domenica 31 gennaio 2010

Giallo virtuale

Oibì, oibò! 20 punti di retrocessione. Altro risultato eccezionale per me che ho provato l'emozione di 2000 punti in meno in un sol botto! Non scrivere premia perchè rallenta la discesa. A quando un risultato invariato e, soprattutto, sulla base di quali parametri?

sabato 30 gennaio 2010

Scherzi virtuali

Per venerdì 29 gennaio 27 punti di retrocessione soltanto! Era da mesi che non ottenevo un risultato così soddisfacente: più si sta fermi, meno si viene retrocessi. Il miracolo insperato di una pausa di riflessione.

giovedì 28 gennaio 2010

Come ti muovi ti fulmino... Ma anche se stai ferma...
(retrocessione di 53 punti su Blogbabel...)

mercoledì 27 gennaio 2010

Shoah

Quali parole pssono descrivere la shoah? Quali suoni? Quali colori?
Ci vorrebbero parole nuove che io non ho.
Tintinna come un bicchiere di cristallo la paura? E la vergogna? E' muta?
Piangevano in quei carri bestiame? Qualcuno avrà pregato, altri imprecato...
Poi fame, sete, stanchezza avranno affogato i sentimenti, consentendo soltanto bisogni: i più elementari. Qualcuno sarà rimasto incollato a una fessura, a sbirciare la vita: il lampo verde di un prato, un ritaglio di cielo, un viso di donna volato via così in fretta da far credere di averlo sognato.
E dentro , penso, la consapevolezza che non avrebbero fatto ritorno. Nera, incombente e forse taciuta. Per dare e darsi un'ultima speranza...
(50 punti di retrocessione in Blogbabel...)

lunedì 25 gennaio 2010

Oibì, oibò anche gli ultimi nel loro piccolo si...

Oibì, oibò
a Blogbabel qualcuno sbagliò
per coerenza non si può
il punteggio incrementare
a chi all'ultimo posto deve arrivare
e,
se da mesi ruzzola giù,
gli spetta un meno, non un più

oibì oibò
già che ci siete
santa pazienza,
... in evidenza,
poiché mi ospita
con troppa frequenza,
ritengo ci sia una
doppia valenza

metter conviene un fiocchetto
un merletto, un qualsiasi
pennacchietto per indicare
quand'é che evidenzia
dei somari come me
la presenza

Con ossequiosa riverenza
mi inchìno
a vostra eccellenza.
(59 punti di retrocessione in blogbabel...)

domenica 24 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Era uscita dall’ospedale e aveva spiegato ai bambini che sarebbe partita per alcuni giorni. Al marito, con insolita fermezza l’aveva comunicato, non chiesto.

Il treno correva veloce quasi volesse sfuggire all’ombra delle strette valli del retroterra ligure dove il sole entrava a stento e al buio delle gallerie che una dopo l’altra aveva attraversato fischiando. Ora la linea ferroviaria si snodava lenta, costeggiando il mare e seguendo le sinuosità della costa. Gabbiani bianchi svolazzavano emettendo rochi stridii, qualche bagnante, pur essendo solo aprile, stava disteso al sole, le gambe che sbucavano dai pantaloni arrotolati. Un cane correva, ubriaco di sole e libertà, sulla spiaggia. Lodovica si riempiva gli occhi di azzurro e, abbassato il finestrino, con il permesso del viaggiatore seduto davanti a lei, respirava quell’aria aspra di salsedine che le penetrava nei polmoni portandosi via il grigiore e la nebbia della pianura padana.
Aveva bisogno di leggerezza per andare, per camminare, pochi passi o un percorso più lungo. Non aveva importanza.
Cosa c’era oltre la curva?
Si sentiva come una scolara che avesse bigiato la scuola
Ancora mare?
E oltre alla seconda curva?
Non bisogna smettere di cercare.
Un modo, un tempo per dimenticare, da qualche parte ci sarà?
Dovrà pur esserci.
Si sentiva come quel cane.
Ubriaca di libertà.



E’ buio, e non voglio svegliarmi. Serro le palpebre, se potessi le incollerei per non aprirle, per non vedere.
Mi tappo le orecchie: le voci, alterate, mi strappano definitivamente al sonno.
Poi, i tonfi.
Mastico il gusto amaro della paura. Mi entra nel sangue e arriva al cervello.
Rimbomba.
Non posso scappare, non c’è un solo posto dove andare di notte, al buio.
Le gambe mi tremano, di freddo e di paura.
Mi tremano sempre più forte. Mi uccideranno?
C’è qualcosa che suona: un rumore insistente, lacerante.
“ Svegliati Lodovica “.
Di chi è questa voce, la conosco, è una voce che mi riporta indietro. A tanto tempo fa. Ma io gli occhi non li apro.
Ho tentato di alzarmi, mamma, ma non sto in piedi, sto malissimo. Non è che non voglia…non posso aiutarti. Singhiozzo.
Mi dovete spiegare perchè sono di nuovo qui, in questa casa buia, fredda, in questa prigione senza sbarre dalla quale non posso scappare.
Il suono lacerante non dà tregua.
Apro gli occhi.
Intorno a me mobili estranei. Una lama di luce chiara filtra dalle imposte socchiuse.
Il trillo della sveglia continua, monotono, a tagliare il silenzio.
E’ stato un incubo.
E’ stato soltanto un incubo.
Mi passano per la testa, mi rimbombano dentro frasi sconnesse, mentre a bocconi, a morsi recupero me stessa.
Recupero i pezzi della donna che sono diventata, recupero la mia dignità, ma anche quella fragilità che mi è propria, che non posso, non voglio più negare.
Mi alzo, vado in cucina e accendo la radio.
Dalla finestra intravedo il cielo, la giornata si annuncia serena.
Esco sul terrazzo, mi avvolgo in una coperta e sorseggio il mio caffé, mentre il giorno sfugge silenziosa alla stretta della notte. Il panorama davanti ai miei occhi è ampio: cielo e mare si fondono all’orizzonte in un azzurro indistinto. Gli stridii rochi dei gabbiani punteggiano il silenzio cadenzato dal mormorio della risacca.
Sulla seggiola, accanto a me, “La recherche du temps perdu“. L’ho finito ieri, il libro. Appena cominciata è invece un’altra e ben più impegnativa ricerca.
E’ da lontano che devo ripartire: è da quel grumo di dolore e di rabbia inespressa che devo iniziare.
Ho l’indirizzo di uno psicologo.
L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio.
Ieri ho sentito i ragazzi. Il padre ha portato Alessandra da sua madre...
I ragazzi erano disorientati, attenti alle parole che usavano.
Ho sentito una fitta di rimorso, una pugnalata nel ventre e ho capito che mi sono massacrata a sufficienza. Sanno che sono la mia vita, il mio orgoglio, il sangue che mi scorre nelle vene e la mia allegria. Non possono raccontarsi balle. Nemmeno io. Non potrò essere una buona madre fino a quando non avrò guardato in faccia i miei demoni, uno a uno, accettando di convivere con loro.
Un passero tenta una manovra di avvicinamento. Gli allungo una briciola di pane.
Esita, avanza e indietreggia, combattuto tra fame e paura. Cosa prevarrà? Dipenderà dalla sua voglia di vivere, dalla sua fame di vita.
Afferra la sua briciola e prende il volo.
Prende il volo e va’.
Come me. (Fine)

sabato 23 gennaio 2010

Destino

"Il destino è cieco" mi disse, il primo giorno in cui lo incrociai, in quella Milano convulsa, intrico di strade e follia di ingorghi. Sembrava seguirmi, io lo controllavo con la coda dell'occhio. Forse volevo soltanto una conferma, era un periodo difficile, quello in cui una donna non è più giovane, ma non è ancora vecchia e in quel non essere si concede di esistere, per una volta fuori dagli schemi.
Poi, lui mi avrebbe detto: "Non ti seguivo; ti notai perché mi tenevi d'occhio, attenta come un borseggiatore inchiodato nella metropolitana alla borsa incautamente lasciata aperta da una signora un po' svagata".
Non mi sorprese: ora non ero più giovane, ero definitivamente e sicuramente vecchia: al posto del viso intatto una saggezza greve nella sua solidità.
" E' da tempo che il destino mi ha impietosita..."
Mi guardò, ottuso.
Gli sorrisi:"Gli prestai i miei occhi quel giorno perché ti portasse da me".
"E i tuoi?"
"A cosa mi sarebbero serviti? A guardare fingendo di non vedere? Volevo averti senza assumermene la responsabilità".
Tossì, imbarazzato.
"Come hai fatto a capire?"
Risi piano, lo vedevo imbarazzato e confuso anche voltandogli le spalle. Avrei potuto descriverlo: dalla sigaretta stretta tra le dita nervose allo sguardo incerto, alla cravatta dal nodo largo per deglutire in fretta qualunque boccone, anche il più indigesto.
"Capire che cosa?"
Sentii il suo sollievo diffondersi nella stanza mentre il tono della sua voce ritrovava l'abituale sicurezza.
La verità è greve, pesante come la saggezza, pensai. Macigni ad inchiodare i sogni al terreno. A me bastava volassero, ancora, almeno per una manciata di mesi.

