venerdì 30 aprile 2010

Ho perduto alcuni dei miei lettori fissi. Domani vi ritrovo.

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°16)

Era notte fonda quando quel trillo perforante mi strappò al sonno. Allungai una mano e la stanza s'illuminò della luce discreta e ovattata che spandeva all'intorno la lampada posta sul comodino. L'orologio segnava le due di notte. Mi alzai,  rinunciando a infilare le ciabatte e, con il cuore che aveva incominciato a saltarmi nel petto togliendomi il respiro, entrai nel soggiorno e alzai il ricevitore.
"Pronto, Giovanna Marini?"
Voce sconosciuta quasi quanto la mia che, strozzata , tanto da rendermela irriconoscibile, infranse il silenzio della notte " Sì, è successo qualcosa?"
"Qui Ospedale Maggiore di Trieste: lei è una parente di Maria Marini?"
"Sì" risposi, senza osare chiedere altro.
"Figlia?"
"E' mia madre... "
In gola, messe di traverso come un boccone indigesto, parole che non riuscivo a pronunciare.
"E' ricoverata nel reparto di terapia intensiva; ha avuto un infarto", continuò quella voce dall'accento triestino che mi riportava alla città dove ero nata e cresciuta, sprofondandomi nell'angoscia del presente che sembrò, in quel momento, ricongiungersi senza soluzione di continuità al passato, come se nella mia vita la costante sotterranea appena venuta alla luce fosse, da sempre, l'angoscia.
"Parto immediatamente!".
"Va ben, ma la se movi".
Tornai in camera e, in pochi minuti, mi ritrovai sulla porta d'ingresso, con un borsone tra i piedi, lo sguardo che  scivolava sulla casa e sugli oggetti,  a imprimere nella memoria l'ultima immagine di me, figlia,  inserita in un contesto noto. Percepivo con chiarezza che al mio ritorno sarei stata orfana, e non solo di madre. Avrei potuto infilare la testa sotto la sabbia e ritenere Gloria una mitomane, ma ormai eravamo andate troppo oltre. Il destino aveva deciso di togliermi ogni sicurezza - pensai, mentre mi chiudevo la porta alle spalle e pigiavo il pulsante dell'ascensore.
Il cielo era nero, qualche stella appariva e scompariva, brillando fiocamente prima di celarsi dietro a una nuvola. L'aria della notte, brusca e umida, annunciava pioggia, o quella sensazione di pioggia era un bisogno di lacrime che non riuscivo a versare?
La macchina aggrediva ora la notte, volando sull'asfalto, strade vuote e silenziose, curve, semafori dalla luce intermittente che mi sfilavano davanti agli occhi. Riuscivo a non  divagare, concentrata su un unico pensiero: arrivare in fretta, più in fretta possibile per dirle... Cosa? Le parole che non avevo mai osato pronunciare? O rinunciare a sapere, chiudendomi nella falsità facendomene scudo. La verità è una gran balla se qualcuno non te la carica subito in spalla. Alla  verità, come alla libertà, è necessario essere abituati fin da bambini, per identificarla in mezzo alle bugie e per avere il coraggio di viverla.                       
Il cielo cominciava a schiarire a Oriente, alla mia destra riconobbi Marghera e il baluginio d'oro delle cupole delle chiese veneziane. Stridiì di gabbiani si incrociavano nell'aria e ora, evocati dai luoghi,  i ricordi arrivavano a folate: stavo  infatti costeggiando le città che mi avevano visto sposa,  stregata dalla malia  di una terra di uomini che su imbarcazioni nere come rondini  e sinuose come corpi di donne scivolano sul pelo dell'acqua come cigni in uno stagno.  A Venezia avevo amato un musicista...
Ora sorgeva il sole e quando mi si parò davanti il Carso con le doline bianche di margherite, i muretti a secco a delimitare vigneti piccoli e contorti battuti dal vento e strappati alla roccia, capii che ero a casa. Infilai la strada che portava a Trieste: davanti a me si spalancavano spazi azzurri di cielo e mare che si rincorrevano all'infinito, pigre le prime barche sfidavano il borin . Orlate di effimeri  pizzi di schiuma, si schiantavano sulle rocce le onde. lImmutabile la voce del mare si univa al canto del vento e  mi accoglieva una marcia trionfale, consacrandomi Sposa del Mare e Signora del Vento, come da bambina, quando nelle notti di tempesta andavo nel letto di mia madre che ordinava alle padrone del mare di calmarsi, per non disturbare il mio sonno.
Quando frenai davanti all'ospedale singhiozzavo ancora, ma dolcemente. (continua... )

giovedì 29 aprile 2010

Amarcord scolastico

Ieri alla televisione commentavano l'ultimo crollo di borsa, amplificato dalla speculazione. Servono nervi d'acciaio per speculare al ribasso, ma si guadagna  di più e in tempi brevi.
E i risparmiatori? Ricorderanno i miei alunni quelle lezioni? Gli argomenti esaminati secondo ottiche diverse cogliendone i vari aspetti: giuridico, tecnico, fiscale e, ultimo, quello etico? I mercati finanziari non sono, ma soprattutto non devono essere il Far West: ci sono interessi che vanno tutelati, ci sono leggi, a salvaguardia dei risparmiatori, a imbrigliare l'avidità dei raider. Ci sono? Non più: l'ingordigia è libera e cavalca nel Far West. Ricorderanno quei ragazzi, che ora sono adulti, che concludevo dicendo che l'aspetto etico era il più importante? Capitalismo e etica: un ossimoro? Era una domanda che ponevo a me stessa prima che a loro in quella Milano che si stava imbarbarendo, in quella Milano craxiana che avrebbe partorito il leghismo e Forza Italia... Avremmo potuto fare di più? A molti, troppi tra i miei alunni, mancava il supporto della famiglia. Erano soprattutto le madri lavoratrici ad avere abdicato a quel delicato compito educativo, fatto di presenza, esempio e attenzione, senza il quale un adolescente è allo sbando.  Arrivavano ai colloqui con l'insegnante stravolte, ingabbiate all'interno di troppi ruoli; molte divorziate, inserite in famiglie allargate non soltanto nel numero dei componenti, ma anche nelle problematiche. Si coglievano i segnali del disastro che si stava preparando, soprattutto in  quella città che amplificava problemi e opportunità e anticipava i tempi di reazione.
La televisione e il gruppo dei coetanei avevano la meglio sulle lezioni degli insegnanti. La scuola era faticosa, impegnativa; la televisione distraeva, divertiva, come andare a zonzo con il gruppo che dava un'appartenenza, ma omologava, e di solito verso il basso. Il mondo degli adulti scandiva una sola parola: denaro.
Loro, gli adolescenti, aggressivi per nascondere la vulnerabilità e la timidezza, erano frastornati. Noi insegnanti come strumenti didattici avevamo poco o nulla. Le scuole al pomeriggio erano chiuse, i laboratori antiquati, obsoleti. La normativa scolastica affidata a ministri impreparati era sempre più velleitaria e contradditoria, ispirata prioritariamente al conseguimento della riduzione dei fondi assegnati alla scuola.
La materia che insegnavo era squisitamente tecnica e nel corso dell'ultimo anno si affrontavano, analizzandoli, i mercati finanziari. Partire dalla definizione di mercato finanziario sarebbe stato decisamente scontato e noioso... Dovevo raccontare e incuriosire, stupire… Dovevo coinvolgere e far sognare. Con i mercati finanziari? I giovani hanno ancora un forte senso della giustizia, possono essere dei furfanti in boccio ma sanno perfettamente cosa è giusto e cosa non lo è  e non di rado l'insegnante in classe è un attore in scena: cammina o si immobilizza, modula il tono di voce, sorride, ride, diventa serio di colpo... e racconta: una storia. "Chi di voi non ha sognato almeno una volta, di diventare milionario?" Ai rampanti di domani luccicavano gli occhi, guardavano l'insegnante... e mollavano La Gazzetta dello Sport. L'argomento interessava. Come tutti coloro che hanno poche risorse, noi insegnanti , aguzzavamo l'ingegno, cercavamo di insegnare aggirando la fatica dell'apprendimento, stimolando gli studenti, il loro senso critico e non solo quello. In borsa si giocava o s'investiva? Era una considerazione etica che differenziava i due concetti? Etica e affari? Cominciavo a porre domande...La campanella era accolta con fastidio; l'ora era passata in fretta, l'operazione era stata impostata.
Compito a casa: ipotizzare la lezione di domani.
Ogni tanto una lezione mi veniva bene, come una frittella con il buco; sentivo che avevo catturato la loro attenzione, tacevano e non volava una mosca. Solo la mia voce risuonava… Il livello della comunicazione era alto: la classe, stranamente omogenea e compatta, ed io.
Era bello, ma era poco. Come combattere con un fucile contro un carro armato.
I ricordi si mescolano alle domande. Sarà dalla scuola che si dovrà ripartire? Dalla famiglia? Da quell'ossimoro: capitalismo etico, che già allora mi inquietava tanto?
Forse, forse proprio dall'etica.
"Non dalla morale, prof?"
"No!"
"Perché?"
"Troppo addomesticabile..."
Se lo ricorderanno ancora i miei ragazzi e le mie ragazze?

