sabato 29 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°24)

Il trillo del telefono ci fece ammutolire.
"Sì?"
"Avete trovato qualcosa?"
La voce di Gloria era ferma e fredda, per nulla incoraggiante.
"Sì".
"Cosa?"
Un fremito appena distinguibile nella voce.
"Lo saprai quando mi consegnerai mia figlia".
"Non sei nella condizione di trattare, lo sai!"
Meglio non indispettirla - pensai, rispondendole: "Lo so".
"Devo verificare se l'informazione è quella corretta... Dobbiamo trovarci  a Lugano, domani mattina alle nove; c'è un caffè all'aperto, si chiama 'La donna del lago'..."
"Devo vedere mia figlia... Non ti consegnerò nulla se prima... "
"Sì, stai tranquilla. Sta bene e potrai vederla",  infastidita, tanto per zittirmi.
"Passamela!" intimai, inutilmente imperiosa. Aveva già abbassato la cornetta.
Rimasi immobile, il rumore del telefono monotono e ripetitivo a conferma che dall'altra parte avevano riattaccato, mentre Enrico mi guardava. Interrogativo. Gli riferii quello che Gloria mi aveva appena detto.
"Lugano? E il numero di un conto corrente o di una cassetta di sicurezza che stanno cercando?" borbottò, quasi parlando tra sé e sé. "Ma non riesco a capire il coinvolgimento dei tuoi genitori... "
"Se mia madre fosse viva... " dissi, aggiungendo "anche se mi ha raccontato solo bugie!" mentre il rancore riaffiorava, acido come un rigurgito di bile.
"Proviamo a riepilogare: tua madre e Gloria danno versioni contrastanti del passato che, in prima persona , ti coinvolge. Chi è il tuo vero padre? "
Guardai Enrico, scuotendo la testa, mentre i pensieri si facevano caotici.
"Non lo so. Ma ora mi interessa nostra figlia. Starà male? Avrà paura? Cosa penserà di me, di te... di noi. E si sentirà abbandonata?"
Non ero riuscita nemmeno a sentirla - pensai, chiedendomi se fosse viva. Ancora. Sconvolta, dopo essermi seduta perché le gambe non mi reggevano, dissi a Enrico:
"Se andassimo alla polizia?"
"Ci stanno pedinando e controllando; é troppo pericoloso"
"Ma abbiamo in mano soltanto quella stupida filastrocca... Se non fosse ciò che cercano? Domani come ci comporteremo: come sarà materialmente possibile scambiare questa informazione con... con Letizia?"
Enrico taceva, sembrava ruminasse qualcosa tra sé e sé, poi, lentamente, disse:
" Vedrai che andrà tutto bene... Che convenienza avrebbero  - cerca di ragionare freddamente, anche se capisco quanto sia difficile - a trasformare un rapimento in un omicidio?"
Poi, dopo una breve esitazione mi chiese: "Cosa faremo quando tutto questo sarà risolto?"
Io lo guardai: la camicia stazzonata, i jeans stinti, le lunghe dita nervose che sottolineavano le sue parole e gli occhi, quei suoi occhi ai quali mi ero arpionata - come uno scalatore su una parete a strapiombo ai chiodi  - trovandovi conforto e aiuto, ma non solo. Nel suo sguardo che mi riconosceva, accettandomi, mi ero vista  acquisendo, se non ancora un'identità, la consapevolezza di averne una per lui o di essere accettata anche con i miei confusi, variabili, confini. Scoprivo il calore di un'appartenenza in un momento in cui, non più figlia ma solo madre, affrontavo il rischio di una lacerazione anche su quel fronte. Riprovavo la passione, il desiderio, il conforto di un'altra pelle.
Abbandoni dimenticati.
In quel momento squillò il telefono. (continua... )

giovedì 27 maggio 2010

Ancora blog

Nella notte scura e silenziosa soltanto un brusio di fondo, ma poco più d un bisbiglio, un ronzio come di calabroni in un prato a caccia di nettare, ma meno ingordo, più contenuto. Intorno a lei, appena intuibili attraverso i vetri della finestra, sfumavano nel buio i contorni delle case con le finestre chiuse. Solo qualche fanale spandeva un alone di luce opaca  lottando con le brume della notte per conquistarsi uno spazio circolare che sembrava vibrasse, come di freddo. Le sue dita scivolavano sui tasti leggere, carezzevoli, e, in quel mondo che sembrava essersi addormentato di botto, quasi per effetto di un colpo di bacchetta magica, un altro mondo vegliava ritagliandosi uno spazio - una dimensione aerea e sconfinata senza case, né cemento, né terra , né macchine, - nel quale incontrarsi grazie a quegli schermi  luminosi che accendevano la notte e a quelle cascate di numeri e lettere che volavano  disperdendosi in quel cielo nero, appena soffuso di stelle, a colmarlo di parole.
Lei ,vecchia signora malandata, spintonata fuori dalla mischia della vita attiva, rinchiusa in quella sua casa silenziosa, le parole racchiuse nei libri - vorticanti nel cervello come falene impazzite intorno a una luce -  che, come predoni affamati di spazio, si mangiavano le sue case, che cosa avrebbe potuto fare per sentirsi ancora parte di quel flusso vitale? Per riprovare l'eccitazione che le pervadeva il sangue, facendola camminare avanti e indietro lungo i percorsi obbligati delle tante aule dove aveva insegnato, quando riusciva  ad afferrare, e a tenere tra le dita, la curiosità di quegli occhi troppo spesso distratti sottraendoli alla noia e alla fatica di quelle ore, troppe, passate sui banchi a ingoiare nozioni come oche da foie gras, il mangime.
                   Ai margini della vita attiva, con la prospettiva dell'uncinetto e dei pomeriggi con i, pur adorabili, nipotini la vita le aveva offerto un'altra chance. Era stato... Divertente? Direi di più: esaltante! La sua curiosità, che si stava spegnendo per mancanza di stimoli, avevo ripreso forza, come un fuoco quasi spento, per effetto di una energica soffiata. Quell'età anagrafica, che sembrava l'avesse confinata in un ghetto e, non paga, in un ghetto ancora più limitato, la malattia, ora pareva non esistessero più.
                All'interno della Rete, i suoi fruitori avevano diritto di cittadinanza per ciò che avevano da dire e i sentimenti che riuscivano a esprimere: l'età non era così importante, anche perché gli internauti sembravano essere mediamente preparati, curiosi e ... Appassionati?  Sì, molti erano lettori accaniti, parecchi scrivevano, altri erano musicisti o pittori, se non grafici. Be', era un bel mondo e il fatto che fosse virtuale, lungi dall'essere un limite, gli conferiva una leggerezza che gli consentiva da volare di fiore in fiore in quella blogosfera costellata di blog come un prato in primavera di margherite.
Erano stati quello strumento, il pc, e quel mondo, la blogosfera, l'uno a facilitare e l'altro a far divampare quella passione che, affogata per troppi anni nella risciacquatura dei piatti, si era svilita in quelle pagine d'agenda dove l'avvio di un racconto s'incagliava sulla stanchezza della giornata - che prendeva il sopravvento - o s'inframmezzava a un "portare i compiti corretti in quinta", " comperare frutta e formaggio" e altre simili amenità. La passione per la scrittura era diventata la sua vita. Aveva conosciuto molte persone, erano nate alcune amicizie: importanti, con persone sulla sua lunghezza d'onda - pensò, sistemandosi comodamente sulla seggiola e digitando sulla tastiera il titolo dell'ultimo racconto, mentre intorno a lei il silenzio s'impadroniva della casa  e la gatta, occupata la sua postazione prediletta, si acciambellava sulla stampante, mentre la notte s'incollava ai vetri della finestra, origliando curiosa.