venerdì 22 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

E passarono anche quei primi giorni successivi all’intervento. La sventagliata di proiettili che l’veva colpita non aveva leso organi vitali. Miracolosamente. Il suo corpo si riprendeva, avevano ricominciato a darle da mangiare, si era alzata dal letto, era arrivata da sola fino al bagno.
Davanti allo specchio, posto sopra al lavandino, aveva osservato, stupita, quel pallido fantasma che la fissava con occhi straniti. Quanto era dimagrita? Sembrava una vecchia bambina, pallida e sottile come un fuscello. Perché aveva permesso...? Che cosa aveva permesso?
Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare. Sua madre era entrata silenziosa, con quel passo attento, esitante, che non le aveva mai visto, le mani che s’intrecciavano nervose mentre le si avvicinava osservandola con attenzione.
“ Sei magra da far paura “.
“ Sembrerò più giovane “ le rispose, ironica.
Poi si era alontanata con quell’andatura incerta, traballante che non accennava a migliorare. Aveva percorso tutto il corridoio, arrivando davanti a una finestra. Sbirciando fuori, aveva intravisto il giardino dell’ospedale che affiorava, spoglio, da una nebbia azzurrina, i rami degli alberi che disegnavano intorno ai tronchi lucidi di pioggia una ragnatela leggera che spezzava la monotonia del luogo. A tratti, invasivo, l’urlo di una sirena spezzava il silenzio dell’ospedale.
Lodovica aveva appoggiato la fronte sul vetro della finestra, provando una sensazione di freschezza. Giovanni era venuto soltanto una volta ed era rimasto a guardarla in silenzio, l’occhio che correva all’orologio. Non avevano più nulla da dirsi. Si mordicchiò un labbro, pensosa. Aveva bisogno di un marito? Stava ponendosi la domanda in modo sbagliato. Desiderava un marito? Ne aveva già avuto uno e erano stai anni durissimi. Cosa desiderava? La testa le si vuotò, di colpo, e incominciò a sudare freddo.
Avrebbe voluto tante cose.
Quali?
Non lo sapeva.
Allora provaci, dai! Quella voce le martellava dentro, ostinata!
Prova, anche se è difficile dopo tanti anni passati a fare piazza pulita dei propri desideri e spesso addirittura dei più elementari bisogni. Vorrei essere capita e… rispettata? Soltanto rispettata? Aspetta che ci arriviamo, disse a se stessa e poi aggiunse:”Osa, osa per una volta! Trova il coraggio di dire ciò che vorresti.” E dal profondo, come una bolla d’aria che salisse nell’acqua a conquistare i suoi spazi di cielo, salì quel desiderio antico, aspro e mai soddisfatto. Avrebbe voluto essere amata con l’intensità con la quale lei sapeva amare. Avrebbe voluto riemergere dall’anestesia e vedere Giovanni accanto al suo letto, preoccupato soltanto di starle accanto, di farle sentire che c’era e ci sarebbe stato sempre. Al suo fianco ad affrontare insieme le difficoltà. Era stanca di rapporti contenuti, dosati con il bilancino, filtrati attraverso convenienze di comodo e opportunismi più o meno dichiarati. Perché si era sempre accontentata? Perché non aveva preteso di più? Era vissuta affettivamente di briciole, era sopravvissuta riconoscente come quei bastardini, raccattati nei canili, che leccano la mano a chiunque non li prenda a calci nel didietro.
Quel primo desiderio che aveva trovato la forza di esprimere aveva dato la stura al marasma che aveva sempre compresso, tenuto nascosto, reso muto e sordo.
Pensò che avrebbe avuto voglia di ballare, di nuotare, camminare su una spiaggia deserta nel silenzio di un giornata che muore, guardando il sole accucciarsi nell’acqua all’orizzonte... Voleva riempirsi gli occhi di colori. Erano anni che quei colori mandavano bagliori dentro di lei, erano anni che lei chiudeva gli occhi per non vederli, che filtrava attraverso un grigiore indistinto la sua fantasia, la sua creatività, negandola e negandosi. La vita è un dono, è preziosa, un secondo d'incertezza a un angolo di strada, quel pensiero che ti attraversa la mente "Sì, passo prima in banca" e la tua vita va in pezzi davanti alla pistola di un bulletto che gioca a fare il Bandito, o alla sventagliata di proiettili di una testa di c... diciamo cuoio.
Scoppiò in una risata, poi, sfinità scivolò nel sonno. (continua...)

mercoledì 20 gennaio 2010

Dal diario di un' ipocondriaca.

Il battito cardiaco accelerava. Implacabile. Sentivo il tu, tu, tuuu del telefonino.
"Rispondi, Cristo, rispondi...Sei un medico, non un venditore di detergenti per la casa".
"Si?"
"Sono io dottore... "
"Ah, buongiorno. Come andiamo?" con la flemma abituale.
"Male!" balbetto
"Che problemi ha?" chiede come domandasse nome, cognome e codice fiscale.
"Tanti ma oggi... "e la testa mi si è già vuotata e veleggia verso la morte e l'incontro/scontro con il Paradiso, o più probabilmente l'Inferno.
"Oggi?" cortese ma svagato, con lo stesso tono con cui chiederebbe a un bambino il suo nome senza fare lo sforzo di ascoltarlo.
Emetto un respiro da asmatica, tanto per fargli capire la gravità della situazione.
Non dà segno di vita, io ripeto il respiro strozzato e ansimo un "Non respiro... "
"Da quando?" chiede, stesso tono di voce.
Come sarebbe da quando? E che importanza ha? Bastano pochi minuti per morire soffocati. E se continuerà questa inutile telefonata risolveremo in fretta il problema.
"Be'... " prendo la cosa alla larga per fargli capire che...
Riesce a venire allo studio?"
"Tenterò" rispondo.
"L'aspetto" e sbatte giù il telefono, senza suggerire un qualsivoglia intervento, un farmaco da usare in queste emergenze, se la situazione dovesse peggiorare. Anche se mi sembra altamente improbabile che possa esistere qualcosa di peggio di ciò che sto provando.
Arranco furiosa tra sciarpe, berretto, borsa, elenco dei farmaci che prendo, telefonino (non si sa mai che debba chiamare il 118 per un ricovero urgente) e dopo aver lasciato scorrere lo sguardo sulla casa (che io non rivedrò mai più) raggiungo il suo studio. Mi fa passare immediatamente, mi ausculta da tutte le parti, misura la pressione, la frequenza del battito e poi ausculta il cuore.
Sembra perplesso.
Scuote la testa.
Lo sapevo: infarto, anche se non c'è il dolore al petto, si tratta di un infarto.
Silente, come la neve che ha cominciato a fioccare e che intravedo dalla finestra.
Come il suo silenzio che non oso spezzare.
"Tachicardia... " dice pensoso.
"Da infarto?" chiedo anzi constato.
"Da ansia" conclude.
Avrei voglia di baciarlo in fronte, ma un pensiero, come una nuvola sul mare che può portare l'uragano, mi attraversa la mente.
"Se si fosse sbagliato?"

lunedì 18 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

No, non erano le stelle a urlare nella notte; era il rapinatore con la faccia da ragazzino, era suo quel gorgoglio che si perdeva tra gli spari e l'esplosione dei vetri infranti che ricadevano come una pioggia d'argento sul pavimento. Altri colpi secchi, ravvicinati, mentre qualcuno la tirava su. "E' tutto finito! E' tutto finito!"
Le gambe non la reggevano, scivolava su qualcosa di molle, denso. Entrava la luce delle fotoelettriche, forando il buio e rivelando la devastazione del locale, il sangue che mischiandosi ai vetri circondava i corpi dei rapinatori... e la seguiva , passo dopo passo. Una scia di sangue, mentre un sipario rosso le calava davanti agli occhi. "Portate una barella, Cristo!"
Poi, il buio.
Si svegliò sentendo quella voce, insistente, petulante: "Svegliati Ludovica, svegliati... Svegliati!" Aprì un occhio a fatica e intravide dei fantasmi verdi che si muovevano intorno a lei. Ma dov'era? Ricordava gli spari... ah la rapina e l'intervento, il blitz, blit...z.
Di nuovo la voce petulante: "E' andato tutto bene". Cosa voleva dire?
Poi sentì cigolare le ruote della barella. Il dolore arrivava a ondate senza che riuscisse a localizzarlo. Era stata ferita durante la sparatoria, ma dove? Stava morendo? Chi era quella donna che la stava guardando, le afferrava una mano borbottando qualcosa, qualcosa che non capiva.
"Ludovica è stato terribile... "
"Mamma?"
Cosa ci faceva sua madre lì? E anche Giovanni si chinò sulla barella.
"Tutti fuori, tutti fuori. Lasciatela riposare... "
Scalpiccio di passi fatti in punta di piedi.
Poi, silenzio.
Seguirono lunghe ore di dolore spezzate da quelle immagini che la sua mente partoriva a getto continuo: era lei quella bambina che si fermava ad ascoltare, l'orecchio alla porta d'ingresso degli appartamenti del caseggiato dove viveva? Perché? Voleva sentire l'odore, le parole della normalità. Lei non la conosceva.
Altra iniezione.
"Ora starà meglio, la prima notte è la peggiore"
Il peggio lo conosco.
Il peggio lo conosco.
E' un ritornello martellante.
Se ne esco viva e... intera, vivrò in un altro modo.
E' un sogno, una speranza, un'illusione?
E' un progetto - pensa e, finalmente, cede al sonno.

domenica 17 gennaio 2010

La passione del narrare

Leggo su internet consigli per scrittori inesperti che, se nulla possono togliere alla mia passione per la scrittura, mi fanno riflettere sulla "vocazione" dello scrittore, sulle modalità con cui si manifesta, sulla difficoltà che incontra chi voglia tentare di ingabbiare entro parametri rigidi l'impalpabile leggerezza di una passione, com'è, appunto, quella del narrare...

