni anonimi dei palazzi che custodivano la ricchezza senza ostentarla e i poveri allungavano il berretto, borbottando un  "grazie" tra i denti, ma senza esibire la loro povertà.
Era un mondo dove ancora si parlava, non si urlava.
In questi giorni mi sono trovata davanti  una città diversa, una città "stanca". Impotente, o convinta di esserlo. Ho colto questa stanchezza sui volti delle persone stipate come sardine sui mezzi pubblici, nei loro sguardi tesi, nelle bocche serrate. Anche i giovani rampanti manager tutti rasati, nervosi, grintosi, alla sera quando li incrocio, la giacca gettata sulla spalla, non hanno un'aria allegra: l'economia di carta che hanno contribuito a inventare si è rivelata una trappola mortale, una ricchezza virtuale che è scivolata lungo le autostrade immaginarie dei loro computer lastricandole di moneta scritturale. Numeri, solo numeri incasellati uno sotto l'altro, ordinatamente, a misurare una ricchezza finita soltanto nelle tasche dei banchieri, i nuovi predoni  in doppiopetto che si sono sentiti tanto potenti, da moltiplicare il denaro con la facilità con cui Qualcuno moltiplicò pane e pesci, ma per sfamare, non per affamare. Frastornati dal rumore i milanesi, quelli in età lavorativa,  sono ancora tutti in corsa, ma intruppati e consci di esserlo. E' una città incattivita e preoccupata che sente di aver subito non scelto il cambiamento di questi ultimi anni, conscia di non contare nelle singole individualità dei suoi cittadini , ma incapace di ribellarsi ad aggregazioni che si decidono altrove, nei "salotti buoni" dove i cittadini diventano consumatori, o consenzienti elettori di personaggi discutibili per permettere a pochi di guadagnare tanto sulla pelle dei tanti che guadagnano poco. Schiavi e padroni ci sono ancora, hanno soltanto cambiato aspetto, non condizione, e essere incatenati a un computer in un call center non è meno alienante di una vita consumata davanti alla catena di montaggio in una delle tante fabbriche che ci restituiscono la voce degli operai  soltanto quando muoiono o si piazzano sui tetti a gridare la loro disperazione di prevedibili disoccupati.
Quanto ai ragazzi che affollano i centri commerciali, standardizzati nell'aspetto esteriore, ridotti al rango inconsapevole di consumatori, tatuati nel corpo, ma più pesantemente nel cervello, resi acritici da un'educazione scolastica sempre più inconsistente, grazie a una riclassificazione di valori che ha collocato l'istruzione ai gradini più bassi tra gli obiettivi dello Stato,  è la loro  insensibilità al dolore, alla miseria o alla sofferenza dell'altro da sé che mi ha avvelenato l'anima. L'ostentazione della povertà che trabocca  e invade la metropoli, sottoponendola a un assedio di bisogni soffocante, sta scatenando una guerra tra disgraziati, tutti contro tutti, che pervade l'aria di rissosità, violenza e degrado.
Questa città, che mi ha insegnato molto, oggi non la ritrovo più.
E più non la riconosco.
Chi ha reso "imbevibile" Milano?
Chi comanda o chi subisce?
La risposta è così difficile?

KVT9DMB6RNZ7

martedì 1 giugno 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°25)

"Pronto" esclamai, la voce strozzata.
"Mio Dio, stai bene?"
Era una collega - il mondo continuava a girare come sempre  - non riuscii a fare a meno di pensare mentre, cercando di apparire normale, rispondevo, concludendo la telefonata a tempo di record, con la prima scusa che la mente riusciva ad agguantare.
Enrico mi osservava pensoso, attento a ogni mio gesto, presente, la sensazione di calore che mi trasmetteva avvolgente come una coperta in una di quelle notti invernali in cui la casa geme sotto il vento e le finestre rimandano buio e gelo, e tutti i fantasmi che teniamo a bada abitualmente si scatenano invadendo i nostri sogni decisi a trasformarli in incubi.
"Non so cosa avrei fatto..." gli sussurrai senza riuscire a completare la frase, interrotta da quella sua scrollata di spalle, quella ritrosia di fronte ai complimenti che né il tempo né i successi professionali e artistici avevano modificato.
"Quando tutto sarà risolto, ne parleremo" mormorai, mentre la paura mi riafferrava, si faceva sangue e respiro, mi chiudeva la gola incupendomi  lo sguardo, e la conta spasmodica dei minuti dava al tempo una valenza diversa.  Solo chi ha provato il tempo angoscioso dell'attesa di un evento sottratto alla sua volontà conosce quella dilatazione dei minuti che sembrano trasformarsi in ore, voragini  in cui precipitiamo con la sensazione di essere finiti per errore in una dimensione sconosciuta che ci imprigiona e ci opprime.
Distesi sul letto, ormai pieno di di briciole, condividevamo  panini e parole, brevi momenti di riposo - quando la tensione si faceva insopportabile e la mente cedeva al sonnno - abbracci, sospiri e carezze, mentre fuori,  là nel mondo che non sembrava più appartenerci, continuava la sarabanda dei clacson,  lo sferragliamento dei tram, il vocio della gente che dopo essere aumentato di tono si era fatto,  verso sera, bisbiglio per poi smorzarsi  del tutto  cedendo il posto ai suoni e rumori caratteristici della notte.
Il trillo della sveglia mi fece sobbalzare, mentre l'angoscia si svegliava con me e il primo baluginare del giorno
sbiancava il cielo ancora luccicante di stelle.
Enrico, al mio fianco, mi attirava a sé, la guancia ispida di barba non rasata che mi strappava un sorriso.(continua..)