http://falilulela.blogspot.com/2009/12/blog-mon-amour.html Blog, mon amour
http://falilulela.blogspot.com/2009/12/ancora-blog.html        Ancora blog

martedì 25 maggio 2010

Il folletto

Come sua madre, invecchiando, aveva fatto sua quella frase "Buona salute e cattiva memoria" per alzare difese che la proteggessero dal dolore, per rintanarsi in un angolo, sperando che la vita la dimenticasse, sfiorandola appena nel suo irrompere cieco e violento. Camminava, più che pigramente, lentamente, un po' distratta, persa nei suoi pensieri che non erano granché, ma comunque le occupavano la mente. Intorno a lei  vecchie case, terrazzini miseri, gerani rossi striminziti che lasciavano intravedere tende, dai colori accesi, stirate con cura. Tutto anonimo, ricco soltanto di quella attenzione e precisione che sono gli unici elementi in grado di differenziare il lavoro di una casalinga da quello di un'altra. Il cielo si stava rannuvolando e l'inverno se lo sentiva ancora attaccato ai calcagni come un cane rabbioso,  mentre  affrettava il passo, sbirciando quelle nuvole sempre più scure, diretta al negozio di alimentari che era appena dietro l'angolo. Arrivò un po' ansante davanti all'ingresso lasciandosi alle spalle le prime gocce di poggia; entrò ripulendosi energicamente le suole delle scarpe sullo zerbino, poi alzò la testa e... incrociò il suo sguardo. Non sorpreso: divertito.
Lui non era uomo che la vita potesse sorprendere: era lì, davanti a lei che restava  immobile come un baccalà messo a seccare, i capelli un po' spenti, gli occhiali che le scivolavano sul  naso, quel suo naso che era stato spiritoso, dirtto e puntato all'insù,  e che continuava a dare al suo viso un'espressione vagamente spavalda che ben poco aveva a che fare ormai con lei.
Sorrideva, ma nemmeno le rughe - fitte intorno ai suoi occhi scuri e, quasi un fuoco interiore li illuminasse, accesi come sono spesso gli occhi dei meridionali  -  riuscivano a imprigionare l'ironia, la passionalità,  quella corrente elettrica che sembrava attraversarlo rendendolo affascinante, caldo come una carezza rubata ma non respinta.
" Pensavo a te... " e le si avvicinò.
Bugiardo come sempre e quindi inaccettabile per il rigore e il pudore, quasi vittoriano,  di lei che lui ignorava, scavalcava come avrebbe fatto con un sassolino posto di traverso sulla sua strada.
"Ma cosa ci fai qui? Come mai... ?"
"Passavo da queste parti... Sì per affari e mi sono ricordato..."
"Di me non credo"  lei lo interruppe.
"Se mi inviti a pranzo te lo racconto...  Comperiamo qualcosa di pronto?" lui concluse, mentre già afferrava un carrello  e  partiva verso il banco degli affettati, camminando non come un cinquantenne sorpreso a fare la spesa,  ma  come un corsaro che alla testa dei suoi predoni li guidasse all'assalto di un  galeone, la voglia di battaglia  nello sguardo per ritrovare il gusto dello scontro fisico, per risentire il sangue scorrere nelle vene e rombare come l'acqua quando tra pietre e sassi s'infila nelle viscere della terra, lungo percorsi sconosciuti.
Lei lo seguiva, impacciata, ma la sua forza, quella vitalità traboccante la  stavano contagiando. Già il fermaglio che le ingabbiava i capelli conferendole quell'aria dimessa era scivolato via, e anche il suo passo si era fatto più sicuro. Il capo, eretto, che ritrovava l'orgoglio per quei capelli chiari, soffici come quelli di un bambino, a incorniciare il viso pallido che l'eccitazione rendeva opalescente.  Le donne se lo mangiavano con gli occhi, quasi squittendo al suo passaggio per attirare la sua attenzione e lui saggiava su di loro il suo potere di seduzione, cedendo il passo cavallerescamente, un sorriso per ciascuna, conscio ma quasi appesantito, suo malgrado, da quel fascino che lo contraddistingueva e lo avvolgeva, come un'aureola il capo di un sant'uomo.
Lei avvertì il morso della gelosia, quella sensazione tanta volte provata di non possedere di quell'uomo nulla o quasi, mentre il bisogno di averlo tutto per sé, di legarlo a sé, di sottrarlo a quegli occhi femminili che nascondevano profferte amorose più o meno abilmente dissimulate, l'afferrava alla bocca dello stomaco.
Quando lui si voltò a cercarla non la trovò. In un balzo fu davanti alla porta d'ingresso; si affacciò. Diluviava e l'acqua, ripulendo dalla polvere le case e le strade, gorgogliava fangosa ai suoi piedi. Tutto era grigio, sporco e umido. Per un attimo, provando la sensazione di scorgere una macchia di un grigio più scuro in mezzo a quel diluvio d'acqua, si chiese quale fosse il colore del golfino che lei indossava, ma al suo fianco era spuntata, come un fungo non mangereccio dopo la pioggia in un bosco, l'ombrello rosso spalancato verso il cielo, una donna piccola,  l'aria vivace, che, allusiva, gli stava sussurrando: "Vuole un passaggio? Vedo che non ha l'ombrello... " e lui era troppo impegnato a sfoderare sorrisi, per distinguerla dalla pioggia, passandole davanti,  mentre lei, incuneata nel profilo sporgente di un portone, lo guardava allontanarsi leggero, il passo elastico e sciolto.
Come un folletto dei boschi.
Evanescente e inconsistente.
Come un miraggio per un assetato, ma altrettanto illusorio - pensò affrontando la pioggia che rimbalzava violenta sul selciato confondendosi con il rumore dei suoi passi.

sabato 22 maggio 2010

Cicale indemoniate

Come luna che il pozzo rispecchia
danza  la notte che l'amore incanta,
stordente di cicale indemoniate,

solitaria
e bugiarda
è la notte che più non dividiamo

che,
ognuno con il suo egoismo gramo,
libertà  chiamiamo.

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°23)

Ero  in quella condizione dell'anima che in natura trova una corrispondenza forse  nell'apparizione effimera e imprevedibile dell'arcobaleno a sottolineare dopo l'urlo e la violenza del  temporale, con le nuvole ancora minacciose a sfidare il vento, l'insopprimibile stupore che suscita la coesistenza, anche se fugace, degli opposti.
Gli avvenimenti sconvolgenti degli ultimi giorni, infatti, spogliandomi di ogni difesa, mi stavano facendo percepire la realtà esterna con una passionalità e una capacità di emozionarmi che non riuscivo più a controllare ma, nonostante l'angoscia, la presenza del musicista mi riportava a una pienezza del vivere di cui avevo smarrito perfino il ricordo.
Le ore passavano, la luce del giorno perdeva di lucentezza: noi, un panino tra i denti, continuavamo ostinati, di ora in ora più disperati, a passare al setaccio la casa, fino a quel momento in cui, passandomi accanto, Enrico mi sfiorò e io voltandomi incrociai il suo sguardo notando, stupidamente, quanto gli somigliasse nostra figlia, quanto fossero eguali  i loro occhi, mentre lui mi attirava a sé e Venezia mi esplodeva dentro riportandomi all'urlo rauco del gondoliere, allo sciabordio dell'acqua che s'infrangeva incessante sui muri dei palazzi  in una lunga inesausta carezza,  a quelle notti in cui il cielo sopra ai canali scoppiava di stelle che  specchiandosi nell'acqua l'accendevano di bagliori dimenticati.
Ci ritrovammo riconoscendoci a pelle: lo stesso odore, gli stessi gesti , lo stesso disperato tentativo di  dimenticare una realtà che non sapevamo gestire, pur  amandoci. Ci ritrovammo perché mai c'eravamo lasciati e, mentre ancora le nostre mani si cercavano, sbirciai l'orologio.
Un'ora all'ultimatum.
Il cuore mi si contrasse.
"Abbiamo guardato  dappertutto" disse Enrico, poi aggiunse: "Mi fai venire sempre la voglia di suonare. Ricordi? Io suonavo e tu canticchiavi. Canticchiavi a Letizia quella tiritera, quando tentavi di addormentarla in quelle sere estive che Venezia ci donava, trasformando ogni piazzetta in un palcoscenico teatrale degno di una commedia goldoniana... ".
"Ambarabà, ciccì coccò, Cappucetto si mangiò tre gelati, ben ghiacciati. Poi dal gelataio andò e altri cinque ne comprò. Ne pagò cinque più tre... "
All'unisono esclamammo: "Ma è questa?"
"Come continua? Chi te la insegnò?" mi  stava chiedendo, frenetico, Enrico.
"Che non fanno 23, né 21, né 28, ma soltanto e solo 8!" gridai, un po' ridendo e un po' piangendo: di gioia, di sollievo.
Grata a mia madre, a Enrico, all'amore, al desiderio. Al mondo intero.
continua...