Ho trovato anche un blog in cui si afferma che la scrittura nulla avrebbe a che fare con la lettura.
Io ho sempre pensato che ogni scrittore si portasse addosso come caratteristica genetica il vizio della lettura, una smodata dipendenza dalla carta stampata, e non soltanto perché hanno in comune, lettura e scrittura, la parola (mi si potrebbe obiettare che è potente mezzo di comunicazione anche verbale) ma perché la parola scritta è diversa... Come? Come una donna nuda o vestita, che sempre donna è, ma se vogliamo entrare nel complesso gioco della seduzione e della schermaglia amorosa la dobbiamo coprire, non per proteggerla dal freddo, ma per sollecitare l'immaginario che dell'abito si servirà, come lo scrittore della parola, quale mezzo, accesso alla fantasia e all'imprevedibilità dell'erotismo rispetto alla prevedibilità della sessualità.

Chi scrive ama le storie, i racconti, le fole che ha sentito dalla voce di sua madre o che ha letto. E i cartoni animati, la tv o il cinema, moderni dispensatori di illusioni fiabesche? Be', li ha visti, ma lui, il potenziale scrittore, non se la beve così come gli viene raccontata. E' persona alla quale la storia, come la vita d'altronde, non basta. Deve cambiarla, inventare un finale diverso, immaginare un personaggio che, creato su due piedi, entri in gioco sparigliando il tutto, altrimenti che storia/vita sarebbe? Il lettore e potenziale scrittore può essere dominato soltanto dalla bravura dello scrittore e, comunque preferisce immergersi nella storia, piuttosto che esserne sommerso poiché le modalità, i tempi e le pause della lettura, le decide lui, contrariamente a quanto avviene sul piccolo o grande schermo. Per questo motivo privilegia e ha privilegiato il libro, perché gli permette d'interagire con lo scrittore, criticare, rimuginare....

Per quanto attiene alla tecnica narrativa è importante, ma segue, come la polvere sulla scia di un refolo di vento, la scoperta della passione narrativa.

Ciò che vero non è deve però essere verosimile e, quindi, rispettoso dei nessi logici che legano eventi e personaggi nel loro interagire. Siamo d'accordo, ma le rotte sul mare sono o potrebbero essere infinite ed è questo bisogno di spazi illimitati che spinge uno scrittore a prendere il mare, a navigare come Colombo alla cieca, a rischiare un naufragio per soddisfare la sua insopprimibile curiosità. A mio avviso, imparerà a navigare sulle ali della fantasia, e questa sarà il suo vento in poppa anche se, come con il vento le vele, dovrà essere contenuta e domata. Che vuol dire tenuta al guinzaglio non alla catena, perché se si può apprendere la tecnica narrativa, quel mix di infantile potenza/prepotenza, scatenata immaginazione, arrogante presunzione e insopprimibile curiosità che alimenta il narrare non può essere ingabbiato, soltanto filtrato depurandolo di ciò che lo ha reso nostro per restituirlo al mondo come sentimento universale. Poi seguirà la fase tecnica con i suoi tempi, la fatica, la lettura e rilettura, la sintesi che si ottiene tagliando...

Lo scrittore non è fatto soltanto di controllo e competenze. E la passione? Viene data per scontata? Ma il miracolo e/o mistero è proprio la passione narrativa con la sua incontenibile esplosione di genialità, il resto è acquisizione di regole, necessarie anche se faticose e queste sì uniformi e standardizzate.
Che stanno lì in attesa di... un colpo di genio che le azzeri?
Scherzo, ma non del tutto.
Voi cosa ne pensate?

Racconto a puntate (La vita cambia)

Avevano lasciato entrare un ragazzo con un carrello: acqua e pizze. Era un poliziotto, la faccia meridionale come l'accento e i riccioli scuri dietro a quel grembiule da garzone nuovo e immacolato, ancora impregnato di appretto, che non poteva ingannare nessuno. Aveva cercato di prendere tempo aprendo i cartoni delle pizze, ma i due rapinatori l'avevano spintonato fuori, urlando parolacce, più per rassicurare se stessi che per spaventarlo. Ludovica aveva addentato la pizza deglutendone a stento un boccone, poi si era limitata a buttare giù un sorso d'acqua. Manuela al suo fianco ingoiava lacrime e pizza Margherita in bocconi lenti come i suoi singhiozzi. Parlare era impossibie: il più violento doveva essere affetto da mania di persecuzione, appena sentiva una parola impazziva come se tutti sparlassero di lui. E questa consegna del silenzio, obbligava a pensare...
"Non devo fissarmi sui bambini, non devo" si ripeteva Ludovica, meccanicamente ruminando quella frase tra i denti come se pregasse.
Le lancette dell'orologio affisso al muro scivolavano lente e il silenzio era rotto solo da quelle telefonate di mancati accordi che facevano imbestialire i rapinatori liberando la loro paura che rimbalzava sui volti terrorizzati degli ostaggi. Il cassiere, un ragazzo che avrà avuto la loro età, aveva tentato un approccio, scatenando la rabbia di quello dei due che aveva sparato, e c'era mancato poco che non ammazzassero anche lui. Ora se ne stava semisdraiato sul pavimento, ruminando paura e rabbia, il sangue incrostato sul labbro gonfio e spaccato.
Le prime ombre della sera incupivano l'aria,velando d'ombra il volto di Ludovica. La sua vita le passava davanti agli occhi ridotta a una carrellata di immagini: lei bambina al suo primo giorno di scuola, il primo bacio, lo scambio di accuse con la madre in quella sera d'estate in cui era rientrata tardi... I riccioli sfatti che le danzavano intorno al viso, nascondendo occhi di ragazza diventata donna. Che madre era? Chi? Lei o sua madre? Doveva capire, trovare il bandolo della matassa, risalire alla causa di tanta infelicità. Ma ora era tardi. Non è mai troppo tardi per capire... per affrontre i propri demoni, ringhiosi, invecchiati in un angolo del cervello, dmenticati come bambini lasciati in castigo dietro alla lavagna. L'angoscia le montava dentro, le urlava la sua condizione di abbandono, era un dolore antico che le mordeva l'anima, in quella landa desolata, nera come le notti d'estate... Ma qui ci sono stelle. Scoppiano come fuochi d'artificio. Urlano. Le stelle? (continua...)

sabato 16 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

"Era all'esterno una casa non dissimile di molto da altre che, proseguendo lungo la strada, si sarebbero potute incontrare. Dentro però... si entrava in un atrio piccolo con uno specchio incorniciato di legno colorato di azzurro e disseminato di violette. Sotto, un cestino di un viola più scuro conteneva degli ombrelli. A destra tre gradini portavano all'atrio vero e proprio della casa su una moquette azzurra: un vecchio baule dalle borchie in ferro sembrava galleggiare su quell'azzurro. Sulle pareti bianche, monacali, una serie di disegni infantili, incorniciati, si rincorrevano... ".
Cercava di non guardare quella pozza rossa che si allargava sotto il corpo dell'uomo che, alla sua sinistra, giaceva scomposto sul pavimento...
"Le porte, le porte della casa della sua migliore amica erano viola e sulla parete del soggiorno una nave, le vele gonfie di vento, navigava baldanzosa verso l'ignoto". Ci uccideranno tutti - pensò - guardandosi le mani appoggiate in grembo e meravigliandosi che non tremassero. Ci uccideranno, ci spareranno come hanno fatto, uccidendolo, con il funzionario dell'Ufficio Titoli: cancellandogli dalla faccia quell'occhiata soddisfatta in una smorfia di stupore prima che di dolore. Quei due cretini, che si aggiravano ora come leoni in gabbia continuando a puntare l'arma sullo sparuto gruppetto degli ostaggi, avevano saltato il fosso, diventando due assassini.
"Se ne uscirò viva, dipingerò d'azzurro la casa" - pensò e, voltandosi verso la signorina Gabuzzi, le sussurrò:"Come si chiama?"
"Gabuzzi" rispose la donna e la voce le si spezzò.
"Di nome. Non vorrà che la chiami Gabuzzi" disse Ludovica.
"Manuela".
"Silenzio! Fate silenzio o sparo!" urlò uno dei due uomini, alzando minaccioso l'arma mentre un silenzio carico di tensione scendava sul locale. Ludovica notò il tremore delle mmani e il sudore che gli inumidiva la fronte e il labbro superiore. Si muoveva a scatti come un giocattolo meccanico, negli occhi affiorava una sorta di meraviglia. Sulle guance pallide, mal rasate, qualche foruncolo arrossato gli dava un'aria infantile.
Lo squillo del telefono percorse l'aria. Insistente. Uno dei banditi rispose:"Sì, sono stato costretto a sparare, provate a intervenire e li faccio fuori tutti."
Poi snocciolò le sue richieste e dopo un attimo di silenzio aggiunse:"Sì, una donna... " e, rivolgendosi a Ludovica le chiese:"Nome?"
"Ludovica Sartori" e quel suo nome le sembrò estraneo, come se non le appartenesse. Il giorno dopo, nell'articolo sulla Gazzetta locale, avrebbero indicato con le iniziali elle e esse una delle due donne adagiate sul tappeto color porpora e avrebbero intervistato suo marito: qualificandolo con quell'assurdo aggettivo: "affranto"? (continua...)

venerdì 15 gennaio 2010

Barak, uomo dei sogni non delle illusioni...