mercoledì 28 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°15)

Non le bastava l'anello? Evidentemente no - pensai, mentre lei mi chiedeva: "Ho bisogno di bere qualcosa di caldo. Mi... ". Alzandomi, la interruppi prima che completasse la frase.
Mi sentivo soffocare in quel solaio. Era cambiato soltanto il mio passato o anche il mio futuro? Ero frastornata, perché quello che era avvenuto, se da un lato mi toglieva tutta una serie di sicurezze, dall'altro mi confermava la validità delle mie intuizioni e io, io che mi ero sentita - e quel che era peggio - ero stata giudicata una persona dall'immaginazione eccessiva, portata a perdesi in fantasticherie senza senso, improvvisamente scoprivo che la capacità d' intuire, quella percezione dell'esistenza che è tipicamente femminile, che si rifà a una saggezza antica, legata alla Grande Madre, mi apparteneva. Scoprivo che quella voce, che spesso avevo udito, non era malia infantile, ma suggerimento prezioso che riannodava il filo rosso della continuità tra me e mia madre. Era con lei che volevo e dovevo parlare per riannodare quel filo...
Alzai gli occhi dalla tazza e li piantai addosso a Gloria che resse il mio sguardo senza abbassare il suo.
Nessuna delle due parlava: lei aveva alzato le paratie di sempre e non faceva più nemmeno la fatica di fingere per me un'affettuosa sollecitudine.
"Hai trovato ciò che cercavi, sarai contenta?" le chiesi.
"Per essere contenta avrei bisogno di ben altro e tu lo sai. Non dobbiamo più fingere una con l'altra" rispose, alzandosi per andarsene, come avesse fretta, come se, anche per lei, l'aria della mia casa si fosse fatta improvvisamente irrespirabile.
Pochi minuti dopo, mi attaccavo al telefono e chiamavo mia madre, investendola, quasi sommergendola di fatti ed emozioni. Quale non fu la mia meraviglia nel sentirle dire: "Mia cara Giovanna, sei sempre stata una credulona... fin da bambina. Quella donna l'ho conosciuta: è una mitomane. Sono stata costretta a rivolgermi alla polizia per togliermela di dosso. Ti ha raccontato la storia di una presunta relazione tra me e suo padre? Ti ha detto... "
"Sì, mi ha detto proprio questo. Io... " la interruppi, ormai totalmente confusa.
"Tu saresti sua sorella? Giovanna non cambi mai!"
"Mamma, ma io ricordo quella lite terribile tra il babbo e te, la sera, la notte... " balbettai.
"Non ci fu nessuna lite Giovanna: è stato un sogno, soltanto un sogno infantile. E ora calmati. Mi raccomando: stai lontana da quella donna. Spero che tu non le abbia dato nulla?" concluse.
Sentii un brivido serpeggiarmi lungo la schiena mentre le rispondevo: "E' all'anello che ti riferisci?"
"Sì" lei rispose "L'anello che trovai nella scrivania di tuo padre! Ma anche alla bambola".
"Quale bambola?"
"Ah, non te ne ha parlato? No, niente, farneticazioni da pazza... " balbettò.
Perché non le rammentai che soltanto il giorno prima aveva negato l'esistenza di quell'anello? E cosa significava l'accenno alla bambola?
"Mamma stai tranquilla, verrò a trovarti la prossima settimana e ne parleremo con calma" le risposi.
"Stai lontana da quella donna. E' pericolosa, molto pericolosa" concluse.
Io abbassai la cornetta, salutandola.
Quale delle due donne mentiva? Mia madre o Gloria? E, soprattutto, perché? (contina...)

martedì 27 aprile 2010

Poesia

Trovo questi versi di Umbero Saba sul blog
di Salvatore Lo leggio , e me ne approprio



O mio cuore dal nascere in due scisso,

Quante pene durai per uno farne!

Quante rose a nascondere un abisso!

Preludio e fughe (1928-1929)

Pazzerella

"Datemi un PC e una parola, oppure un'immagine o l'espressione di un volto e io vi restituirò una storia". Risero. Poi nel silenzio si sentì una voce e la parola “fagotto” sembrò materializzare l'ingombro della pazzerella, quella sua sventata leggerezza che tanto infastidiva i parenti.
"Non un'immagine?" lei chiese con lo sguardo che già inseguiva la sua fantasia.
"Nessuna immagine, ti diamo venti minuti per confezionare la tua storia" le risposero.
Qualcuno verificò l'ora.
Fagotto nel suo diminutivo, fagottino, potrebbe essere un pupetto... E pupetto sia - lei pensò, e cominciò a narrare.
.....
Nacque in una giornata di primavera Fagottino e, anche se il suo nome era Giacomo, per tutti lui fu Fagottino, bello, biondo e, eh no ragazzi!, non esageriamo, ricciolino no. Passarono i primi mesi, un po' convulsi, che nella vita di una donna un figlio, il primo soprattutto, è uno tsunami, ma anche all'arrivo dell'inverno Fagottino continuava a non dormire e, durante la notte, in quel corridoio striminzito che sua madre percorreva in lungo e in largo come fosse una cella, il freddo si faceva sentire, mentre quel pianto monotono, snervante, sembrava sottolineare il fruscio dei passi. Quando a quel pianto si associò la parola cella? O prigione, galera, reclusione, gattabuia - oh mio Dio, quanti modi per indicare quel corridoio rinserrato tra le mura di uno dei tanti condomini spuntati come asparagi dal cemento grigio della metropoli. E quando cominciò a girare nella sua testa, in tondo, sempre più velocemente come quei giorni che scivolavano uno sull'altro tanto in fretta da incespicare aggrovigliandosi? La fagottino's mammy, laureata in lingue con una brillante tesi, non avrebbe saputo dirlo. Lei sapeva soltanto che Fagottino, incappucciato nel berretto e avvolto stretto in una coperta, lo riscaldava con il calore del suo corpo. E che lo saziava con il suo latte. E che diventava sempre più grosso e pesante, ancora più grosso, ancora più ingombrante. E urlante. Cella d'isolamento, cella di rigore... e quel fagottino, che era ormai un fagotto, come lei sempre tra i piedi a infastidire. Un intralcio? Due intralci - pensò mentre volava. La pazzerella aveva imparato a volare... in alto, sempre più in alto nel cielo dove le stelle si facevano sempre più vicine, a portata di mano, prima di spegnersi di colpo, tutte insieme nella notte metropolitana, mentre rosso, sull'asfalto, un papavero sbocciava.