domenica 16 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°22)

"Allora? " Era lei.
"Non so nemmeno cosa cercare: dammi un indizio!" e, in fretta, con l'angoscia che straripa rendendo tremante la mia voce, sussurrai: "Letizia?".
"Sta bene".
"Passamela!"
"Sta dormendo". Poi, gelida - mi sembrò di vederlo, quel suo sguardo vuoto che tradiva il baratro di solitudine, di mancanza di emozioni a cui il suo corpo offriva asilo - concluse con quell'ultimatum "Ti do un giorno, non di più. Fatti aiutare dal... tuo amico".
Seguì il rumore secco della cornetta abbassata.
"Un giorno" balbettai "un giorno per cercare qualcosa che non so nemmeno cosa sia? E mi stanno pedinando".
                     Lui, il musicista - non riuscivo a chiamarlo Enrico - sarebbe stato come riappropriarmi del rapporto privilegiato che ci aveva uniti, mi stava dicendo, una ruga sulla fronte a indicare lo sforzo di concatenare in modo logico gli indizi che gli avevo fornito: "Stanno cercando una chiave d'accesso a qualcosa, e l'anello ha già consentito a questi maledetti bastardi d'imbroccare la strada giusta, ma ora hanno bisogno di una ulteriore informazione... Sono andati a Trieste e l'hanno cercata nella casa di tua madre. A partire dal ladro che s'introdusse nella casa di Gloria, tutti cercano una bambola, una bambola che dovrebbe contenere un'informazione. Allora partiamo da questo dato, che ne dici?"
"La bambola la ricordo... "
"Che fine ha fatto?"
"Questo proprio non riesco a rammentarlo... "
Mi versò un bicchiere di vino e io lo sorseggiai pensierosa.
"Hai guardato in soffitta?"
"Sì, ma torniamoci, magari tu... "
La soffitta è il luogo dove il mio disordine si manifesta in modo esplosivo. Enrico rise guardandosi intorno, mentre diceva: "Non sei cambiata, come fai a vivere in questo caos?"
"Non vivo in soffitta" protestai, ma senza risentirmi dell'osservazione; poi cominciammo a cercare.
                    Brandelli di vita si riaffacciavano alla mia memoria, si incastravano uno nell'altro, vite parallele dimenticate o negate si affiancavano a quella che io, con un'attenta selezione dei ricordi, avevo voluto privilegiare. Un libro per l'infanzia "Il brutto anatroccolo" affiorò da un baule. Seduta sul pavimento,  Enrico  accanto, cominciai a sfogliarlo.
"Me lo regalò mia madre per il mio compleanno. Frequentavo la prima elementare" sussurrai quasi pensando  ad alta voce.
"Mi dicesti un giorno che tua madre non ti aveva mai regalato un libro, pur conoscendo la tua passione per la lettura" mi risponde.
Un passato di affetti, mia madre, si congiungeva con un futuro di legami, mia figlia, cingendomi d'assedio, obbligandomi a un cambiamento di prospettiva profondo, ineludibile. Nulla avviene per caso - pensai, leggendo la dedica "Al mio buffo, mai brutto anatroccolo, destinato a diventare uno splendido cigno... dalla sua mamma". Poi passai il libro a Enrico. In silenzio.
Riprendemmo a cercare. Da chi avrò preso la mania di conservare tutto? Mio padre era molto ordinato, mia madre addirittura meticolosa. E io? Ma non sapevo nulla del mio vero padre! Dall'uomo con il quale ero vissuta considerandolo uno dei miei genitori, potevo aver preso o appreso solo per imitazione... Gloria mi aveva detto che assomigliavo al mio vero padre, ma di lui non possedevo nemmeno una fotografia. Quanto incide l'educazione, l'ambiente in cui si vive e quanto quella che sbrigativamente chiamiamo indole, sulla nostra formazione?
Lo sguardo mi cadde sulla finestra: nel buio tremava accendendosi un vago chiarore. Stava spuntando l'alba. Continuammo a cercare per tutta la notte, soffermandoci ora su una cosa, ora su un'altra. Trovammo anche una vecchia bambola di celluloide che venne fatta a pezzi.
Mi rimanevano, ci rimanevano soltanto poche ore per salvare nostra figlia.
Enrico si rizzò da terra e passandosi una mano sul viso si lasciò una ditata nera sulla guancia che mi intenerì. "Sembri un carbonaio" e gli allungai una carezza. Con una smorfia mi mormorò: "Qui non c'è niente! Scendiamo, ho bisogno di bere un caffè".
Lo seguii, lungo la scala che portava alla cucina, gravida, come una gestante alla soglia del parto, di passato, quel passato dal quale sarebbe scaturito il ricordo che avrebbe assicurato un futuro a mia figlia. Era  lì, lo sentivo, c'era soltanto un velo di polvere che lo nascondeva - pensai. O mi illudevo che così  fosse per non impazzire? (continua...)

sabato 15 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate -- (n°21)






"Tua, nostra figlia.... " balbettai, aggiungendo "Non posso parlarne per telefono".
" Immagino sia una cosa seria... " e, dopo una lieve esitazione, deciso, mi comunicasti che saresti partito immediatamente, chiedendomi ancora, prima di riagganciare: "E' all'ospedale... è ferita?""No", ti risposi; poi quelle poche parole "E' in pericolo!" ma, dopo un secondo, avevi riagganciato e lentamente appoggiai la cornetta. Anch'io. Ripresi a
vagare per la casa, senza riuscire a fare nulla o quasi. Maldestramente cercavo, non sapevo nemmeno cosa: vuotavo cassetti sul pavimento, frugavo tra oggetti inutili, dimenticati. Dopo un po' il disordine della casa finì per riflettere quello della testa, che era un groviglio di ricordi spezzati, frammentati, immagini che mi attraversava, scomparendo, come su un treno in corsa, attimi rubati alla vita dallo sguardo di un viaggiatore incollato al finestrino. Di bambole nemmeno l'ombra.
Quando sentii suonare alla porta mi accorsi che stava scendendo la sera, gli oggetti sfumavano nell'oscurità che entrava dalle finestre. Accesi la luce e andai ad aprire.
Quanti anni erano passati dall'ultima volta in cui l'avevo visto? Non lo sapevo, non li avevo contati, ma lui mi sembrò eguale: alto, magro, quel sorriso che curva, come allora,  le labbra ma non accende gli occhi, quei suoi occhi chiari che cambiavano colore come l'acqua di quella Venezia con cui viveva in simbiosi. Ora,  intorbiditi, avevano il colore dei canali d'inverno, e comunicavano la stessa sottile angoscia.
Mi abbracciò e io respirai il suo odore, quel profumo di dopobarba - sempre lo stesso - tabacco, spartiti musicali e polvere. Che scema, erano gli spartiti musicali ad avere il suo odore, non viceversa. Mi rigurgitavano dentro Vivaldi, Albinoni, Marcello e la leggerezza nervosa delle sue mani che scivolavano sulla tastiera, mentre la musica sembrava accordarsi con la voce dei canali e con le sonorità morbide e roche della parlata veneziano. Anni vibranti di emozioni e suoni, in quella città che di prepotenza s'incuneava tra terra e cielo a rompere quegli azzurri che si moltiplicavano cangianti  fino all'orizzonte, senza soluzione di continuità.
"Te son uguale, non te son cambià" gli sussurrai e lui ridendo "Sempre bea anca ti" mi rispose, in quel dialetto, triestino il mio, veneziano il suo che, fin dal nostro primo incontro era stato la nostra lingua, quella che avevamo scelto per comunicare, la lingua in cui si ama, si odia e si canta fin da bambini.
Poi, in cucina, mentre preparavo gli spaghetti, gli raccontai tutto; lui mi ascoltava disorientato, dandomi l'impressione di considerare poco credibile il mi racconto.
"Perché hai continuato a frequentarla anche quando ti sei resa conto... " mi chiese, aggiungendo: "Non è per non crederti, ma è una storia strana... Tua madre"  e, mentre io balbettavo confusa, lui mi guardava con quell'attenzione che aveva sempre messo in tutto ciò che faceva, che lo caratterizzava: un anelito di perfezione che a volte sembrava bruciarlo, sfinirlo, o a volte sfiorare la pedanteria, cozzando contro il mio disordine balcanico, le mie insicurezze, una distimia che affondava le radici nel disamore della mia infanzia. Oppure no? Non sapevo più niente: non avevo più certezze, soltanto paura.
"Mia madre è morta, e non potrà più aiutarmi" gli mormorai in un sussurro.
" Oh mio Dio, mi dispiace..." E allungò una mano sfiorandomi con le dita.
Da quanto tempo non dividevo un pasto con un uomo, non ne incrociavo lo sguardo che scivolando sulla mia bocca si fermava un secondo di troppo?"
"E se ci rivolgessimo alla polizia?"
La sua domanda mi riportò bruscamente a quell'angoscia che era ormai parte di me e con me respirava e parlava e guardava.
"E' da escludersi!" gli risposi perentoria.
In quel momento lo squillo del telefono tagliò l'aria.
Io, mettendomi un dito davanti alla bocca per invitarlo a non fare rumore, sollevai la cornetta. (continua...)