Me lo vedo, il volto serio, l'occhio attento mentre ascolta i suoi consiglieri economici che snocciolano utili ottenuti e compensi elargiti dalle maggiori banche americane ai loro top manager. Me lo vedo Barak Obama interrompere l'arida elencazione dei numeri e dire: "E' indecente!" Sì, perché il Presidente si indigna: da presidente, da politico e... da uomo.

Il Paese vive ancora le ferite profonde di una crisi in buona parte imputabile alle banche (alla quale, però, non è estranea la politica del suo predecessore che ha consentito lo smantellamento della normativa di controllo sull'operato bancario), la disoccupazione è ancora alta, molti americani vivono nelle roulotte perché hanno perduto la casa, e il sistema finanziario-creditizio stappa lo champagne e incassa compensi miliardari?

Era già sceso in campo il Presidente, facendosi portavoce di un intervento di moral suasion incentrato sulla prudenza e sul sostegno del credito all'economia, ma le banche non l'avevano recepito. E lui ha caricato la dose. Vogliono sfidarlo? E lui accetta la sfida e promette ai suoi elettori che tasserà le maggiori banche e restituirà ai contribuenti americani quanto hanno versato per i salvataggi bancari. Ovviamente una nuova normativa stabilirà limiti all'operatività bancaria per evitare la reiterazione dei comportamenti che hanno portato il Paese sull'orlo di una crisi senza precedenti. Si profila la nazionalizzazione del sistema finanziario, la creazione di una Bad Bank alla quale far affluire i titoli tossici...

Il Presidente fa qualcosa di assolutamente nuovo e quindi "rivoluzionario": tiene fede alle promesse fatte e dice la verità dimostrandoci che non siamo stati degli illusi a credere in lui.

Stridente risulta il confronto con la politica italiana che ci sta facendo assistere a una sorta di pantomima su uno dei punti più importanti del programma elettorale: la promessa di ridurre le tasse ai cittadini, che si sta rivelando pura propaganda elettorale, ritornello ricorrente nella musica di un pifferaio magico che è stato capace di alimentare soltanto illusioni. J9CXBG26C8HH

giovedì 14 gennaio 2010

Leggendo Riotta

La mia conoscenza della rete è passata attraverso il blog come un filo attraverso la cruna di un ago. Era ottobre e la luce aveva quella tonalità calda e sfumata che i pittori amano, mentre il neurologo del “Besta” mi comunicava l’esito delle analisi appena concluse: non era “sindrome da nido vuoto” né erano “paturnie” da menopausa. Era una malattia neurologica, una di quelle che fanno tremare le vene ai polsi…

Io lo ascoltavo distratta da quella luce, cercando di annullare la sua voce nella speranza di sommergere lui, le sue parole e la sua diagnosi in fondo, più in fondo ancora nel pozzo nero della mia paura. Fuori dallo studio c’erano i figli, le facce lunghe, il sorriso tirato a prendere atto che quel muro che li aveva difesi dal mondo non c’era più. Crollato, non avrebbe più sorretto, ma avrebbe richiesto un sostegno.

Lasciai Milano, troppo caotica e inadatta alle mie gambe che si erano fatte fiacche e lente. Mi trasferii in una cittadina dell’Emilia, dove viveva mia figlia. Scivolai in un inverno che non dimenticherò: corte giornate che la nebbia rendeva opalescenti, estranee. La gatta acciambellata sulle mie ginocchia, lo sguardo che vagava su libri che non leggevo, cd che non ascoltavo. Sullo sfondo gracchiava il televisore e danzavano figure in movimento di cui coglievo soltanto la ricchezza cromatica rispetto all’azzurro mare della parete. La terapia scivolava su di me come una marea sulla spiaggia: inutilmente ripetitiva.
Pensavo.

Pensavo alla mia vita data agli altri: ai figli che apparivano e, spaventati, sparivano come meteore, agli alunni che avevo seguito con passione, sciroppandomi una materia che non mi era mai piaciuta ma che, con puntiglioso senso del dovere, avevo seguito aggiornandomi, alle domeniche e feste comandate passate stirando, lavando e cucinando nonché tentando di arginare il disordine che tre ragazzini si trascinano dietro come una stella cometa la coda.

Pensavo e lentamente morivo. Di malinconia che stava diventando disperazione. Poi, come ho già raccontato, la gatta entrò dalla finestra in cantina e non riuscì a uscire. Miagolò fino a mettermi sulle sue tracce. Acciambellata sullo scatolone ancora chiuso che conteneva il vecchio computer dei ragazzi, mi fissò. Risalimmo in casa in tre: lei, il computer e io.

Poi tutto cominciò ad andare a passo di carica: imparai a usare il pc anche se male e continuando a commettere errori. Cominciai a scrivere, scoprendo che era ciò che avrei voluto, ma non avevo mai potuto fare. La scrittura si rivelava una passione e delle passioni aveva la forza travolgente: la terapia cominciava a fare effetto e la passione urlava più forte della malattia, ne sovrastava la voce annullandola. Annullandola no, ma contenendola, fiaccandola, facendola avanzare a piccoli passi cauti, incerti.

Sarebbe da approfondire l’impatto della rete sui complessi meccanismi mentali delle malattie neurologiche.
E se la produzione di endorfine desse una mano ai neuroni? In fondo, da sempre la malattia è la risposta del corpo alla disperazione. Perché non dovrebbe essere vero il contrario? Leggere un giornale, sciropparmi Gianni Riotta, avrebbe avuto lo stesso effetto? Ne dubito. Vecchia e malata ho trovato su internet quella terra così a lungo cercata che ormai pensavo esistesse solo nella mia fantasia. Opportunità, confronto, scoperta, informazione e… valenza terapeutica. Se a Riotta sembra poco, a me ha cambiato la vita
Facendomi rientrare, come un certo cammello, sempre attraverso la cruna di un ago, nel mondo dei vivi.

Sulle ali del blog...

Internet ci collega al mondo comunicandocene il respiro calmo o l’urlo, il calore o il gelo che giungono fino a noi sulle ali di quel mirabolante strumento di comunicazione che è la parola. E' la parola il primo aggancio che inchioda la nostra curiosità e fa nascere un'amicizia in rete, miracolo che si rinnova in ogni momento. E’ l’impatto con la scrittura che blocca lo sguardo facendo uscire una persona dalla folla indistinta che, come un fagiolo nel baccello, la inglobava, mentre nel mondo reale è anche la gestualità del linguaggio del corpo, attraverso lo sguardo, il sorriso o il timbro della voce, a falsare o svelare con o senza il supporto delle parole.

Là dove i confini sfumano e la fantasia contamina implacabile abbiamo al massimo una serie di fotografie o la visualizzazione su You Tube a svelare l’immagine, con a monte però una scelta finalizzata al crearla, prima che a darla, questa immagine che ci rassicura con la sua granitica corporeità .

E così le amicizie nate in Rete sono profonde come gli spazi in cui la rete veleggia, cementate da decine di lettere: saranno fiumi di parole, a narrare storie di famiglia, alternati a brevi comunicati, due parole smozzicate che grondano sonno o disperazione, qualche “faccina” ballonzolante, i segni d’interpunzione che invadono il campo aggressivi come tifosi da stadio, a esprimere nella grafica la partecipazione emotiva di chi scrive a ciò che comunica.

La favola della Bella e la Bestia è quella più adatta a rappresentare gli incontri su internet. Ci si difende meno perché si rischia e, quindi, si osa di più. L’immagine di noi falsata, al di là dei veri e propri raggiri, nasce da un sostrato infantile e quindi profondo, dalle stesse motivazioni che hanno reso il Carnevale la festa più allegra e sfrenata nell’aspetto e la più malinconica e struggente nell’anima: il gioco sottile e avvincente dell’essere o apparire, la dicotomia che finisce per essere struttura portante del virtuale.

Quando nasce un’amicizia in rete significa che abbiamo alzato la maschera e ci siamo spogliati del costume, del titolo di studio, dell’orgoglio della nostra professione… Abbiamo lanciato un messaggio chiaro e asciutto come un SOS… Sono qui e sono solo, uomo/donna che guarda il cielo e respira piano e, se qualcuno ha intercettato quel messaggio, è perché ne ha colto non solo la genuinità ma l’essenza più profonda, che a lui corrisponde... Da cosa? Ah, questo è più che un mistero, il mistero! Qual è la complessa alchimia dei sentimenti, delle emozioni?
Scatta il dito sulla tastiera: nere lettere si alzano in volo a cercare altre parole che volano sulle stesse rotte.
Ci si intercetta tra simili…
Anche questo accade in rete e, spesso, è il blog l’angolo di mondo in cui questo miracolo si verifica.

mercoledì 13 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia )

La mattina seguente, dopo aver accompagnato i figli a scuola e all’asilo, si ritrovò in banca, la testa che andava per le sue, lo sguardo sul bancone davanti a lei e sull’impiegata. Ma si stava sentendo male? La fissava la signorina Gabuzzi - ormai si conoscevano - la bocca semiaperta che sembrava cercasse l’aria. Si mosse istintivamente verso il bancone voltandosi a cercare aiuto. L’uomo alle sue spalle aveva gli occhi scuri, occhi di meridionale - pensò, neri come la pistola. La pistola? Per un secondo si chiese se fosse uno scherzo, ma quando l’uomo la puntò contro il suo stomaco, urlandole “Contro il muro, contro il muro… Questa è una rapina…” si rese conto che era tutto vero.
Il rapinatore aveva un complice, anche lui armato. A gambe larghe, le braccia tese davanti a sé, controllava gli impiegati, l’arma che si spostava verticalmente e orizzontalmente nell’aria quasi stesse mimando un esagitato balletto.
Ludovica, ora addossata alla parete, realizzò di essere l’unica cliente all’interno della filiale bancaria. Le venne quasi da ridere: un riso isterico che le salì gorgogliante dallo stomaco alla gola.
Una rapina in quella specie di borgo dove la vita scorreva monotona e lenta, snodandosi tra la piazza principale con il bar, luogo d’incontro degli uomini, e il supermercato che sorgeva dopo le ultime case come uno scatolone caduto dal cielo, dove le donne, sparlando tra un ciuffo d’insalata e una busta di tortellini del marito e lamentandosi dei figli, si caricavano delle borse della spesa e si scaricavano della loro infelicità?
Eppure erano proprio due rapinatori.
L’uomo più asciutto era saltato oltre il bancone, facendo alzare gli impiegati e ammassandoli contro il muro, mentre l’altro arraffava pacchi di banconote scaraventandoli in un sacchetto di plastica.
“Andiamo, andiamo…” gridò quello che teneva il gruppetto degli impiegati sotto la minaccia della pistola.
L’urlo della sirena di un’ambulanza? Venivano per lei? Effettivamente la testa le girava e le gambe la sorreggevano a stento - pensò, mentre lo sguardo le cadeva sul funzionario dell’ufficio titoli e sullo sguardo gonfio d’orgoglio che le indirizzava. La sirena tacque e il silenzio scese sul locale dove i presenti trattenevano il fiato, immobili come mimi su un palcoscenico teatrale.
“Bastardi… Ci hanno beccato! Andiamo!”
Uno dei due rapinatori scoppiò a ridere, forte, ma non tanto da coprire il colpo di pistola. Ludovica chiuse gli occhi e pensò ai figli, mentre il sangue le rimbombava nelle orecchie e il cuore le martellava contro le costole. (continua…)

martedì 12 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Ludovica era tornata a casa dopo aver accompagnata la madre alla stazione, i ragazzini che litigavano sul sedile posteriore della macchina. L’aveva sommersa di parole, valanghe di parole, le aveva detto che non sarebbe riuscita ancora per molto a reggere quella situazione, aveva pianto e imprecato. D’altronde aveva gli occhi per vedere, ma si rifiutava anche soltanto di guardare.
Alla stazione, con il treno che arrivava sbuffando, baciandola in fretta le aveva sussurrato quella frase – che ormai stava diventando un ritornello stantio tra loro – quella frase che non le era né d’aiuto né di conforto: “Gli uomini sono tutti così… ”
Aveva affrontato l’ultima curva, sentendo una fitta di dolore al petto: lo sguardo che registrava l’abituale squallore della stalla cadente, la casa tetra e grigia, il giardinetto attraversato dal viottolo fangoso.
Era arrivata a casa.
Suo marito non c’era. Nemmeno il cane.
La sensazione di solitudine e di abbandono l’avevano presa alla gola.
Era sola sul cocuzzolo di quella collina aspra e silenziosa, in quella casa gelida, a combattere con le mosche, con i figli, con gli alunni, con le stufe, i polli e la disperazione.
Un cielo bigio gravava opprimente e qualche goccia di pioggia aveva cominciato a cadere.
Dov’era suo marito? Un borbottio di tuono aveva rotto il silenzio e la pioggia era aumentata d’intensità, mentre restava lì, senza avere la forza di fare un passo, sentendo che l’umidità, le penetrava nelle ossa. Cristo Santo, ma cosa aveva fatto della sua vita? Come si era ridotta? Elemosinava amore di nuovo e, come sempre, non ne riceveva. A nulla era valso assecondare suo marito, venire a vivere in questo posto dimenticato da Dio…
Un brivido di freddo sulla pelle, il maglione bagnato che aderiva al corpo e la voce dei ragazzi che, già all’interno della casa, la chiamavano, l’aveva riportata alla realtà.
In cucina pane sbocconcellato, due salami decapitati e bottiglie di vino dappertutto. Mosche a volontà.
“Abbiamo fame, mamma. Cosa si mangia?”
Riordinando meccanicamente, aveva preparato la cena.
“Aspettiamo il babbo?”
Aspettiamo il babbo.
Le colline erano già nere contro il tramonto quando arrivò.
Si guardò intorno. Non fece una carezza ai bambini, il suo sguardo la trapassò quasi fosse diventata trasparente.
“Ho già mangiato”disse, prendendo il giornale sportivo dal tavolo.
Lei colse la delusione sul viso dei figli. Lucrezia gli si avvicinò, lui la scansò senza guardarla, senza vederla. Gli chiese qualcosa. Non rispose, forse non aveva sentito.
“La bambina sta parlando con te” disse.
Di nuovo non rispose. Alzò soltanto gli occhi e la guardò.
Cosa le si scatenò dentro in quel momento? Si vide per un istante come lui la vedeva: una donnetta noiosa che gli aveva scodellato tre marmocchi in rapida successione, un ingombro, un fastidio, un gravame di orari, di pranzi e cene con i ragazzini che si facevano i dispetti, favole raccontate a voce bassa, lunghi pomeriggi domenicali passati a sbadigliare davanti al televisore e fuori… il mondo, pieno di persone da conoscere, luoghi dove andare. Donne intriganti con i tacchi a spillo e gli occhi invitanti, altro che lei, trentenne che passava la vita a spignattare, correggere compiti, schiaffata in poltrona in tuta da ginnastica, un libro che la isolasse dal mondo sulle ginocchia. Una che odiava i cavalli, non si muoveva, delicata come le tette delle monache, un figlio sempre in braccio e il sorriso sulle labbra solo tra carrozzine e biberon. Per lui obliqui sguardi di disprezzo e silenzi colmi di tristezza. Lui non era fatto per la famiglia, lui aveva voglia di avventure, di viaggi, di liberà. Lei era la sua palla al piede. L’aveva capito!
Aveva gettato la maschera. Partita la suocera non avrebbe più dovuto fingere. Adeguarsi agli orari della famiglia? Lui la famiglia non la voleva. Gli usciva dagli occhi! L’aveva capito?
Il rifiuto, quello no, non poteva reggerlo. Altri rifiuti le salirono alla gola mentre lui, senza degnare di un’occhiata nessuno, a passi strascicati, andava verso la porta d’ingresso.
La rabbia l’accecò.
Volò il primo piatto, quello con la sua cena, schiantandosi contro il muro.
“Sei impazzita?”
Volò il secondo piatto.
Si riparò, codardo, dietro allo stipite della porta.
Poi si sporse dicendo: “Sei una pazza ister…”
Un altro piatto s’infranse a pochi centimetri dalla sua faccia attonita.
Quando sulla tavola non rimase più nulla lei si fermò, lasciando scivolare lo sguardo sul pavimento
coperto di cocci.
Poi avrebbe ricordato la coda irta del gatto terrorizzato e il lungo pianto spaventato di Alessandra. Aveva saltato il fosso, dimenticando la paura, il rischio di un domani incerto, la prudenza. Sapeva che avrebbe pagato il prezzo di una vita durissima, ma aveva deciso di andarsene, di riprendere in mano il filo spezzato della sua vita, di recuperare la sua dignità.
Rimase sveglia a pensare: tutta la notte.
Accanto a lei suo marito russava, tranquillo. (continua...)

lunedì 11 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Ludovica ricordava ancora la scena dell’arrivo della madre nella loro casa di campagna. Si era alzata prestissimo per rendere tutto lucido come uno specchio e, vedendo dalla finestra la macchina che s’inerpicava a fatica lungo il viottolo rischiando d’impantanarsi, era uscita in tempo per vederla affrontare l’ultima curva, per mano la figlia minore.
Era piovuto molto, un fango molle e limaccioso circondava la casa colonica e rendeva insidiosi i viottoli acciottolati e fangosi.
La macchina aveva frenato, schizzi di fango erano finiti sul grembiulino di Alessandra.
Sua madre era scesa dal taxi con un sorriso impacciato e si era guardata intorno, scacciando con la mano le mosche che si avventavano su di lei, mentre l’orrore le si dipingeva sul viso, notando la puzza di letame che ammorbava l’aria, la stalla cadente e la casa rozza e squadrata che le si parava davanti, affacciandosi sullo stitico giardinetto dove alcune galline marciando impettite devastavano quei pochi fiori che, ancora non si sa come e perché, si ostinavano a sbocciare.
L’aveva aiutata a scaricare le valige: la casa, nonostante le stufe accese, era gelida. Nella confusione del momento, andando in cucina, si era accorta di aver bruciato l’arrosto.
Avevano pranzato, affettando salumi e recuperando qualche fetta d’arrosto: l’atmosfera era tesissima e anche i ragazzini tacevano, pensierosi, sbirciando l’espressione sui volti degli adulti.
Avevano scambiato poche parole mentre tutti mangiavano in fretta, poi Giovanni si era alzato accostando la sedia con violenza ed esclamando:
“Io ho da fare, scendo al paese. Sarò di ritorno per la mungitura”.
“Mi porti con te, babbo?”.
“Non posso” aveva replicato suo marito, con evidente imbarazzo.
Appena uscito il genero sua madre le aveva detto, aspra: “Ma cosa ti è saltato in mente… Perché? Perché questa pazzia di trasferirvi in campagna, improvvisarvi contadini?”
“Siamo appena arrivati…” lei aveva borbottato.
“Con tre figli, cosa puoi fare con tre figli. Te l’ho sempre detto, non puoi dire che non te l’abbia sempre detto! Non era uomo al quale imporre tre figli”.
“Imporre?” lei aveva sussurrato, aggiungendo: “Ci sono i bambini di là, abbassa il tono di voce, per favore…” mentre si metteva un dito sulle labbra, per indurla a tacere.
“Dovevi pensarci prima ai bambini.”
Aveva sperato nel suo arrivo, nel suo aiuto. In quel momento per un abbraccio che le consentisse di sfogarsi, di esprimere la paura, l’umiliazione che provava, il dolore e la rabbia che si alternavano massacrandola, per un abbraccio avrebbe dato qualunque cosa. Mentre le lacrime le strozzavano la gola, pensò "Cristo! Ma non vedi in che condizione sono? Mamma, non lo senti l’odore della mia disperazione. Sono in trappola! Sono in trappola com’eri tu: non vedo vie di fuga”.
Ma sulla cucina, più eloquente di mille parole, era calato il silenzio.
“Ho capito mamma, non ho ancora pagato il conto? Non ho ancora scontato la colpa di essere nata?"