venerdì 23 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°14)

"Assomigli a mio padre più di quanto non gli assomigli io" disse. Poi tacque, mentre io crollavo a sedere sul pavimento ingombro di cianfrusaglie, afferrando il bandolo dell'arruffata matassa che era stata la mia vita. "Le domande, quando meno ce lo aspettiamo, trovano una risposta" sussurrò Gloria, aggiungendo "Davvero non avevi capito nulla? Ti ho raccontato anche delle bugie per vedere la tua reazione. Non è stato mio... nostro padre che mi ha insegnato ad aggiustare le bambole. Io ero piccola quando lui morì ad Auschwitz". Ma io non l'ascoltavo. Alla luce di quella rivelazione tutti i punti oscuri e le sensazioni contrastanti, che mi avevano reso incerta e diffidente di fronte a un "sentire" che troppo spesso avevo avvertito come irrazionale e derivante da una mia illogicità di fondo, mi apparivano chiari e... Ma contemporaneamente mi saliva alla gola una rabbia profonda. Al centro di quel trito triangolo amorosa ero stata io a pagare il prezzo più alto, a essere ingannata da coloro di cui mi ero fidata ciecamente e che mi avevano fatto credere di essere ciò che non ero.
"Devo parlare con mia madre e, quanto a te, non mi sento di gettarti le braccia al collo, perché anche tu mi hai ingannata. Come tutti gli altri... " le gridai. Lei assunse quell'espressione contrita che le era congeniale e, tenendo l'anello sul palmo della mano, mi chiese:"Posso tenerlo?"
"Per me... Ha portato soltanto disgrazie. Ma mio padre, l'uomo che mi ha allevato, sapeva che non ero sua figlia? E tu come hai fatto a arrivare fino a me? Ci sono molti punti oscuri: in fondo potresti anche essere una pazza visionaria?"
Lei mi ascoltò in silenzio, senza interrompermi, poi, scuotendo la testa, disse: "Affronta la verità, per dolorosa che sia, come ho deciso di fare io, smettila di vivere nella menzogna". La interruppi: "C'è un particolare: tu non vivi, tu ha scelto di consacrare la tua vita al ricordo di ciò che è stato. Sei diventata la personificazione della memoria: sei la Shoà fatta donna. Non ti sei fatta scrupolo, nessuno scrupolo a travolgere la mia vita, pur di frugare nell'orrore di quel passato che hai reso presente e futuro, perchè sei ancora lì, in quella cuccia di cane dove ti hanno lasciata... "
Lei restò impassibile, non allungò una mano a sfiorare la mia, non mi si avvicinò, si limitò a rispondere alle domande che le avevo fatto e, dopo essersi accovacciata, ritagliandosi uno spazio tra gli oggetti che la circondavano, rispose: "Ricordi quell'investigatore?" e vedendo che annuivo continuò: "E' stato lui il segugio che ti o vi ha ritrovati, quanto a tuo padre... Non so cosa sapesse. Questa è una domanda che dovresti fare a tua madre o... a te stessa".
Non le interessavo più; io, la simpatica Giovanna non la incuriosivo, non era una sorellastra che aveva cercato. Io le avevo consentito di avanzare di un passo sulla strarda della sua vendetta personale. Avvertivo sentimenti contrastanti, ma era un lucido rancore quello che sentivo prevalere, un rancore che osavo tirare fuori per quell'infanzia senza affetto, senza serenità, di cui si era incolpata la guerra, che era diventata il grande alibi di cui tutti si erano fatti scudo per affogarvi i loro piccoli e grandi peccati
Poi, mentre la soffitta si scuriva delle ombre della sera, con tono volutamente leggero, mormorò: "Conservati da qualche parte, ci sono ancora i tuoi giocattoli. Hai mai avuto in dono una bambola?"
Conoscevo quell'intonazione di voce e conoscevo quell'espressione: il segugio era sulle tracce della preda, ma non l'aveva ancora stanata. (racconto a puntate...)

giovedì 22 aprile 2010

Benedetto XVI Obama e Berlusconi

Benedetto XVI è uomo incapace di dare e darsi. Chiuso, avvolto in una morale che enuncia principi, regole e, soprattutto, divieti, è probabile sia a suo agio più nelle asettiche stanze del Vaticano che a contatto diretto con la vita fatta di lavoro, amore, sesso, figli, sudore e sangue: quando e se, anche solo come un'eco lontana, ne venga sfiorato. E' sulla base di quel soffio che anche Benedetto XVI parla di sessualità, aborto, reati contro i minori, miseria, degrado e immigrazione, tanto per fare un rapido elenco? Rigorosamente a bassa voce - i peccati si sussurrano non si urlano - con quel suo volto che esprime una compunta misura. E la gente lo sente, sente che sotto quelle assurde e scenografiche vesti non c'è calore, non ci sono emozioni. Sul palcoscenico, tra canti gregoriani e fumi d'incenso, va in scena non la vita, ma la sua rappresentazione, magistralmente orchestrata, ma fasulla. E' in parte lo stesso problema che sta alla base del distacco della gente dalla politica. Dagli schermi televisivi un uomo, che vive una realtà privilegiata, suggerisce, consiglia, propone ricette miracolose per stare a galla in una dimensione del reale... irreale.
E consequeziale sentirsi doppiamente presi in giro, poiché non solo la nostra vita è lotta quotidiana e feroce, ma dobbiamo pure sorbirci le prediche di chi questa lotta non la conosce. Inoltre, sono la nostra frustrazione, la nostra rabbia e la nostra sofferenza che ne giustificano, almeno in parte, la presenza.
Perchè mai, allora, dovrebbero risolvere i nostri problemi? Della grande recita forse fa anche parte, come promessa, il lieto fine anche se, quasi d'obbligo a teatro, trova raramente riscontro nella realtà.
C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo, di profondamente sbagliato.
Mi sorge spontaneo il confronto con gli Usa e con l'elezione alla Casa Bianca di un uomo di colore. L'America ferita e umiliata, ha deciso di non farsi più rappresentare da un pasciuto bianco figlio di papà, ovviamente miiardario, ma da quello sconosciuto Barak Obama, di cui ha colto la fierezza ma intuendone e riconoscendone le radici nell'umiliazione che molti americani stanno vivendo sulla propria pelle e che ha fatto scattare un'identificazione sul piano delle emozioni dettate dal comune sentire.
Con il servo di Cristo che, dotto e misurato, approfondisce tematiche inerenti alla fede e con l'imprenditore che colleziona ville faraoniche e guadagni miliardari con le proprie aziende, cosa abbiamo da spartire? Nulla, io credo, e, forse anche per questo motivo, le chiese e le sedi dei seggi sono, nel nostro Paese, sempre più vuote.