venerdì 14 maggio 2010

La perfezione è tutto e niente

 A cancellar del piede tuo l'impronta
che, forse inopportuna, spezza
del mare sulla spiaggia la carezza
l'onda ritorna, incessantemente.
La perfezione è tutto e niente.

giovedì 13 maggio 2010

Lacrime e sangue

L'Europa ha  mandato un segnale positivo, di  fraternité, ma in cambio di rigore: non invito ma ordine, secco e perentorio, dato a chi di dovere, a chi comanda, di finirla con la finanza allegra. Allo spettro del Welfare state, che già si aggirava, braccato e assediato, nelle contrade d' Europa a rievocare scelte di civiltà, un Eldorado statale intravisto e poi scomparso come un'illusione ottica, possiamo ormai dire addio per sempre.
Sul fatto che non si possa prescindere dal rigore siamo tutti d'accordo. Il problema che si presenta è un altro, al di là delle competenze tecniche alle quali attingere per uscire dalla crisi. Chi piangerà lacrime e sangue?
Io credo che una parte - consistente - del Paese non abbia più lacrime, e sangue sufficiente solo per tirare avanti.
Quando è stato introdotto l'euro, il costo richiesto al Paese per essere l'ultimo dei primi e non il primo degli ultimi non è ricaduto uniformemente su tutte le categorie sociali, ma ha spezzato il paese in due: salariati e stipendiati hanno visto ridursi , quasi dimezzarsi il potere d'acquisto dei loro salari e stipendi, mentre coloro che avevano beni al sole - le categorie più abbienti, i più ricchi - raddoppiavano il loro patrimonio. Fu incompetenza, lassismo o vera e propria scelta politica quella di non effettuare quei rigorosi controlli che altri Paesi europei misero in atto e che in Italia, a pochi mesi dall'introduzione della moneta unica, alterò il rapporto di cambio, creando questa situazione? Al danno si aggiunse quindi la beffa, o, più correttamente, l'ingiustizia, che andò a colpire una categoria già tartassata, quella che, visto il meccanismo di prelievo, obtorto collo virtuosa,  assicura allo Stato il gettito fiscale, convivendo con la restante parte del Paese che evade allegramente, salvandosi poi con condoni e accordi con la Pubblica Amministrazione.
 Quella stessa categoria che ha perso il lavoro, che spesso - data la struttura industriale del paese, costituita soprattutto da imprese di piccole dimensioni - non usufruisce nemmeno della Cig. Quella che, anche quando lavora, mentre nel Paese si susseguono denunce di sprechi e corruzione, non riesce ad arrivare alla quarta settimana...
Da un governo corrotto, incompetente, bugiardo e litigioso cosa possiamo aspettarci? La tutela di quali interessi? Legati a quali classi sociali? Se la scelta, non più procrastinabile, del rigore dovesse abbattere  quello che resta del welfare, tagliare le pensioni, incidere ulteriormente sulla qualità e quantità dei servizi, continuando a colpire le fasce sociali più deboli, cosa potrebbe succedere?
Non lo so. ma temo che non basterebbe la droga televisiva di stupidità giornaliera e quotidiano inganno,
nutrito di donnine ancheggianti, a "tenere calmi gli indigeni".
Cosa ne dice, Presidente?

mercoledì 12 maggio 2010

ll "mucchio selvaggio" che L'UE è stata fino a questo momento ha forse i giorni contati?

                           Nell'arco brevissimo di una notte e sotto attacco -ovviamente alla sua moneta perché l'unico pilastro che sostiene l'Unione è l'euro -l' Europa ha finalmente fatto un passo avanti sulla strada, lastricata di difficoltà, egoismi e incertezze, che dovrebbe fare di questa ammucchiata eterogenea e rissosa di paesi diversi una  Unione. L'attacco all'euro è stato la conseguenza di quel meccanismo spontaneo che caratterizza i mercati finanziari  che è la speculazione. Ormai lo sappiamo tutti: le agenzie di rating declassano i titoli emessi da un paese per finanziare il proprio debito pubblico e gli speculatori fiutano il guadagno: maggiore rischio, maggiore tasso e, di conseguenza,  minor valore dei titoli già presenti sul mercato, che renderanno meno dei titoli di nuova emissione. La speculazione si orienta quindi al ribasso: si vendono titoli che non si possiedono  - a termine ovviamente - per riacquistarli sulla stessa scadenza, a prezzi più bassi. Lo fanno le banche, le imprese assicurative e i fondi,  ingozzati di liquidità remunerata a tassi molto bassi, che colgono l'occasione per investimenti a brevissima scadenza e altamente remunerativi. Così funzionano i mercati finanziari  dopo lo smantellamento di tutti i correttivi che erano stati introdotti (dopo la crisi di Wall Street) e che hanno portato alla creazione di un Far West finanziario e alla situazione esplosiva innescata dai "prodotti derivati".
Ma, al di là di questo aspetto e prendendo atto di questa situazione, questa volta l'Europa ha reagito in modo corretto: non si è persa in litigi inutili, ha fatto scelte e stabilito priorità: conti alla mano si  è deciso di sostenere i paesi in difficoltà (Grecia in testa) per salvare con la Grecia anche l'euro, varando un piano di aiuti che comporterà un'esborso finanziario senza precedenti. Le prediche alle "cicale" dell'Unione, da parte delle "formiche", sono state rimandate a un momento successivo e l'Unione ha mostrato i denti comunicando tramite le agenzie di stampa i termini dell'accordo. La BCE ha cominciato a comperare titoli facendone risalire i corsi. L'entità dell'intervento solidale europeo ha bloccato la speculazione: le Borse e l'euro hanno ripreso quota, le prime con rialzi a due cifre, mentre gli acquisti da parte della BCE di titoli  dei Paesi a rischio assicuravano una copertura finanziaria ai paesi indebitati e un controllo sugli interessi.
Questo intervento finanziario è stato il risultato di un accordo politico a monte: mai ottenuto prima anche se cercato  e posto come obiettivo in tutti gli incontri che si erano succeduti in questi ultimi disastrosi anni che hanno caratterizzato l'economia.
L' Unione, ripeto per il momento tale solo sotto il profilo monetario,  in questo delicatissimo frangente è riuscita a realizzare un accordo politico varando un piano economico in grado di stabilire, al di là dell'intervento immediato che abbiamo esaminato, una convergenza degli obiettivi di Bilancio dei Paesi membri.
Finalmente!
Eh sì, finalmente le "cicale" , tra cui a pieno titolo l' Italia, dovranno dare attuazione a quel processo di armonizzazione di obiettivi, e strumenti per conseguirli, che per il momento aveva dato vita soltanto a quel bla, bla, bla, rumoroso ma inefficace che concludeva incontri che non portavano a nulla di fatto. Si dovrà quindi affrontare il problema delle pensioni tenendo conto dell'aumento della vita media, il problema della stagnazione dei consumi, l'evasione fiscale, gli sprechi, i tagli di bilancio.
L'Unione è nata politicamente in questi giorni? Direi di sì,  e, soprattutto, con caratteristiche di rigore che i Paesi , tra i quali il nostro, dovranno fare proprie. La sfida è durissima, ma la situazione è tale da non concedere ulteriori rinvii.
Il "mucchio selvaggio" che L'Unione è stata fino a questo momento ha forse i giorni contati?

martedì 11 maggio 2010

Una come noi?