La scelta di vivere in campagna aveva obbligato Ludovica e il marito, per la prima volta dopo anni, a condividere le giornate. Lui la guardava infastidito, una punta di disprezzo in fondo allo sguardo più significativa di qualunque parola. Lei si chiedeva chi fosse quell’estraneo che invadeva la sua cucina trascinandosi dietro i contadini dei dintorni, ridendo in modo irritante e, dopo aver stappato una bottiglia di troppo, dando fondo alle sue provviste.
Strappando ore al sonno, leggeva come una pazza, per capire e forse capirsi, alla ricerca di risposte che aveva già chiare dentro se stessa, ma non trovava il coraggio di ascoltare. Delusa dal marito si attaccavo sempre più ai figli, per i quali ormai viveva e che lui sembrava ignorare.
Sua madre, che aveva deciso di fermarsi per qualche giorno per darle una mano, le ripeteva “Tutti gli uomini sono così” ma quella frase le suonava falsa. Legata a generalizzazioni di comodo, la infastidiva e basta.
“Ti devi rassegnare” aggiungeva, concludendo con quell’ormai a stento sussurrato che faceva assumere al suo viso un’espressione da vinta, da sconfitta, che le gelava il sangue.
Giovanni si era portato in campagna un cavallo, ne comperò un altro. Arrivarono facce nuove, appassionati di equitazione. Arrivò anche una ragazza che lo guardava adorante: lui così fuori dagli schemi, così trasgressivo nonostante una moglie e tre figli. Arrivava in stivali e camicetta, profumata, fresca come una rosa, i pantaloni attillati da cavallerizza che sottolineavano la linea rotonda dei fianchi sui quali lo sguardo di Giovanni, fino a quel momento spento, si posava, insistente, accendendosi di bagliori dimenticati. Parlavano di cavalli e lei pendeva dalle sue labbra. Poi, finita la stalla, partivano e Ludovica dalle finestre della cucina li vedeva rincorrersi lungo le colline chiare di sole o cavalcare affiancati.
Per convenienza, ogni tanto, partivano con qualche amico.
Con i figli aggrappati alla gonna, anzi al grembiule diventato la sua divisa d’ordinanza, cercava con lo sguardo le loro sagome in corsa, precipitando nel pozzo nero della sua solitudine e umiliazione.
Sua madre, evitando di guardarla, chiudeva le imposte sospirando.
Lei le grandinava addosso parole di disperazione. Di rabbia.
Cercava un’alleata.
Sua madre continuava a parlare di rassegnazione.
Poi, una mattina fece la valigia, porse una rigida guancia al genero, l’abbracciò scuotendo la testa e decise di ripartire. (continua...)

sabato 9 gennaio 2010

Lavoratori: cittadini di serie B

I banchieri delle più importanti istituzioni finanziarie, tra cui l'Italia, si riuniscono per fare il punto sulla situazione. Con notevole sussiego, a denti stretti com'è loro abitudine, rilasciano stitiche dichiarazioni, manifestando comprensibile preoccupazione per un debito pubblico in forte crescita. Quello privato, fortunatamente, risulta avere un andamento più virtuoso. Ma cosa nasconde l'arida elencazione dei numeri?

L'aumento del debito pubblico è dovuto sia al salvataggio di alcuni fra i colossi del credito, di cui questi signori occupano lo scranno più alto, sia agli interventi nel settore dell'occupazione a sostegno dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. E il contenuto aumento del debito privato è legato alla crisi industriale che non favorisce certamente gli investimenti, alla contrazione dei consumi, al crollo del credito immobiliare e a una politica di concessione di prestiti più attenta alle garanzie da fornire.

Quindi i registi occulti dello psicodramma a cui stiamo assistendo, dopo aver contribuito pesantemente a provocarlo, ora protestano. Loro? Sì, proprio loro. Si riuniscono a confabulare perché sono scesi i profitti, che l'introduzione dei famigerati prodotti derivati di loro invenzione aveva fatto crescere a dismisura, e perché si profila all'orizzonte una normativa di controllo sul loro operato che li renderebbe meno liberi di scorrazzare a loro piacimento sui mercati finanziari.

Il vertice ha quindi l'obiettivo di elaborare una strategia difensiva dei privilegi bancari e, non a caso, il ministro dell'Economia, Tremonti, punta il dito su di loro. Perché il bisogno di liquidità dello Stato si soddisfa stampando carta moneta, e/o facendo sottoscrivere titoli ai risparmiatori, e/o aumentando le tasse e/o chiedendo soldi alle banche. Non occorre essere esperti di economia per capire la forza contrattuale di cui dispongono i "Signori del Credito".

Troppo grandi e importanti per fallire - causando un inevitabile ma non quantificable "effetto domino" - molte tra le banche partecipanti hanno scaricato le perdite sul bilancio statale, dando vita a degli ibridi di fatto che, pur godendo dei privilegi della società privata, non disdegnano i vantaggi dell'ente pubblico.

La lunga marcia (meglio sarebbe dire il vorticoso balletto) dei prodotti derivati a quale terra è approdata? Non si sono volatilizzati nell'aria e non sono giunti tutti a scadenza. E allora dove sono? Molti dov'erano: nei Fondi d'Investimento, nei portafogli gestiti dalle banche per conto dei loro clienti e... e nei Fondi Pensione. Con questo il cerchio si chiude: i lavoratori dipendenti (gli unici che non evadono le imposte) hanno pagato le perdite della banche e hanno investito buona parte degli accantonamenti del Tfr in prodotti derivati.

Capisco che il presidente del Consiglio volendo adeguare la Costituzione all'attuale realtà del Paese non possa che modificarla. Infatti, il dettato costituzionale parla di eguaglianza dei cittadini...

venerdì 8 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Con quelle scarpe con i tacchi alti, la collana di perle e gli abiti di sartoria sua madre era, dalla testa ai piedi, una donna impeccabile Perfetta. Un filo di rossetto sulla bocca grande, piena e bellissima, e fiori appuntati sul bavero della giacca. Sempre freschi.
Da bambina, lei avrebbe dato l’anima per vedere il sorriso illuminarle il volto, l’allegria riderle negli occhi, ma non c’era stata frase o attenzione o diligente impegno che fosse riuscito a colmare il vuoto di quegli occhi di miele, tristi come laghi d’inverno, cupi come brume, freddi come il vento di tramontana. Quello sguardo aveva decretato non solo la sua incapacità di farla uscire dalla disperazione ma anche la responsabilità di averla imprigionata, come un cane alla catena, a suo padre. Era colpa sua: ancora quasi inesistente, appena un abbozzo di creatura, aveva bloccato la sua fuga. Era sua la responsabilità per quel forzato ritorno nella casa del marito e non c’erano moine che avrebbero potuto modificare la dura realtà dei fatti. Tra sua madre e la libertà lei, ancora lei, sempre di troppo, sempre presente a ricordarle l’impossibilità di ogni tentativo di fuga.
Scrutandola: anche in quel suo sbocciare da bambina a donna, con quello sguardo critico che si faceva opaco mentre gli occhi allungati dalle ciglia fitte diventavano fessure, feritoie dalle quali spiare, assediata dalla rabbia, dal rancore e dalla disperazione.
Cos’è l’amore: accudimento? Pasto pronto, trecce strette, colletto inamidato? Era stata una bambina pallida, il disamore l’aveva resa grigia dilagando sulle sue smorte guance che la madre si ostinava a pizzicare per farla sembrare più colorita.
L’aveva sempre intuito e ora lo sapeva con certezza: senza amore non si cresce, si sopravvive appena come i gerani striminziti sui davanzali del ghetto della sua città, alla ricerca continua di un po’ di sole, un baluginio d’oro al quale le strettissime vie non concedono se non una speranza d’accesso. Così lei aveva cercato l’amore. Ma come si cerca qualcosa che non si conosce?