lunedì 19 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°13)

Come avevo fatto a non capire, a non indagare? Avevo evidentemente operato una selezione dei ricordi che mi proteggesse da una realtà disturbante che avrebbe potuto incrinare le mie sicurezze. Stanati dall'ombra in cui erano stati relegati, momenti, impressioni, ricordi e quel teatrino di finzioni che era stato la mia vita e quella dei miei genitori, salivano a galla sciorinandomi davanti quel non detto che mi era sembrato bastasse ignorare per non cogliere l'infelicità di quelle vite negate. L'anello scomparso, alla morte di mio padre, era riapparso tra le sue carte. Mia madre l'aveva preso in mano per un istante, poi l'aveva gettato nel sacco destinato alla spazzatura.
"Non ho mai saputo di chi fosse... " avevo chiesto, ma lei mi aveva interrotta. "Era mio, l'avevo dato a tuo padre da fidanzati. Tutto qui! Al suo ritorno dalla prigionia mi accusò di averlo tradito, voleva lasciarmi, farneticò di un uomo che aveva conosciuto... Be', tornò dalla prigionia - te lo ricordi certamente - pazzo di rabbia, di furore. Rimasi con lui soltanto per amor tuo".
Non so per quale motivo, non credo alle coincidenze, mentre si voltava, io ripescai l'anello e me lo misi in tasca. Finì nascosto insieme al mio diario e io, scoprendo che la data all'interno dell'anello altro non era se non il giorno in cui mia madre era nata, mi convinsi di una verità che, ripeto, salvaguardava il mio fragile mondo.
Gloria arrivò poco dopo: tirata e diffidente come sempre, misurava però le parole, decisa a ottenere da me... che cosa? Non mi era ancora chiaro, ma dal momento che la sua comparsa nella mia vita era stata preordinata e studiata a tavolino e le rivelazioni che si susseguivano una all'altra se chiarivano la sua storia, ingarbugliavano la mia, avrei preteso da lei qualcosa in cambio di quelle informazioni. Ci sarebbe stato un baratto.
"L'hai trovato?" mi chiese.
"Ti rendi conto che le mie sicurezze... " cominciai.
"La tue finzioni, non le tue sicurezze, stanno cadendo una a una, come birilli" rettificò interrompendomi, ma con dolcezza. Io ero molto agitata, forse troppo in relazione a ciò che stava accadendo, tanto che scordai di chiederle quel qualcosa, quel chiarimento a priori che intuivo potesse essere in grado di darmi.
Comiciammo a cercare e, mentre i ricordi di una vita mi scivolavano tra le mani perché, gettato all'aria il mio appartamento, eravamo passate alla soffitta che stavamo setacciando, mi montava dentro un insieme contrastante di emozioni. Vuotando uno scatolone che conteneva ancora i miei quaderni delle elementari quel dannato anello ruzzolò a terra, con un tintinnio che ruppe il silenzio polveroso che regnava nel locale.
Gloria si chinò, prese l'anello con delicatezza, ne scrutò l'interno e sollevò quel suo viso altero, fisso, che una sciabolata di luce, filtrando dalla finestrella socchiusa, sembrò staccare dal corpo, quasi volesse provocare in lei un'emozione, smuoverle dentro un ricordo. Ma la sua voce, quando parlò, non ebbe esitazioni mentre io, basita, vedevo il castello di carte che era stata fino a quel momento la mia vita implodere, accartocciandosi su se stesso.
Con un flo di voce, le mormorai: "Vuoi ripetere quello che hai detto?"

domenica 18 aprile 2010

Pugni in tasca

La pioggia, quella sottile e penetrante che ti infracida i pensieri oltre la pelle e ti ristagna nell'anima, non accenna a diminuire dandomi la percezione di un inverno infinito. Poi un'amica mi trascina a vedere un documentario su Stratos e la giornata si impenna come un cavallo imbizzarrito. Demetrio Stratos canta, i grandi occhi malinconici che sembrano sottolineare un percorso artistico e umano eccezionale, passando dal candore dell'adolescenza alla grinta del rock, al rigore di un impegno che è artistico, politico e, - esperienza che ne determinerà una sorta di solitaria unicità - di ricerca tenace e coraggiosa di qualcosa che la sua sensibilità di artista gli suggerisce e che diventerà un'esplorazione all'interno della voce, ma un'esplorazione condotta sull'altro versante del pianeta voce, quello che quasi nessuno ha osato violare. E dalla sua gola usciranno gorgheggi, schiocchi, sussurri, si intersecheranno suoni diversi incuneandosi uno nell'altro, cozzando o fondendosi, rincorrendosi o, vorticando, sollevandosi a riempire di sè l'aria. Deve essere stato qualcosa di assolutamente nuovo e, oggi come allora, si resta basiti. Nella sala non vola una mosca: Stratos, artista e uomo che si dava al suo pubblico, che dal palco magnetizzava la platea, è comunicazione pura nella sua forma primordiale attraverso suoni che non sono ancora linguaggio e che il cicaleccio di una società rumorosa ha trasformato in noioso ronzio.
Dove gli altri sentivano lui ascoltava recuperando dal passato sonorità dimenticate e anticipandone, attraverso la sua sensibilità d'artista, future e sconosciute elaborazioni, mentre proseguiva la sua ricerca appassionata e instancabile sulla voce. Fu la voce di quella stagione, breve e intensa come la sua vita, che ci regalò la speranza di cambiare il mondo e la voglia di deridere il potere.
Di quella speranza e della voce che la cantò oggi siamo orfani.

giovedì 15 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°12)