                                Serpeggia nel mondo femminile, di sinistra soprattutto, la delusione. Ci sentiamo tradite da Veronica, l'ex consorte di Berlusconi. Ma come: eravamo già pronte ad assistere al duello all'ultimo sangue tra la signora in questione e il marito, e lei, lei intasca, dopo averla sparata grossa in termini di alimenti, ma grossa davvero!, quei trecentomila euro mensili, si rinchiude in una delle ville/palazzo che è riuscita a strappare al marito,  e si dedica ai nipoti e all'uncinetto?
Ma cosa avevamo sperato? Nel nostro anelito di sorellanza, avevamo pensato davvero che fosse una donna come noi, una donna tradita, umiliata dall'arroganza del consorte? Avevamo visto/immaginato in lei un recupero di dignità, una battaglia in nome di principi smarriti per strada, ma alla fine ritrovati. L'avevamo idealizzata, novella Giovanna d'Arco, paladina di tutte le casalinghe umiliate e offese, ponendola alla testa di un'armata femminile in marcia verso i verdi pascoli... ? Ma  la responsabilità per questa nostra delusione non è imputabile alla signora in questione, eh no, purtroppo è imputabile a noi. Donna Veronica non ha nemmeno la consistenza di una  Donna Rachele, che certamente non suscita la nostra ammirazione, ma almeno si propose  per ciò che era, prese a borsettate in testa le amanti del marito e difese una scelta di "famiglia" che noi non condividiamo, ma che lei non tradì.  No, Veronica si muove astutamente, usa i mezzi d'informazione (qualcosa avrà imparato dal marito!) accattivandosi la componente femminile più all'avanguardia, non concede interviste, non scivola nella beceraggine - è troppo ben consigliata - lascia intuire, si fa ritrarre altera, quasi regale, suscitando nuovamente la nostra ammirazione. Ma ciò che difende, più che con le unghie e con i denti, con il pingue conto in banca che il marito alimenta, è la "roba", sono i soldi, è un futuro se non dorato, almeno inargentato.
E allora, mie care sorelle, non mischiamoci, soprattutto idealmente, con codesta signora che nulla sa di alimenti non pagati, e vendette senza esclusione di colpi, e fatica per tirare su i marmocchi da sole, e rabbia introiettata e trasformata in depressione e... e....Non lasciamoci abbagliare e irretire, come nel mondo del lavoro è avvenuto, dall'idea, che nasceva da una speranza/utopia , che i padroni fossero morti o fossero diventati tutti buoni.
I padroni son tornati (ammesso che se ne fossero mai andati) e le "signore dei girotondi" sono partite per la Sardegna. Noi (io non più perché sono una pensionata)  prendiamo la metropolitana alle sette del mattino e la signora Veronica la incrociamo soltanto, altera e liftata,  che occhieggia dalla copertina dei rotocalchi femminili. E' un po' poco per imbastirci sopra  una "sorellanza".
Decisamente troppo poco.

lunedì 10 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°20)

Mi svegliò lo squillo molesto del telefono.
"Mamma sono Letizia" seguito da una pausa breve. Impacciata. "Come stai?"
Finalmente ritrovavo la voce, sentendo quella di mia figlia. Lei mi collegava d'autorità al futuro, mi strappava all' horror vacui che la morte di mia madre mi  aveva spalancato alle spalle.
La rassicurai: era il minimo che potessi  fare per ringraziarla di esistere.
"La nonna mi aveva accennato a... a una mitomane; era preoccupata per te. Sei sicura di stare bene?"  Provavo una gran voglia di dirle, di confessarle che stavo male, malissimo, ma sapevo che non l'avrei  fatto. Era una certezza, una prima e solitaria certezza, ma mi ci arpionai..
"Tutto a posto; non l'ho più vista... Stai tranquilla, me la caverò!". Non riattaccava: colsi un tremore insolito nel suo respiro e un soffio come se una parola non detta le alitasse nella gola.
Ci salutammo. Allungai i piedi fuori dal letto, mentre il telefono squillava. Di nuovo.
"Sì?"
"Sono Gloria".
                     Toh! - pensai -  appare e scompare come le acque carsiche. Ma non le permisi di parlare e, mentre la mia voce si faceva stridula alzandosi di tono, la investii: "Non voglio più sentirti, non ho nient'altro da dirti, né darti... mia madre è morta: lasciami in pace!"
"Abbiamo tua figlia!"
Abbiamo chi? Mia figlia?! Ma chi sei?  Chi siete?
"L'hai appena sentita; non sto scherzando... Dobbiamo avere quella bambola: a casa di tua madre non l'abbiamo trovata..."
"Allora sei stata tu... Io vado alla Polizia..." ma mentre mi arrivava all'orecchio quel suo tagliente "Non te lo consiglio" capii che non potevo farlo.
"Cercala, getta all'aria la casa e... ricorda, spremiti le meningi,  scava nel tuo passato. Tua madre, prima di morire non ti ha detto, né dato, nulla?"
"Ma cosa cercate? L'anello... " borbottai.
                     "L'anello ci ha confermato che siamo sulla strada giusta, ma ora abbiamo bisogno di un'altra indicazione. Mi avevi accennato - ricordi? - a un tentativo di contatto, a una telefonata ricevuta da tuo padre, dopo la guerra. Qualcosa che l'aveva riportato alla prigionia, qualcuno che aveva fatto riemergere i suoi segreti, ridando corpo ai suoi fantasmi".
"Ma io non so nulla!" urlai con la voce strozzata, mentre mi esplodeva dentro una rabbia incontenibile.
"Ma cosa vuoi da me? Sono passati tanti anni e... prova a toccare mia figlia e ti ammazzo... Vi ammazzo tutti, maledetti bastardi!"
La testa mi scoppiava, Gloria aveva riattaccato e l'ultima imprecazione non l'aveva nemmeno sentita.
Aveva avuto ragione mia madre a mettermi in guardia. Avevo bisogno di aiuto, di qualcuno che mi desse una mano. Sentivo nascere dentro un coraggio che non mi apparteneva; troppo alta era la posta in gioco per perdere la testa: un lusso che non mi potevo concedere. Il padre di Letizia... è sua figlia, oltre che mia. Alternavo momenti di lucidità a farneticazioni, a generici  "li ammazzo, li ammazzo tutti!" mentre percorrevo la stanza in lungo e in largo. Dov'era il numero di telefono del musicista? Due teste ragionano meglio di una - borbottavo
Il musicista? L'unico uomo che avessi amato. Troppo? O male? Non avevo più voluto vederlo. Non sapevo,
non so perdonare, non ne sono capace, non so superare il rancore, accantonarlo e andare avanti... Ero rimasta lì a fare la guardia al rancore. Ma chi lo vuole? Mentre me lo covavo, lo giravo e rigiravo tra le dita, mi avevano portato via mia figlia...  Io, persa nel mio rivangare il passato,  inaridita come un'oasi del deserto senza più acqua... Letizia, la mia acqua di ruscello, e suo padre - il musicista - il mare. Il mio mare...
Quando riuscii a trovare il suo numero  la sua voce la riconobbi immediatamente in quel "pronto?" , interrogativo  ma io, la donna che lui aveva conosciuto, ora ero solo paura e disperazione e rabbia: senza più confini, dilagavo, tracimavo, valicavo, irrompevo... Qualcuno  mi contenga, mi plachi, mi culli, mi aiuti - pensai, mentre  il mare mi accoglieva con quel "pronto", con quella voce, come lui, fatta di musica.
"Sono io" sussurrai, chiedendomi come potesse riconoscere la mia voce che  giungeva estranea anche alle mie orecchie, ma lui  in quel  "Cosa è successo Giovanna?" aveva una dolcezza immutabile, quella di sempre, quella dalla quale non so difendermi,  non ho mai saputo farlo, se non in un modo: attaccando, aggressiva. (continua...)