Scuola mon amour

Una vita, in fondo, si compone di momenti, scaturiti da scelte, che determinano la qualità di quella vita perché la quantità è data soltanto dallo scorrere dei giorni che collegano, in fila come soldatini tutti eguali, un momento all'altro. Un collage d'immagini fissate nella memoria a perenne ricordo di emozioni profonde in cui, per evitare di esserne travolti, l'attenzione si concentra su particolari apparentemente irrilevanti. Per tutta la vita basteranno un suono, un profumo, un sapore a riportarci di colpo a quel momento.
Oggi ho aperto, sulla prima pagina, uno dei libri che ho trovato sotto l'albero di Natale. Un'insegnante la protagonista, e... improvvisamente, socchiudendo gli occhi, sono tornata bambina, ma non solo. Era ottobre. Quella tonalità di luce calda, ma raccolta, che pervade l'aria di un languore d'autunno, filtrava attraverso le tapparelle e sembrava danzare sulla parete. Alla mia sinistra il grembiule, il fiocco e la cartella. Tutto nuovo, lustro per quel mio primo giorno di scuola. E, annidata dentro, la paura di un cambiamento che mi avrebbe strappato all'asilo delle suore, ai compagni che conoscevo, ai giochi sotto il sole nel cortile che lasciva intravedere l'ossatura di due case bombardate.
E quell'odore che annusavo era odore di libri e quaderni intonsi, lo stesso che ritrovavo nello sfarfallio delle pagine fresche di stampa del libro che tenevo tra le mani, ma era anche odore di scuola... La scuola che sarebbe stata il fondale privilegiato - con il suo rituale di campanelle che squillavano a sancirne la cadenza dei tempi e la polvere di gesso che ti entrava nelle narici - di tanta parte della mia vita.
L'ho lasciata così come si lascia un amore, conservando sulla pelle l'estraneità di quell'ultimo sguardo che ci scivola addosso, e che ci riconsegna all'anonimato della folla. Con dolore, ma anche con rabbia. Profonda, e mai più tirata fuori.
Ho scritto in un post su Vibrisse, per la prima volta dopo anni, qualcosa sulla scuola e, oggi, ho sentito di quella rabbia il sapore aspro e la necessità di tirarla fuori per evitare che si depositi come la cenere di un'eruzione vulcanica a sommergere per sempre quella parte, non certo di poco peso, di me e della mia vita che ho dedicato al mio lavoro. Un lavoro difficile, poco riconosciuto, ritenuto (dando prova d'ignoranza) poco impegnativo, sia per la limitatezza delle ore fuori casa, sia perché fatto di chiacchiere...
Quando un'attività lavorativa viene abbandonata in massa dai maschi è segno che è diventata scarsamente remunerativa, di poco prestigio. E' successo anche nell'insegnamento, ma la scuola è un settore delicatissimo: non è soltanto istruzione, è anche educazione che deve afffiancarsi, non potendo però mai sostituirsi, a quella impartita dalla famiglia. I ragazzi, anche i più annoiati, disinteressati e svogliati, guardano noi adulti con una costante e incredibile attenzione. Ci guardano e ci ascoltano, pronti a cogliere immediatamente la discordanza tra le nostra affermazioni e le nostre azioni. Un atteggiamento ingiusto o scorretto li ferisce, anche se paradossalmente lo cercano a parziale giustificazione delle loro scorrettezze. Commetterne, per un insegnante, è molto peggio che sbagliare un esercizio. E' tradirli.
E loro reagiscono come sanno, come possono, con gli strumenti che hanno a disposizione, sottraendosi alla fatica dello studio (perchè l'apprendimento è fatica, è costanza, è ripetitività) con la scusa della scarsa utilità del titolo di studio.
Sanno che trovare un lavoro è ormai come vincere un premio alla lotteria, che l'impegno e le capacità non sono riconosciuti e che sarà il mercato a decidere della loro vita, un mercato finalizzato al profitto (e nella combinazione produttiva la componente lavoro dovrà essere sempre più compressa a livello sia quantitativo sia qualitativo) e inficiato da clientelismi e scandali che i mezzi d'informazione scaricano sulle loro menti che, poco abituate alla revisione critica, si pappano tutto per oro colato. Poco seguiti dalle famiglie, a contatto con un corpo docente che ha tutte le giustificazioni per essere demotivato, vanno alla deriva, come balenotteri destinati a naufragare in acque basse... Non tutti ma tanti, troppi, e nell'indifferenza generale, mentre dagli schermi televisivi Pinocchio, il cui naso anche se fasciato continua a crescere, li guida, come un pifferaio magico, verso il paese, scintillante di luci e promesse, di Bengodi.

mercoledì 6 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Avevano appena saputo che il prezzo del latte per la produzione del parmigiano reggiano era diminuito e che le loro entrate si sarebbero quindi ulteriormente assottigliate; in aggiunta a tutto ciò l’inflazione che in quegli anni mordeva l’economia stava facendo salire a dismisura i tassi d’interesse. Come avrebbero fatto a pagare le rate del mutuo contratto per acquistare il podere? E lei, impegnata con la scuola e i ragazzini, sarebbe riuscita a gestire la casa con il pollaio, l’orto e le stufe che continuavano a non funzionare, facendo assumere agli abitanti della casa un odore di prosciutto affumicato che faceva storcere il naso a chiunque stazionasse nei loro paraggi? Aveva deciso di parlarne con il marito, comunicandogli i suoi dubbi. Il giorno prima aveva fatto un po’ di conti ed era molto preoccupata.
“Entro sei mesi, andando avanti di questo passo, saremo rovinati”, sbottò.
Giovanni la squadrò dall’alto in basso. “Da quando in qua t’intendi di problemi imprenditoriali?”.
“Be’, ho una laurea in economia e commercio, sono in grado di fare un bilancio preventivo” gli rispose esitante.
“Ma cosa vuoi capirne tu? Occupati della gestione della casa, che all’azienda agricola ci penso io!”.
“Stiamo spendendo troppo, siamo in rosso sul conto dell’azienda, le rate del mutuo sono aumentate e…”
“Ti ho già detto di non occupartene e, ti ripeto, per quelle quattro stupidate di cui parli a scuola… Proprio tu dovresti insegnare qualcosa a me!” l’interruppe, palesemente seccato.
Lei rimase in silenzio, la piccola tra le braccia che ciondolava dal sonno, la cucina con il lavello traboccante di piatti da lavare e gli altri figli che reclamavano una favola chiamandola dalla loro stanza, mentre la fatica di quella lunga giornata cominciava a farsi sentire. Senza rispondere al marito, uscì dalla cucina avviandosi lentamente verso la camera dei ragazzi. Mise a letto Alessandra che si era ormai addormentata tra le sue braccia e le rimboccò con cura le coperte.
“Allora mamma ce la racconti una favola?”.
I figli grandi aspettavano.
“Sono stanca morta, ragazzi; ve la racconterò domani” mormorò sedendosi su uno dei loro letti a massaggiarsi i polpacci, indolenziti dalla lunga camminata nel bosco.
“No mamma, hai promesso, hai promesso. Nemmeno ieri sera l’hai raccontata… Così non vale. Le promesse si mantengono”.
“Avete ragione, le promesse si mantengono”.
Aveva cominciato a raccontare: “Oggi, nel bosco, il cane si è messo a scavare. E scava che ti scava…” e i figli grandi si erano addormentati.
Ludovica era rientrata in punta di piedi in cucina. Suo marito, senza nemmeno augurarle la buona notte, era andato a dormire. Riempito d’acqua il lavello, aveva cominciato a lavare i piatti ma era talmente stanca che uno le era sfuggito di mano, andando a infrangersi sul pavimento.
Si era seduta sulla seggiola, scoppiando a piangere. Era stato in quel momento che aveva pensato di andarsene? O era stato quando la giovane figlia di un vicino si era presentata sulla porta di casa, l’aria arrogante, un filo d’erba in bocca tra le labbra piene di donna, chiedendole:
“Tuo marito è in casa?”.
Il suo sguardo le era scivolato addosso sul grembiule macchiato, sulla figlia che teneva tra le braccia, mentre quel tu arbitrario, insolente, aleggiava nell’aria. Suo marito si era avvicinato imbarazzato, ridendo troppo mentre lei si chinava d accarezzare il cane.
“Non mi riconosci più? Nero ti sei dimenticato di me? E sì che mi hai visto tante volte!” aveva detto, fissandola. Lei era rientrata, in silenzio.
Il cane era rimasto fuori, uggiolando nervoso alla luna che scivolava indifferente oltre la collina. (continua...)