Mia madre conosceva Gloria e sapeva, doveva sapere qualcosa di quel maledetto anello.
Gloria mi aveva strappato una promessa: sarebbe venuta il giorno dopo a casa mia e l'avremmo cercato.
Guidavo assorta, scendendo lungo la strada a tornanti che si perdeva tra prati e vigneti. Qualcosa affiorava lentamente dalla mia memoria, immagini confuse mi passavano davanti agli occhi: piccola, la mano stretta in quella di mia madre attendevo l'arrivo di un treno. La guerra doveva essere finita da poco, perché, oltre il muretto pericolante che delimitava la stazione, spuntavano le sagome sbilenche di alcune case bombardate; su una parete, messa a nudo da uno squarcio, qualcosa pendeva: forse una Madonna appesa, storta, sopra un letto...
Poi quell'estraneo dalla barba ispida che mi sfregava la guancia, il sobbalzare del suo torace contro il mio, mani adunche, odore di sudore. Aspro. Nel vocio si perdevano i singhiozzi. Dal treno erano scesi uomini magrissimi, pallidi, alcuni in barella. Mio padre piangeva. Mia madre non parlava: io ero già tornata tra le sue braccia, al tepore e al profumo rassicurante della sua pelle quando lui aveva allungato le braccia per abbracciarla. Tra lei a lui, io, da quel momento e per sempre. A dividerli legandoli, un trait d'union che avrebbe condizionato la mia vita.
La sera, io sbattuta nella mia stanza, dopo che per mesi avevo dormito con mia madre, avevo sentito le loro voci levarsi stridule, quel pianto femminile...
Il mattino seguente, mia madre mi aveva sussurrato, prendendomi in braccio per portarmi in cucina, mentre tentava di coprire con la mano un livido sotto lo zigomo:
"Papà ha sofferto molto, dice delle cose cattive alle quali non devi credere: non è lui che parla... sono state la guerra e la prigionia a renderlo pazzo".
E poi... l'anello. Ricordavo quel pacco che volava nel muro e mio padre che gridava, gli occhi inferociti, folli, e quello sguardo che passando dalla rabbia alla paura, spaventava ma anche impietosiva. E quello sarebbe stato il registro emozionale che avrebbe poi ritmato i nosti rapporti: paura e rabbia, sempre e solo qesti due sentimenti. Ricordavo la porta che sbatteva mentre bestemiando usciva di csa. Mia madre si era chinata a raccogliere il pacco, aveva sciolto il nodo. Conteneva un pezzo di pane raffermo, ammuffito, il camicione a righe dei prigionieri e, in una tasca, avvolto in uno straccetto quell'anello. Lo aveva infilato, le stava largo, l'aveva rigirato sull'anulare, impietrita. Si era avvicinata alla finestra e guardando all'interno dell'anello, era sbiancata.
Io l'osservavo.
Dopo essersi staccata dalla finestra era crollata a sedere su una seggiola, senza dire più una parola. Mi ero avvicinata cercando il suo sguardo, ma lei sembrava non vedermi, sembrava guardare al di là del mio viso impaurito. Aveva un'espressione strana che mai le avevo visto: piangeva, ma i suoi occhi erano splendenti, scintillanti, la bocca piena e grande aperta al sorriso, come se una luce le si fosse accesa dentro illuminandola.
Si era tolta l'anello appoggiandolo sul tavolo. Io avevo sbirciato al suo interno; certo che ricordavo il nome che portava inciso: c'era scritto Bianca e una serie di numeri.
Bianca era il nome di mia madre. (continua...)

mercoledì 14 aprile 2010

Racconti dal sottobosco di Silva Ganzitti

Silva Ganzitti, curatrice della collana "Fiabetica" e autrice di libri per l'infanzia, la incrociai su aNobii e fui subito colpita da quella sua cura nel raccontare che nasceva dall'attenzione al particolare ma si nutriva di ricercatezza, dando vita ai suoi delicati racconti, tutti, o quasi, giocati sul filo del sussurro, come storie mormorate all'orecchio. Ma se nei luoghi dell'anima la scelta del pudore prevaleva, il colore, gli umori, i sapori impregnavano ed esaltavano i luoghi della natura, dai boschi della sua infanzia, alle colline, al mare, ai mercati che l'autrice descriveva conferendo valenza quasi pittorica alle parole usate.
Poi lessi le sue favole, cogliendo il senso del suo narrare per l'infanzia, fantasticato a lungo ma filtrato attraverso quel rigore logico che l'ha portata a considerare il bambino al quale raccontare una favola un potenziale uomo o donna, anche se ovviamente in miniatura. Se al piccolo uomo, pronto a partire alla scoperta del mondo, qualcuno infilasse un libro nella zaino - poichè la lettura questo è fin dal primo libro, un amico sul quale contare per affrontare il mondo -perchè non un libro come il suo, ricco di fantasia, stimolante negli intrecci e perfetto nella descrizione del micro mondo del sottobosco?
Ottima letteratura per l'infanzia è quella che l'autrice ha presentato a un pubblico selezionato e attento dopo essersi guadagnata la fiducia di un editore.
Correttamente, contando solo sulla serietà e sulle capacità, l'autrice è arrivata fino qui. Credo che debba e possa considerare "Racconti dal sottobosco" soltanto un inizio!

martedì 13 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°11)

Ero esterefatta. "Sono Gloria!" con quel tono? Come se mia madre la conoscesse?
La guardai e gelidamente le chiesi: "Mia madre ti conosce?". Vidi la rabbia nei suoi occhi acquattarsi mentre la sua voce assumeva quel tono implorante, da vittima, che non riuscivo a sopportare. Anche se lei vittima lo era, ma il carnefice... non ero io.
Eppure mi faceva sentire responsabile come se fossi stata presente alle adunate del Duce, confusa all'interno della folla plaudente.
Le crollarono le spalle, si abbassarono le palpebre mentre diceva:"Scusami! Per un momento ho perso il controllo".
Finsi di credere alle sue parole ma, ormai, il dubbio si stava facendo certezza dentro alla mia testa: quella donna aveva bisogno di me, ma non era la mia amicizia che cercava. Qualcosa ci univa, qualcosa che risaliva alle nostre famiglie, un filo rosso di dolore e di sangue che passava attraverso il campo di sterminio di Auschwitz, che mio padre aveva cercato disperatamente di dimenticare, e quella fede che mia madre fingeva di non avere visto nel cassetto della sua scrivania. Ma perché non parlarne con me, con chiarezza? Cosa le impediva di dirmi la verità?
Gloria mi fissava. Aveva capito di essere andata oltre?
"Ricordi ciò che ti dissi... che il dolore sfigura? Ho perso tutti: ho soltanto te!"
e sospirò.
"Ma io potrei essere soltanto un'amica" le risposi, sentendo che la stanza si faceva stretta e l'aria mi mancava.
Rise, con quella sua risata che strideva come gesso su una lavagna. "Ma cosa hai capito? Non sto attentando alla tua virtù, non mi piacciono le donne. Oh, mia povera amica, è questo che hai pensato poco fa quando ti sei rivolta a me con quel tono offeso e quello sguardo gelido?"
Mi sentii scoperta. Mi era passata per la mente anche quell'idea. Era un'ipotesi come un'altra, in fondo. Oppure mi stava raggirando, voleva tranquillizzarmi? Bene, nel dubbio sarei stata al suo gioco.
"Be', non posso negare... " balbettai in risposta.
"Ho una storia con quel mio amico, l'investigatore privato. Ricordi, ne abbiamo parlato quel giorno in cui... "
"Ah, raccontami, raccontami".
"E tu in cambio cosa mi dai?" e sorrise, sorniona.
"Forse so dov'è l'anello" le sussurrai osservandola.
"L'avevo immaginato" mi rispose.
"Come mai?"
"Un'ebrea non... "
"Un'ebrea?!"
"A volte, parlando con te, dimentico che non lo sei. Hai molto della mia gente. Nessuno te l'ha mai detto?"
In quella partita a scacchi che avevamo incominciato a giocare era di nuovo in vantaggio.
Di nuovo mi spiazzava. (continua... )

Primavera

Ricordi
quelle brusche primavere?
Le prime barche in mare
e noi
le mani nelle mani
la bocca
per baciare
e per cantare?

I merli son tornati
nel cortile
impara a volare
la covata,
l'erba
è già
rispuntata

Faticosa
mi azzanna
la giornata
La primavera è intatta
io
sfinita

In pasto ci davamo
a quelle sere
che una bava di vento
illanguidiva
...
...
la vita
pezzo a pezzo
c'ingoiava.

lunedì 12 aprile 2010

E la missione umanitaria?