domenica 9 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°19)

                                Salii in macchina, mentre una stanchezza mortale mi piombava addosso. Gloria era scomparsa, sparita. Mi sentii sola, sperduta in quella oscurità, in quel silenzio. Forse avrei trovato una sua lettera  nella cassetta della posta  - pensai, mentre la macchina correva veloce e dal buio emergevano a tratti, come occhi che mi stessero fissando a spezzare l'omogeneità di quella notte scura come l'inferno, le luci di qualche casolare sperduto.
La macchina, come un vecchio ronzino che conoscesse la strada, mi portò davanti al portone del condominio dove abitavo. Pochi minuti dopo, nell'ingresso, aprivo concitata la cassetta delle lettere. Vuota. Vuota come la mia casa, la camera con il letto sfatto, il bagno in disordine, la tazza sporca di caffè in cucina, a ricordarmi quella frettolosa partenza... Era stanchissima, ma non avevo sonno. La tensione del viaggio mi aveva contratto i muscoli del collo e la testa ribolliva di pensieri e di ricordi che emergevano, come le luci poco prima, a spezzare un'altra oscurità ben più impenetrabile del buio di quella notte.
Mi  avvicinai alla scrivania e soltanto in quel momento notai la busta. Era di Gloria; doveva averla scritta il giorno in cui era venuta a casa mia a cercare l'anello. Conteneva una richiesta, vergata in gran fretta : era infatti scritta male come se il piano d'appoggio non fosse il ripiano di un tavolo o qualcosa di simile. Mi si chiedeva di trovare una bambola: una bambola Lenci. Seguivano alcune parole per descrivermela e, mentre leggevo "vestita da Cappucceto Rosso, sottogonna di cotone con bordo in pizzo, bianca, scarpine di panno rosso... " un frammento d'infanzia dimenticato risalì esplodendomi in testa come un fuoco d'artificio in una notte estiva! E ricordai, ricordai tutto, chiusi gli occhi, mentre l'odore di quella notte, il  profumo delle lenzuola mi entrava nelle narici, e le voci foravano il silenzio come schioppettate di cacciatori, decisi a snidare la preda. 
Ero molto piccola e la guerra doveva essere finita da poco. Per casa girava quell'uomo cupo, tetro che durante la notte urlava tutto il terrore e lo sgomento che di giorno in qualche modo arginava dentro di sé. Mi ero svegliata sentendo le sue grida e, spaventata, mi ero rintanata sotto le coperte, turandomi le orecchie, ma il silenzio della notte e il tono alto delle voci avevano reso il mio tentativo di estraniarmi da ciò che stava avvenendo inutile.
"Voglio sapere... " gridava mio padre con quella voce che non era la sua, incrinata dalla paura e resa rauca dalla rabbia.
Cosa mai voleva sapere?
"Non c'è nulla da sapere" rispondeva mia madre.
Tu sei una bugiarda, non vuoi dirmelo, non negarlo... "
Ora la voce si era fatta querula, implorante e  doveva dare a mia madre lo stesso fastidio quasi fisico che suscitava in me. Infatti quella voce femminile che era seguita subito dopo, aveva un tono freddo che mi ricordava la mia maestra quando sgridava noi bambini e poi sbuffava, passandosi una mano tra i capelli, ma con tale rabbia che sembrava volesse strapparseli dal cranio.
"Chi ha mandato questa bambola?"
Mi immobilizzai: eccola la bambola, la bambola vestita da Cappuccetto Rosso!
Era mia madre  che parlava, chiedendo a se stessa ragione di qualcosa di oscuro?
"E' arrivata avvolta nella carta da regalo. Pensavo l'avessi comperata tu".
"Io!?"
Ed ecco spiegato il motivo per cui avevo scordato la bambola: per dimenticare quelle domande senza risposta, il clima di sospetto, il volto di mia madre arrossato - volavano anche schiaffi - i suoi occhi che diventavano ogni giorno più cupi. E quegli sguardi indagatori che mi percorrevano febbricitanti come cercassero qualcosa, e, contemporaneamente, temessero di imbattersi nell'oggetto  di quella spasmodica ricerca.  
Non avevo voluto il mattino dopo, quando mia madre era entrata nella mia camera portandomi una colazione da compleanno su un vassoio, la bambola dietro alla schiena, partecipare al gioco, a quel suo "Fuoco, fuochno... vediamo se indovini che cosa nascondo?".                        Mi ero messa a piangere e, con quella bambola, non avevo mai voluto giocare. Ora, con occhi simili nello sguardo a quelli di mia madre, che il ricordare quell'episodio mi aveva riportato alla memoria, anch'io scrutavo quel Cappuccetto Rosso, dall'apparenza banale, cercando di scoprire perché mai Gloria lo cercasse. Era evidente - be', evidente era un po' perentorio - era da supporsi che quel regalo di compleanno me lo avesse mandato il mio vero padre, che era sempre più propensa a credere non fosse quell'uomo che per anni avevo considerato uno dei miei genitori. E ciò che mi angosciava non era soltanto il fatto in sé, ma anche la sensazione di avere sempre sospettato qualcosa. Confusamente io avevo capito che quell'uomo non mi amava e... E avevo sperato non fosse mio padre. 
Ora alla memoria che aveva elaborato una selezione dei miei ricordi infantili, tale da darmi un po' di pace e una traballante sicurezza,  dovevo chiedere di frugare negli angoli bui e snidare i segreti, le dimenticanze. 
Era arrivato il momento di capire e di sapere.
Sfinita crollai sul letto e mi addormentai. (continua...)

sabato 8 maggio 2010

Scrivere è canto.

 Scrivere
è un dono,
un danno, 
un dubbio, 
un dramma, 
un dannato detto dato...
come un refolo 
di quella bora
che se è scura
porta malora, 
ma se è chiara 
porta bonaccia,
della mia anima
è l'interfaccia.


Scrivere è l'urlo
che ti trapassa da parte a parte,
senza ferirti
come un effetto,
assai speciale,
da uno schermo digitale.

Scrivere è attingere
a piene mani
a ogni istante
del tuo domani
E' immaginarlo,
quasi annusarlo,
anticiparlo
per poi scoprire
che ci voleva
solo pazienza
a contenere
la tua arroganza.

Scrivere è un modo
di ritrovare
il tuo passato,
quando qualcuno
te lo ha scippato,
è farlo vivere
ancora una volta
per chi asserisce
che la luna è storta.

Scrivere è amore per la parola,
quella difficile,
quella sola,
quella già quasi dimenticata,
che era negletta
e
che
... hai raccattata.

Scrivere è gioco
ma quello vero,
per giocolieri d'alto livello
che le parole fanno volare
dentro l'azzurro volteggiare,
cadere a piombo
come di sera,
nel cielo,
rondini a primavera.

Scrivere è ridere con le parole,
come da piccoli,
quando a scuola
a scatenare la ridarola
bastava un niente
ma la maestra
benché giuliva
non capiva...

Scrivere è anche un modo d'amare
Quando vogliamo forse strafare,
alla scrittura noi  affidiamo
di  un momento
lieve, leggero, bava di vento
tutto il portento

Al primo ballo
vestita d'organza,
ballavi il valzer
con eleganza,
le sue parole
dette all'orecchio
ancor le nascondi
dietro allo specchio.
E' vero, è falso?
Non ha importanza
scrivere è vero(simiglianza).