Gino Strada, il fondatore di Emergency, rischia di doversene andare dall'Afghanistan.
Contro di lui accuse vaghe, fumose, legate al ritrovamento di armi all'interno dell'ospedale. Strada, che sembra cadere dalle nuvole, si difende asserendo di non avere mai visto quelle armi.
Io gli credo, il ministro Frattini un po' meno. Chissà perché?
Quante volte abbiamo sentito quest'uomo, con la pacatezza anche un po' annoiata che gli è propria, ribadire la sua ferma condanna alla guerra, a qualunque intervento armato che si proponga la soluzione di un problema attraverso l'uso delle armi? Non potendo impedire l'uso della violenza, il dottor Gino Strada fa quello che un medico può e deve fare: rappezza, ricompone, ricuce i corpi massacrati che assediano, come un'inarrestabile quotidiana marea, i suoi ospedali. Questo fa il dottor Gino Strada, non complotti e, quindi, non scelte a favore dell'una o dell'altra parte in guerra.
Eppure il ministro Frattini non è convinto e si è guardato bene, per il momento, dal fare una protesta degna di nota al governo di Kabul, anche perché - non dovrebbe essere un merito ? - il dottor Strada e il suo ospedale hanno poco a che fare con gli aiuti umanitari finanziati dalla Farnesina.
Trattandosi di accuse infamanti, chi meglio del Presidente del Consiglio, sempre pronto a difendere se stesso e chi di dovere da accuse costruita a tavolino - vedi Bertolaso -, potrebbe intervenire?
Ma sembra che Berlusconi non ne voglia sapere. E poi, francamente, perché questo Gino Strada dovrebbe piacere a chi governa il nostro Paese o al governo afgano che sosteniamo? Come tutti i cani sciolti non è controlla bile, la zuppa se la trova da solo, abbaia, pardon!, parla quando e come vuole, quindi potrebbe anche, parlando a vanvera... Presta gratuitamente la propria opera. Di uno così è meglio non fidarsi. A chi può essere utile? Bò, solo ai feriti che ricovera nel proprio ospedale.
E chi se ne frega dei feriti.
E la missione umanitaria?
Quella la lasciamo al dottor Gino Strada: a patto che non esageri!

sabato 10 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°10)

Dopo aver dato un'occhiata al cielo che andava scurendosi di nuvole di tempesta rientrammo in casa, seguite, quasi rincorse, dal picchiettio delle prime gocce di pioggia sul fogliame del giardino.
"Allora?" chiesi.
Silenzio. Rotto dalla mia ripetuta domanda:
"Non ti aiuterebbe parlarne? Dirmi tutto partendo dall'inizio?"
"Tutto cosa?" mi chiese, e mi guardò, beffarda; poi continuò dicendo:
"Cos'è che devo raccontarti: tutto il dolore che i campi di sterminio lasciano per sempre nei sopravvissuti? Oppure ti incuriosisce conoscere i particolari delle torture alle quali i prigionieri venivano sottoposti, sempre che tu non senta il bisogno di essere sommersa, affogata nel fiume di lacrime versato dai parenti..."
La interruppi, impacciata, borbottando:
"Non ti consentono di vivere normalmente... "
"Normalmente? Ma ti rendi conto di ciò che stai dicendo?" e di nuovo m'impedì di proseguire.
"Volevo soltanto esprimere la mia opinione"
Disse:
"Sentiamo, sentiamola questa tua opinione, costruita su di me bevendo un tè in mia compagnia o raccogliendo fiori nei campi, dall'alto delle tue solide sicurezze, alle quali nessuno si sognerebbe di attentare", e la sua voce dal tono amaro, facendomi sentire in colpa, m'indusse a continuare con patetiche ovvietà.
"Non pensi che ciò che ti è successo sia diventato un alibi? Per giustificarti in ogni momento, di fronte a qualunque prolema. Tu sei viva, la vita ti ha riservato questa fortuna incredibile che buona parte della tua gente non ha avuto. Perché non godere di questo dono?"
"Perché? Perché uccidendo la mia famiglia mi hanno rubato l'infanzia. Io non sono mai più stata una bambina, io non conosco abbandoni, sono incapace di emozioni, l'unico sentimento che mi fa sentire viva è l'odio. Vivo per potermi vendicare!"
"La vendetta non ti restiturà l'infanzia che ti hanno rubato Gloria".
"Tu non sai, tu non sai nulla; quel ladro cercava qualcosa che non ha trovato, ma..." e tacque, valutandomi, soppesandomi con quello sguardo che mi dava sempre un'acuta sensazione di disagio.
"Non sono ingenua come pensi; ho capito quasi subito che non poteva essere un drogato. Ha trovato ciò che cercava?"
Non osai chiederle che cosa cercasse perché Gloria, cambiando tono, quasi implorante mi disse: "Devo vedere tua madre, parlarle. Puoi accompagnarmi? Non ho intenzione di aspettare domani, ma tu dovresti telefonarle per comunicare il mio arrivo".
Sentivo aumentare di minuto in minuto la mia curiosità, ma non capivo perché per Gloria fosse necessari incontrare mia madre.
"Ora vado a telefonarle, se non avesse più la fede e non ricordasse quello che portava inciso... Be', stai rischiando proprio di fare un viaggio inutile".
Si voltò e fissandomi nuovamente beffarda e aggressiva, con quell'espressione da gatta che gioca con un topo, disse: "Sei sempre stata intelligente, ma molto ingenua, in questo non ci assomigliamo"
"Cosa intendi dire?" mormorai, sentendo un brivido corrermi lungo la schiena mentre mi tornava alla mente il verso della civetta e fissandola pensavo: "Questa volta l'ingenua sei tu cara Gloria, perchè un segreto, sì, proprio un segreto su questo anello che ti sta tanto a cuore me lo tengo stretto, stretto, pure io. Eh già, io conosco sia la data che il nome incisi sulla fede, ma, per il momento non ho la minima intenzione di comunicarteli."
Pochi minuti dopo telefonavo a mia madre.
"Pronto mamma, sì sto bene... Anche tu? Lasciami parlare... " e le ricordai quel pacco portato da mio padre al ritorno dalla prigionia, la fede che portava incisi un nome e una data, spiegandole che avevo conosciuto una persona che cercava le tracce dei suoi parenti uccisi ad Auschwitz, ma... Lei m'interruppe, il tono della voce mutato, stridulo mentre mi diceva:
"Quando morì tuo padre vuotammo il cassetto della scrivania e a me non risulta ci fosse questo anello. Ti stai sbagliando, mi dispiace. Non intendo parlare con questa donna".
Gloria, che seguiva la telefonata con evidente apprensione, vedendo che io scuotevo la testa dicendo: "Va bene, mamma. Pazienza!" e già ero sul punto di abbassare la cornetta, me la strappò dalle mani e sibilò quelle due parole: "Sono Gloria!"
Mia madre aveva evidentemente interrotto la comunicazione, perché anche Gloria, con un gesto di rabbia, scaraventò il telefono sul ripiano della scrivania. (continua...)

giovedì 8 aprile 2010

Politica e terremoto

Il padre dei miei figli è abruzzese, e L'Aquila la vidi per la prima volta quando andai a conoscere la sua famiglia. A pochi chilometri dalla città un paese abbarbicato alla montagna: case di sasso, una spolverata di mandorli in fiore color cipria e l'aria, frizzante e sempre troppo fredda, che ti accarezzava la faccia portandosi dentro quel vago gusto di resina che è l'odore dei boschi. Ora quelle valli, quei paesi sembrano frantumati, basiti nel silenzio che solo il rumore del vento osa violare. Dall'alto degli elicotteri le tendopoli dei terremotati sembrano laghetti.
Ricordo, anche se sono passati molti anni, quei paesini e la città, una delle tante belle città italiane, una delle più fredde, sempre ai primi posti per le temperature invernali più basse, e ricordo le chiese e i monumenti. E tanti giovani per le strade, perché era città universitaria. Gente solida, un po' chiusa, i ragazzi che prestavano il servizio militare nel corpo degli alpini, come i friulani della terra di mia madre; e, come loro, schivi, fino a quando non bevevano un paio di bicchieri e, solo allora, diventavano loquaci. Nelle cantine del paese noi giovani cantavamo le canzoni di montagna e mangiavamo spiedini di agnello. A fianco degli alpini del Friuli scavarono per giorni, quei ragazzi, per tirare fuori i superstiti del terremoto del '76, mescolando preghiere e bestemmie sotto il sole, mentre s'infilavano tra i muri sbriciolati sperando che una scossa di assestamento un po' più forte non li mandasse al Creatore.
Una fotografia mi ritrae sorridente e giovanissima accanto alla Fontana delle 99 Cannelle. E' stata danneggiata? Rido in quella fotografia, non so ancora che non tornerò mai più in quella città, che la cancellerò dalla mia vita... Non so, come potrei?, che la ferirà a morte, conservandola soltanto nei miei ricordi, una furia ben più devastante della mia, una furia che in una manciata di secondi travolgerà le sue case, devasterà le sue chiese, affogherà nella polvere le sue vetrine scintillanti, scagliando panchine scardinate su aiuole che nessuno più curerà.
Ho visto sfilare le immagini alla TV di una città fantasma, dello strazio di chi ha perso la propria gente, la casa, le radici, quel tessuto umano e sociale che avvolgeva la città in un alone rassicurante e che il terremoto ha devastato.
Eppure...
Eppure il Friuli è stato ricostruito mattone su mattone, casa su casa.
Ricordo al posto che oggi è di Bertolaso, Zamberletti: promise ai terremotati che il Friuli sarebbe stato ricostruito, e mantenne la promessa.
Ho rivisto Gemona, epicentro del sisma: le case dalle imposte color pastello che si ricorrono lungo le strade che portano alla chiesa, ricostruita pezzo per pezzo. Tutto rigorosamente antisismico.
Quanti anni sono passati? Soprattutto, quale altro terremoto invisibile, ma altrettanto devastante, ha distrutto la coscienza civile del Paese, ha istituzionalizzato il furto facendone mestiere, professione e ... orgoglio da esibire come italica virtù? La tragedia dell'Aquila, a differenza di quella del Friuli, ha portato alla ribalta anche il dramma di un Paese che, con il tacito accordo di tutti, ha costruito con la sabbia al posto del cemento, che ha sfruttato e sfrutta il dolore per trarne vantaggi elettorali, che mente sapendo di mentire. La tragedia di questa città è ancora più amara di tante altre che l'hanno preceduta perché ha esposto allo sguardo di tutti non soltanto una città devastata ma anche la devastazione di un intero Paese.
Non sarebbe il caso di chiedersi a che cosa servano gli osservatori: geologici e della politica? E se ci sia ancora una parte del Paese disposta a rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire? E non solo case.

martedì 6 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°9)

Il giardino di Gloria sembrò trattenere il fiato, come la sua proprietaria, nell'attesa.
"Nel cassetto della scrivania di mio padre trovammo tra le sue carte una fede".
"Una fede? Non capisco il collegamento... " mi interruppe Gloria.
"Fu mia madre a ricordare. Mio padre al suo ritorno dalla prigionia le aveva consegnato un fagotto, ordinandole di bruciarlo ma - noi donne siamo curiose e... gelose - lei, prima di obbedire, lo aveva aperto".
"Cosa conteneva?"
"Un camiciotto a righe, la divisa dei prigionieri di Auschwitz, un tozzo di pane raffermo... "
"E?" La voce di Gloria era un sussurro mentre si piegava su di me e la parata di spettri ci circondava: in attesa.
"La fede".
Mi guardò delusa, quasi arrabbiata.
"All'interno dell'anello erano incisi un nome e una data".
Riacquistò colore mentre io le rispondevo: "Non ricordo nessuno dei due. Mi dispiace... "
"E... quell'anello? Lo possiede ancora tua madre?"
"Non lo so, non ne ho idea. Mia madre è anziana, malata... Forse è ancora lì".
Gloria sembrò essere colta da una incontenibile frenesia. Si alzò e si sedette di nuovo, lo sguardo che vagava sul giardino senza vederlo.
"Non puoi telefonarle?" mi chiese.
"Adesso?" le risposi interdetta.
"Lo sai da quanti anni aspetto? Ti prego... , aggiunse e , per la prima volta da quando la conoscevo, sembrò guizzarle nello sguardo una fiammella di vita, un'emozione autentica. Ma era odio quello che le era esploso nello sguardo, era il veleno che le aveva ucciso l'anima.
"Oppure potremmo andare da lei. Cosa ci vuole: abita ancora a Trieste, se non sbaglio?"
"Ma dovrei chiedere due giorni di permesso sul lavoro. E' possibile che non ricordi nemmeno lei il nome e, quasi sicuramente, avrà dimenticato la data incisa sull'anello. Diversamente da noi due è ordinatissima, quasi maniacale nel suo bisogno di perfezione domestica".
"Non ti ho mai chiesto un favore... " mi disse.
Io abbassai gli occhi perché non le avevo detto tutta la verità. Le avevo taciuto una cosa. Un particolare importante!Non essendo abituata a mentire, mi sentivo a disagio e non mi era nemmeno chiarissima la motivazione del mio comportamento. Tentai di trovarmi delle giustificazioni: Gloria aveva cercato in me un'amica o era già al corrente di qualcosa? La sua ambiguità, il suo bisogno di riservatezza non mi convincevano. Avevo la sensazione che nascondesse qualcosa e in quello strano gioco tra noi - dove il non detto superava di molto quello che avevamo già scoperto una dell'altra - ora ero io a essere in vantaggio.
"E se mi raccontassi tutto?" le proposi.
Il silenzio del giardino fu squarciato da un tuono. Una goccia di pioggia le scivolò sulla guancia. Pochi secondi dopo il temporale infuriava e non soltanto nel cielo, improvvisamente livido, sopra la casa. (continua... )

sabato 3 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°8)