Grigia o viola che sia
la scrittura è anche malinconia, 
è il sussurro di chi non osa 
è pianto
è rabbia
che si è incancrenita,
imprigionata tra le dita

Quando inno è alla vita
così bastarda 
così infinita
così bugiarda,
scrivere è
...
 canto.

giovedì 6 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°18)

Passarono alcuni giorni ritmati dallo sbalordimento che sempre provoca nei sopravvissuti la morte di un familiare e dalle formalità del funerale; poi si fece strada il dolore che m'invase senza concedere tregua. Fui costretta ad affrontare l'assenza, quel "mai più" che ti rimbomba nel cervello e nell'anima, immodificabile,  non soltanto schiantandoti, ma aggiungendo al tuo dolore di bipede implume e spaventato la presa di coscienza della tua pochezza, provvisorietà e impotenza. Mia figlia, arrivata il giorno dopo la morte della nonna, mi stava accanto con la forza dei suoi vent'anni, con la sensibilità e l'affetto che la caratterizzavano, guardandomi, quando pensava che non la vedessi, con quello sguardo un po' preoccupato e imbronciato che tanto mi ricordava suo padre. Mi affluivano alla memoria, sollecitati anche da quello che riaffiorava del mio  passato nella casa di mia madre, i ricordi, mentre riponevo nei cassetti, facendo ordine, tutto ciò che avevo trovato sparpagliato per casa. Avevo sporto denuncia di fronte a un maresciallo di Pubblica Sicurezza, che con aria piuttosto seccata mi aveva confermata nei miei sospetti: era molto probabile si fosse trattato di un ladruncolo, magari un tossico. Mancavano infatti alcuni gioielli, non di grande valore, e il servizio di posate d'argento. Cambiammo la serratura e, prese da ben altre cose, mia figlia e io dimenticammo quell'incidente.
Dopo un paio di giorni tornammo a casa: Letizia, mia figlia, a Bologna e io in quella cittadina termale, dove risiedevo ormai da alcuni anni. Non avevo pensato molto a Gloria e, soprattutto, non avevo parlato di lei con mia figlia. Mi rendevo conto di avere inconsciamente cercato, mettendo ordine nella casa dove avevo passato l'infanzia e l'adolescenza, qualche traccia di un passato che aveva assunto contorni incerti e che mi appariva sempre più misterioso. Ricordavo le ultime parole di mia madre. A chi credere? Il rovello del dubbio mi ossessionava, alternandosi al dolore, mentre guidava lungo l'autostrada e la sera calava, allungando ombre cupe sui campi che costeggiavano la tangenziale. Accompagnata  Letizia a Bologna, ora desideravo soltanto arrivare a casa, farmi una camomilla e andarmene a letto. Non avevo avuto figli da mio marito e Letizia era nata dalla mia relazione con il musicista. Il musicista veneziano che avevo conosciuto appunto in quella città nella quale mi ero trasferita  appena sposata. Forse perché legata alla mia giovinezza e a quella storia d'amore difficile ma intensa, Venezia era la città che più amavo, anche se da molti anni non avevo più osato affrontarla temendo che non sarei stata in grado di reggere il peso dei ricordi. Perché a volte può essere più difficile ricordare  i momenti  belli che quelli  dolorosi: il confronto con l'opaca realtà che è il nostro presente ne risulterebbe ulteriormente appesantito, e ancora più insopportabile potrebbe sembrarci la nostra solitudine.
                                        Ma appena imboccata la strada di casa, era ormai sera inoltrata e in giro non c'era nessuno, non so per quale strano e incontrollabile impulso, sterzai bruscamente immettendomi sulla stradina a tornanti che portava alla casa di Gloria. Non l'avevo sentita, contrariamente alle nostre abitudini, non c'eravamo cercate. Be', la faccenda era perlomeno strana. Un cane sbucò da un cancello e mi tagliò la strada, obbligandomi a rallentare. Avvertivo un'ansia immotivata, quasi temessi ... Che cosa? Cercai di calmarmi
dicendo a me stessa, per rassicurarmi, che ero semplicemente stanca e stressata.
La casa mi si parò davanti all'improvviso, emergendo dall'oscurità che un pallido spicchio di  luna attenuava appena. Come mai Gloria aveva spento il lampioncino che illuminava l'ingresso?
Frenai, accostando al cancello, e scesi. La sommità della collina era avvolta in un silenzio greve che mi parve stupidamente minaccioso. Mi girai di scatto temendo di avere qualcuno alle spalle. Nessuno.
"Gloria , Gloriaa, Sono io, Giovanna. Apri!" gridai.
MI rispose soltanto il vento e fu allora, in quel preciso momento, che lo sguardo mi cadde su quel baluginio chiaro che si stagliava sul cancello. Mi avvicinai, rendendomi conto che si trattava di un cartello, ma non riuscivo a leggere... Corsi alla macchina e presi la pila. Due minuti dopo leggevo ad alta voce, quasi balbettando, un'annuncio immobiliare che metteva in vendita la casa.
Alzando la pila davanti a me, illuminai il portoncino d'ingresso, notando che era sbarrato e che non c'erano il tavolino in ferro battuto e le seggiole. Erano scomparsi anche i vasi di limoni.
Tutto aveva un'aria desolatamente vuota e, se fosse improvvisamente scomparsa anche la casa, quasi fossero state casa e padrona un parto della mia fantasia, non me ne sarei stupita.
Rimasi lì incredula, l'avviso tra le mani, mentre il vento aumentava d'intensità portando fino a me il profumo del bosco che incombeva, scuro e minaccioso, alle mie spalle. (continua...)

mercoledì 5 maggio 2010

Grigia come la nebbia.

Passo dalla viuzza interna che porta alla piazzetta. Il caffè degli albanesi con gli ombrelloni fatti su e le seggiole impilate accanto al muro, trasuda umidità come i volti dai tratti aspri, balcanici, dei pochi avventori che, incorniciati dalla porta d'ingresso e immobili come statue di santi sui muri di una chiesa, scrutano la pioggia. Negli occhi una malinconia che il grigiore della giornata non giustifica: è nostalgia di paesi sassosi e arsi di sole, profilati di mare, abbandonati in fretta una mattina come ladri, senza voltarsi indietro, guardando davanti a sé per arrivare qui, tra brume e cieli bigi, a contare le gocce di pioggia. Supero la piazzetta e passo davanti al caffè più elegante. C'è una tettoia che protegge alcuni tavolini occupati da avventori fissi dal tono di voce troppo alto e dalla risata un po'stridula ch diventa ammiccante quando passa una ragazza. Alta, rotonda, ancheggia su tacchi astronomici. 
"Fis 'ci, l'è bona a bota!" e gli sguardi s'intorbidiscono come l'acqua che scorre lungo la strada appena in pendenza. L'immaginario erotico ha un susssulto. Agonico.
Svaporando negli occhi degli uomini come nebbia attraversata da una sciabolata di sole, passo  loro davanti , invisibile come ogni donna che superi il mezzo secolo. 
L'edicolante, spendo un patrimonio in riviste e DVD in offerta, mi sorride. Almeno lui. E' un ex alunno: li ritrovo dappertutto: in banca, all'Ufficio tecnico provinciale, le alunne ai giardinetti con i figli in braccio, alle casse del supermarcato ogni tanto una, che i lavori sono come le stagioni, ormai. Si alternano. Chi l'aveva proposto quel "Lavoriamo meno, lavoriamo tutti?", ma mangiare, si mangia ogni santo giorni - penso.
"Si ricorda di me, prof?" "Come no!" E la bugia mi fa arrossire. Spudoratamente. 
Le classi nelle mia mente sono ormai come questa giornata di pioggia, uniformemente grigie: carrellate di volti giovani, rossori adolescenziali, foruncoli e apparecchi a raddrizzare i denti. Questi volti romagnoli, questa sfilata di occhi castani, la parlata con la erre che i Francesi hanno lasciato loro in eredità, li ricollego,  a volte a fatica, a quei ragazzi, a quelle ragazze. 
E i ricordi si snodano, come un film visto troppe volte . E Trieste riesplode nella memoria, ma dura un secondo.
E' lontana e immutabile. 
Azzurra? Come la giovinezza.
La nebbia mi circonda, mi assedia.
Grigia.