Sul giardino calò il silenzio mentre, accanto ai fantasmi evocati dalle parole di Gloria, anche i miei risalivano lungo i percorsi della memoria e quella parata di spettri invadeva compatta lo spazio e il tempo che ci ospitavano.
"Si può dimenticare? Andare avanti?" balbettai rompendo finalmente il silenzio seguito alle sue parole.
"Non si deve dimenticare. Mai e per nessun motivo!" mi rispose.
"Mio padre fu imprigionato nel '45", le dissi aggiungendo "Passò ad Auschwitz pochi mesi. Forse fu per questo motivo che riuscì a salvarsi".
"Forse?"
"Non ha mai raccontato nulla. Ritornò un altro uomo dalla prigionia: diffidente, violento, cupo. Ricordo che ricevette una lettera da un prigioniero e la strappò in mille pezzi... Poi, quando qualcuno tentò di contattarlo anche telefonicamente si negò,alzando una rete di filo spinato intorno ai ricordi di quel periodo: penso nel tentativo di impedire alla sua memoria di tormentarlo. Ma i ricordi riaffioravano sotto forma di incubi, incubi che lo svegliavano nel cuore della notte facendolo urlare terrorizzato. In quel campo di sterminio mio padre lasciò la sua anima...".
Gloria mi guardava mentre parlavo con la voce incrinata, i ricordi di quel padre, di cui avevo con mia madre atteso con ansia il ritorno, che risalivano dolorosi dalla memoria.
"Era così profondamente cambiato nell'aspetto e nel carattere da sembrarci, quando ce lo ritrovammo di fronte allampanato, scheletrito, lo sguardo sghembo e spaurito... un'altra persona. Uno sconosciuto".
Gloria mi ascoltava attenta e quando mi vide piangere rimase immobile, l'espressione del volto dolente, le spalle piegate e le mani strette in grembo agitate da un tremore irrefrenabile. Ma i suoi occhi, quando ne incrociai lo sguardo, avevano la fissità degli occhi delle sue bambole. Erano occhi che il dolore non lo conoscevano, si limitavano a mimarlo, anche se sapientemente.
Dopo un istante disse:
"L'ultimo della famiglia a morire fu mio padre... Ho passato tutta la vita a cercare testimonianze, a frugare nel dolore dei sopravvissuti, a scavare per trovare i responsabili. I miei genitori avevano cambiato cognome, città. Qualcuno deve averli traditi. Avevano acquistato la villa, dove furono arrestati, sotto falso nome, ma la loro ricchezza doveva avere ingolosito qualcuno, qualcuno di cui mio padre si fidava..."
"Che lavoro faceva tuo padre?" le chiesi.
"Era un antiquario" mi rispose.
"Un antiquario con la passione delle bambole?"
"Per la nostra storia molti di noi hanno cominciato facendo i robivecchi, allestendo mercatini, commerciando in oggetti usati... " mi rispose, distratta. Poi fissandomi mi disse:"Forse ad Auschwitz i nostri padri si erano conosciuti?"
"Non posso esserti d'aiuto. Ti ho appena spiegato... "
"Quando tuo padre morì" lei m'interruppe.
"Come sai che è morto?" le chiesi senza lasciarle finire la frase.
Mi lasciò scivolare addosso quello sguardo freddo e, dopo un'esitazione quasi impercettibile, mi rispose:"Parlando di tua madre mi dicesti che era vedova".
Non me lo ricordavo, ma era probabile fosse vero.
Lei completò la frase riprendendola dall'inizio:"Quando tuo padre morì, tra le sue carte non ritrovaste nulla che potesse ricollegarlo alla prigionia?"
"Sì, trovammo qualcosa".
Lei mi guardò e una vampata di calore la fece arrossire. Violentemente.(continua...)

venerdì 2 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°7)

Quell'episodio sembrò concludersi così: un tentativo maldestro di furto da parte di un ladruncolo, probabilmente drogato. Ma non per me. Avevo colto, o avuto la sensazione di cogliere, non soltanto delle contraddizioni tra ciò che Gloria sembrava aver pensato e certi sguardi e le parole pronunciate in merito a quanto avvenuto, ma avevo anche avvertito, in quella occasione, che si stava instaurando tra me e lei un rapporto che, anche se non ne capivo bene le ragioni, cominciava a darmi un sottile senso di angoscia. Gloria era gentilissima con me e sempre disponibile ad ascoltarmi se qualcosa mi angosciava o soltanto turbava, ma... ma io avvertivo in lei una duplicità, quasi un sottofondo caratteriale che intuivo celasse qualcosa, una parte di lei molto meno presentabile e affabile dell'involucro raffinato e accurato con il quale era solita presentarsi.
Una parte che era emersa nella freddezza con cui aveva osservato il cane, steso morto ai suoi piedi, e nell'odio che le era balenato nello sguardo e le aveva fatto stringere le mani a pugno fino a farle quasi conficcare le unghie nei palmi.
C'erano stati degli accenni a un passato segnato dalla sofferenza, al suo essere ebrea. Forse le due cose erano legate? Avevo avuto un'intuizione corretta e ne ebbi conferma una sera d'estate, una di quelle sere estive in cui la luce sembra aver sconfitto definitivamente l'ombra e le rondini si esibiscono nelle ultime acrobazie prima di affogare nel mare nero della notte estiva. Nel giardino di Gloria fiorivano i gerani e sbocciavano le rose, inondando l'aria di profumi.
"Saranno mancate a mia madre le sue rose ad Aushwitz?" lei disse, e improvvisamente la sua voce diventò incolore, piatta, in contrapposizione a quell'apoteosi di rossi e verdi e bellezza e pace e serenità che ci avvolgevano. Non osai interromperla e lei continuò dicendomi:" Io avevo quattro anni, ma ricordo tutto: i soldati tedeschi con l'elmetto, il tonfo degli stivali sul parquet lucido di cera, il latrato degli ordini che si confondeva con quello dei cani tenuti al guinzaglio. Fu un'intuizione di mia madre a salvarmi: mi nascose nella cuccia del cane che sembrò capire coprendomi con il suo corpo. Li vidi allontanarsi tra i soldati: mio padre improvvisamente curvo, mia madre tra i miei fratelli, una rosa rossa ancora appuntata sul vestito. Era una sera d'estate com questa, nell'aria lo stesso profumo... Non li avrei più rivisti" (continua... )

giovedì 1 aprile 2010

La passione batte un colpo.

Cosa mi tiene in piedi? I farmaci? Anche, ma penso soprattutto la passione per la scrittura: sì, quello strano sentimento che sta scomparendo dal mondo occidentale. Chissà perché? E allora sento il desiderio di riproporre queste poche righe.
Dov'è finita la passione? E' passata di moda, non si usa più? La passione vera, che ti ingoia in un boccone, ti fa sentire la fame soltanto all'ora di cena, mentre ti stai chiedendo "Ma cosa cavolo ho mangiato a pranzo che non me lo ricordo?" e ci pensi pure su per qualche secondo prima di realizzare che sei a digiuno... Perché la passione è famelica, oggi diremmo bulimica, si nutre di sé, si sazia dell'oggetto del proprio amore. E divora.
Gli amanti spesso sono magri, quasi febbricitanti, in preda - il linguaggio è significativo direbbe Lacan - al desiderio, l'altra faccia della passione, che non è voglia, ambizione, simpatia o attrazione. E' una domanda che non può essere elusa, è tuono, boato, urlo, attesa che si fa spasmodica rendendo il tempo lento come la Quaresima. Se passione d'artista è brama di perfezione, irraggiungibile ma perseguibile. E' marchio di diversità, è giogo a cui si deve sottostare. E' la schiavitù che aprirà le porte della Terra Promessa.
Circola? La cogliete in giro? O ne cogliete soltanto la recita stantia?
Ti chiede l'anima, il tuo tempo, la tua forza, il tuo talento; in cambio cosa ti dà?
Non c'è scambio: può darti tanto, poco o nulla: è un patto leonino che nessun codice regolamenta. E' dare senza avere, è fare senza chiedere, è velegggiare nei grandi spazi senza paura.
In un mondo dominato dal denaro è fuori luogo, imbarazzante, sguaiata. Imprevedibile, quindi temibile. Se non è presa a piccole gocce è un veleno. Comprata, diventa l'ombra di se stessa, il fantasma dell'Opera, la museruola per un cane, il déjà vu. Quella che ci circonda della passione vera è solo lo sbiadito ricordo.