martedì 4 maggio 2010

Pensieri all'imbrunire

C'è la luna questa sera e nell'aria, soffuso, un vago chiarore. Il giorno lotta ancora con la notte ma è destinato a essere sconfitto. E' l'ora che amo di più: si accendono di luce, una dopa l'altra, le finestre delle case, le strade si vuotano, una coppia allacciata scivola sul marciapiede, una risata turba il silenzio.  lo amo questo silenzio - foglio bianco da riempire come si desidera - che per pochi minuti sembra dominare la scena.
Come sono cambiata! Io, io che sono stata una chiacchierona che faceva le ore piccole davanti a una tazza di caffè con le amiche... una a cui  non sarebbe bastata l'intera notte per parlare. Ma cosa ci raccontavamo? Di che cosa parlavamo? Di uomini, di figli, di lavoro, di politica e libri. Letti e da leggere. Ma su tutto, al di là di tutto, erano desideri o bisogni che venivano a galla. Prepotente per me il bisogno di libertà. Separata con tre figli e un lavoro non avevo tempo e  nemmeno spazio, sebbene quei tre ragazzini fossero la mia vita, e amassi anche quegli adolescenti brufolosi e impacciati ai quali facevo lezione. Pensavo di aver capito molte cose, e m'illudevo di poterle comunicare. Leggevo come una pazza, specialmente di notte, in quella casa che sapeva di nutella e baby shampoo, sempre  disordinata. Rumorosa. Loro che crescevano e io che invecchiavo, ma senza rendermene conto. C'erano troppe cose da fare, ogni tanto coglievo una piega intorno alla bocca, qualche ruga nuova, ma non ci badavo.
Cosa pensavo: che il tempo mi avrebbe aspettata come un eterno innamorato, con un mazzo di rose tra le braccia? Per avere da me che cosa: l'ultimo scampolo striminzito della mia vita da dedicargli?

lunedì 3 maggio 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°17)

 Capii subito, dalla faccia dell'infermiera, di essere arrivata troppo tardi. Mi sedetti, la seggiola era dura come fosse di ferro, la stanza disadorna, il sole, senza rispetto, entrava dalla finestra,  appropriandosi  del mio volto sconvolto e del livido immobile viso di mia madre che giaceva, quasi  spersa,  in quel letto d'ospedale troppo largo e troppo lungo per quel suo corpo improvvisamente piccolo e rattrappito.  Gli occhi, quei suoi occhi di miele, tristi come laghi d'inverno velati di nebbia, chiusi sotto il peso greve delle palpebre.
E ora?
Se n'era andata senza aspettarmi, temendo le mie parole di nuovo dure, aggressive, a frugare nei suoi segreti.  Ero venuta  a cercare la verità o le  ultime bugie, in quel giorno che il vento mi sbatteva addosso? Non l'avrei più saputo.
Telefonai a mia figlia che studiava a Bologna: avrei dovuto avvertirla, subito, appena ricevuta la telefonata dall'ospedale ma, come al solito, il mio primo pensiero era stato quello di proteggerla. Lei, mia figlia, non mia madre. Non le avevo raccontato nulla di ciò che era successo, limitandomi ad accennare a questa nuova amicizia. Mi sentii soffocare: la stanchezza e il dolore mi piombarono addosso mescolandosi ai ricordi. Singhiozzi aspri mi salirono alle la bbra e, quando l'infermiera mi pose tra le mani la borsa di mia madre, mi alzai e, senza voltarmi indietro, chiusa la porta alle mie spalle, mi allontanai lungo il corridoio.
Pochi minuti dopo imboccavo il viale che portava alla casa di mia madre, il vecchio appartamento nel quale ero nata e cresciuta. Parcheggiai ed entrai. 
Le mani mi tremavano mentre giravo la chiave nella toppa e la porta si apriva silenziosa.  Le tapparelle abbassate lasciavano l'appartamento al buio. A tentoni cercai l'interruttore della luce. Incespicai in qualcosa che stava sul pavimento e chinai lo sguardo.              C'erano documenti, lettere, fotografie sparpagliate, cocci di vetro e alcuni cassetti vuoti, gettati, in un gesto che immaginai di rabbia, sul tappeto. Mi mossi incerta raggiungendo il soggiorno: sembrava che la casa fosse stata investita da un tornado. Ma cosa avevano pensato di trovare i ladri nella casa di una pensionata? Forse perché delusi dall'esiguità del bottino aveva gettato all'aria tutto,  vuotando i mobili e rovistando in ogni luogo?
Incominciai a ridere istericamente pensando che avrei dovuto fare una denuncia ai Carabinieri, ma il dolore e la stanchezza mi appannavano i riflessi  e, dopo aver invano tentato di trovare il telefono, quando mi capitò tra le mani, mi accorsi che il filo era stato strappato o tagliato rendendolo inutilizzabile.
Sfinita mi allungai sul tappeto e mi addormentai di un sonno greve, popolato di incubi.(continua...)

sabato 1 maggio 2010

La passione del narrare (2)

Perché tra le varie possibilità del narrare è proprio quella del racconto, o romanzo, a puntate, quella che più mi appassiona? Premesso che sono un'istintiva, sono molto curiosa - quindi portata a misurarmi sempre con qualcosa di nuovo, a battere strade sconosciute, ad abbandonare sistematicamente la strada vecchia per la nuova - perché proprio questo spezzare la continuità, il fluire del narrare "sul più bello", assestando alla storia uno stop brusco, come se, dopo aver lanciato un cavallo al galoppo, a briglia sciolta, lo si fermasse, schiumante di sudore e di bava alla bocca?
Il narrare a puntate non può essere spezzettato a posteriori, almeno non per me. La storia procede a tratti, a balzi, a passettini. Prende forma, prende vita puntata dopo puntata, seguendo - è  l'aspetto caratterizzante di questa forma narrativa - l'estro di chi scrive, che, però, tasta il polso, di puntata in puntata, a chi legge. E, inevitabilmente, ne tiene conto. Esaminando criticamente "I Dellapicca" avevo rimproverato a me stessa proprio questo aspetto: il narrare visto come un navigare senza bussola in una notte buia. Alla cieca. Difficile? Sì, ma entusiasmante, come quasi tutto ciò che è difficile.
Chi scrive non lo fa per sé - questa è una  fola che lo scrittore si racconta quando non osa ancora definirsi tale - lo fa per essere letto. Quindi, a chi scrive, del lettore interessa tutto: la presenza, le critiche, gli appunti, l'entusiasmo, le domande, ma ben poco, in fondo, di questa ondata emotiva che la sua scrittura provoca o potrebbe provocare lo raggiunge: appena lo sfiora, come una marea che accarezzi una spiaggia, in quel contatto che la presentazione di un libro consente. Poi ci possono essere i commenti sul sito, le mail, ma un abbraccio tra scrittore e lettore non c'è: a meno che il narrare non sia a puntate.
Eh sì. La puntata odierna è stata troppo descrittiva? Lo sbadiglio si intuisce in quelle presenze che scemano? Oppure la storia si sta avvitando su se stessa, è troppo prevedibile? Bisogna inventarsi qualcosa di nuovo e voilà, dal cappello del prestigiatore, esce qualcosa che con il coniglio bianco non ha nulla a che fare.
Questo è il motivo per cui il narrare a puntate non può essere organizzato, se non in minima parte, a priori ed è anche il motivo per cui rettifico alcune considerazioni fatte dopo l'uscita del mio primo romanzo a puntate.  E, mentre scrivo, colgo anche con maggior chiarezza l'elemento che caratterizza il mio blog:  l' uso di uno spazio all' interno del quale sperimentare le svariate forme del narrare.
Tra racconti, raccontini, filastrocche, poesiole, critiche, post di denuncia la modalità narrativa che più mi appassiona è proprio quella appena descritta. Voi che cosa ne pensate?