martedì 5 gennaio 2010

Buon 2010

Questa mattina, complice una nevicata notturna sulla Padania, mi ha svegliata il silenzio. Assoluto! Con una sua particolare sonorità non priva di angoscia. Ancora inscemenita dal sonno ho messo la moka sul fuoco e il gorgoglio del caffè mi ha dato una sensazione di sicurezza. Gesti, profumi, rumori abituali che sancivano qualcosa di stabile, un punto fermo al quale fare riferimento. Tanto più importante in questi primi giorni di un nuovo anno che apre gli occhi su un mondo in crisi in cui il vecchio è crollato e il nuovo non si è ancora manifestato.
Il bisogno di punti fermi affonda le sue radici nell'insicurezza - ho pensato, sorseggiando il mio caffè. Altro che "immaginazione al potere", "vogliamo tutto e subito" o "il corpo è mio e me lo gestisco io"... Il potere è piatto come una cacca di mucca spiaccicata sul terreno e, sia a destra sia a sinistra, l'arroganza degli uni e il pigolio degli altri nascondono lo stesso vuoto di idee che non riescono a dare risposte alla domanda che angoscia tutti noi: "Se la politica è vecchia, qual è la nuova politica?"
Ripenso quasi con tenerezza a quel volere tutto che dava per scontato il posto di lavoro. Sicuro. Corredato di diritti "acquisiti". Certi, fatti nostri e, naturalmente, per sempre! Il tutto "subito", prima di invecchiare: a spron battuto, bandendo ogni attesa. Nella crisi attuale, sono i giovani, proprio loro a pagare il prezzo più alto, a essere beffati due volte: essendo entrati nel mondo del lavoro con contratti a tempo determinato ed essendo stati sbattuti fuori senza poter accedere alla cassa integrazione che, tra l'altro, da strumento di sostegno straordinario e per definizione temporaneo, viene ora usata per affrontare una crisi strutturale. Con quali conseguenze sui conti pubblici è facilmente intuibile.
In quel "tutto" entravano a pieno diritto eguaglianza, fratellanza e... felicità.
Mi sembra ovvio. E, dimenticavo: la "sorellanza", la complicità tra donne che avrebbe sostituito alla fratellanza la parità che è il riconoscimento dell'eguaglianza tra diversi. Ma se lo Stato non è più in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini non rimane che "arrangiarsi" contando sulla furbizia personale in una realtà sociale dove l'individualismo guadagna sempre più terreno.
Il caffè mi borbotta nello stomaco mentre una domanda mi frulla nella mente. Ci sono luoghi, mezzi, capaci di coagulare ideali da cui possa scaturire qualcosa di comune? Mi viene in mente la Rete, con i blog e i network. Ma c'è solidarietà nella rete o piuttosto appartenenza? Il nuovo è tale se e nella misura in cui scardina le vecchie regole, ma siamo sicuri che in rete si stiano scardinando le regole stantie che hanno affossato il vecchio mondo?
Penso al senso di appartenenza degli operai che nasceva nelle fabbriche, nutrendosi di discussioni davanti a un bicchiere di vino, scambiandosi una sigaretta nella pausa pranzo, dandosi una manata sulla spalla... Anche scontrandosi, anche assumendo posizioni in netto contrasto, ma fatte di occhiate, borbottii, mattine livide fuori dai cancelli delle fabbriche dove tutti si conoscevano e il freddo nelle ossa era lo stesso e il sindacalista era uno che lavorava accanto a te e conosceva la tua fatica, la tua rabbia, perché le provava, come te, sulla sua pelle.
Ora sulla rete tutto è affidato alle parole, trait d'union tra le persone, espressione dei sentimenti, degli ideali e delle emozioni più profonde. Spesso, come diceva mia nonna... ciacole.
Non è il cambiamento che mi spaventa, è l'ipotesi opposta: l'immobilismo di una società capace di cambiare soltanto grazie alle parole che abilmente la descrivono. Lo stomaco gorgoglia, inquieto.
Come me.

Scrivere

Scrivere è dare voce ai muti, sollievo agli angosciati. E' dimenticare la paura, relegandola nel mondo che ci lasciamo alle spalle, fuggendo su tappeti di parole come principesse su cavalli bianchi. E'guardare in faccia le nostre emozioni perdendo il vizio di spiarle dal buco della serratura.
E' osare per i tremebondi, mostrarsi per i timidi, credere per i titubanti.
Scrivere è inventare: una, due, cento vite quando l'unica che abbiamo non ci soddisfa. E' anche ricordare a noi e agli altri ciò che non deve essere dimenticato
Scrivere è costruire città di parole e accenderle di mille luci per sconfiggere la solitudine. E' capire la passione, cercando con costanza, fatica e sforzo di coglierne il gusto.
Scrivere è scoprire la nostra arroganza per indurla all'umiltà, confessando a noi stessi ciò che di solito, usando le parole come coltelli, diciamo degli altri. Scrivere è usare le parole come carezze, per comunicare mentendo, mentre le mescoliamo con l'abilità dei bari al tavolo da gioco e le lanciamo in alto come giocolieri abili nell'afferrare i loro attrezzi.
Scrivere è far gorgogliare le parole in gola come rosolio dietro a un sorriso, è farle scivolare, leggere come carezze, sulla pelle che amiamo.
Scrivere è far danzare le parole, farle volteggiare, scatenarle in sarabanda sfrenata e farle cantare... Poi, esauste, farle esplodere come fuochi d'artificio in un cielo estivo per ricordare che, come stelle cadenti, possono esaudire qualunque desiderio.

lunedì 4 gennaio 2010

Racconto a puntate (La vita cambia)

Non seppe bene nemmeno lei come fosse potuto accadere, ma Ludovica rimase di nuovo incinta. A Natale nacque una bambina alla quale venne dato il nome di Alessandra.
Quella creatura la riconciliò con la vita, ma mise definitivamente in crisi il rapporto con il marito, uomo d’azione che amava viaggiare, andare a cavallo, avere gente per casa e che sembrava a suo agio dappertutto fuorché con lei e i bambini.
Ludovica era una donna curiosa che cercava risposte alle sue domande soprattutto nei libri ma quando si ritrovavano soli, messi a nanna i bambini, lui si addormentava, a volte mentre lei stava parlando…
La sensazione di vuoto affettivo con cui aveva convissuto nella famiglia d’origine era stata colmata soltanto dalla nascita dei figli che l’avevano riconciliata con il suo corpo placando le dolorose contraddizioni con cui viveva la sua femminilità. I bambini le avevano dato un’ identità, la prima che avesse avuto, l’identità femminile per antonomasia: quella materna.
E così il rifugio si era fatto trappola.
Fu per questo che sbavò e vomitò per nove lunghi mesi? Fu per questo che dovettero snidare Alessandra dal suo ventre, strappargliela a viva forza in un parto che fu lotta cruenta di contraddizioni esplose nell’anima prima che sulla pelle?
Ludovica fu una madre sicura e particolarmente tenera con la terza figlia. Il marito che all’interno della famiglia era ormai poco più che una figura fantasmatica, cominciò invece a manifestare nei confronti della moglie un’intolleranza al limite del fastidio. Non faceva più nemmeno lo sforzo di fingere per lei il ben che minimo interesse.
Aveva comperato un cavallo che teneva a pensione da un contadino e, pur di non stare a casa, passava le domeniche cavalcando. Fu in una di queste solitarie cavalcate che maturò in lui l’idea di andarsene in campagna a dirigere un’azienda agricola?
Così, facendo una scelta manicomiale, acquistarono un podere con stalla e mucche per la produzione di parmigiano reggiano e si trasferirono in campagna.
Quei mesi passati in campagna le tornavano spesso alla memoria. Il marito si alzava alle quattro del mattino per mungere le bestie nella stalla. Lei si svegliava alle sei, accendeva le stufe che immediatamente affumicavano tutte le stanze, poi preparava la colazione. La casa era gelida, umida, fumosa. A vista d’occhio all’intorno campi di trifoglio e vacche, soltanto vacche da tutte le parti.
Lucrezia e Giuseppe, che non avevano condiviso la scelta dei genitori, passavano le giornate sui letti delle loro stanze leggiucchiando giornaletti. Invece Alessandra si lasciava scivolare lungo le scale che dalla porta d’ingresso portavano all’aperto per arrivare fino alla stalla dove lavorava il padre. Soltanto lei sembrava felice, perché quella casa isolata sulla collina le concedeva spazi di libertà sconosciuti e fino a quel momento inimmaginabili.
Ludica girava con la figlia minore per le colline circostanti raccogliendo frutta selvatica e grandi mazzi di fiori di campo. Il cane le seguiva, apparendo e scomparendo da dietro ai cespugli o tra gli alberi del bosco. Quando attraversava quella manciata di case sparpagliate sulla collina, contadine un po’ inquartate negli anni, il grembiule di grisaglia annodato sui fianchi, la salutavano cerimoniose mentre i loro uomini, sulla porta delle stalle a bestemmiare contro le vacche, il tempo e il governo, si toglievano il berretto, tacendo impacciati. Dopo un po’, nel suo girovagare, avevano cominciato a invitarla a bere un caffè oppure un bicchierino di liquore, fatto con "i bargnulen" che chiazzavano di viola i cespugli spinosi lungo la strada. Aveva fatto amicizia con quelle donne semplici, piegate da anni di lavoro duro nei campi e nelle stalle, quelle donne che la guardavano stupite scuotendo la testa intimidite dai suoi modi cittadini, dalla sua gentilezza e da quella lingua italiana che solamente a tratti, sgrammaticata, affiorava nei loro discorsi. “Ma chi glielo ha fatto fare? Non è adatta per questa vita: bisogna esserci nate, in campagna. Non ci si improvvisa contadini…” le dicevano in dialetto, quando chiedeva aiuto perché un cane selvatico le aveva ucciso una gallina oppure i parassiti avevano divorato l’insalata del suo orto.
Come lei anche Giovanni, le mani gonfie, arrossate e piene di vesciche, affondava in quella realtà contadina che aveva conosciuto da padrone e non da servo, nei suoi anni giovanili. Invitava i vicini, di cui aveva assoluto bisogno, un giorno sì e l’altro pure e Ludovica spignattava come una pazza in quella cucina enorme che di sera, quando gli ospiti se n’erano andati, sembrava un bivacco di soldati.
C’erano stati anche dei momenti belli: un pomeriggio nel bosco, con Alessandra che le zampettava accanto nella luce calda di un autunno precoce, aveva raccolto castagne e funghi che le vicine le avevano insegnato a distinguere da quelli non mangerecci. Al ritorno verso casa avevano trovato un albero di noci e la piccola aveva riso felice mentre lei scuotendo i rami la bombardava, porgendole poi il cestino per farsi aiutare a raccogliere i frutti che le grandinavano tutto intorno. A casa al ritorno, acceso il fuoco, aveva cucinato i funghi e la polenta e, tritandovi dentro le noci, aveva fatto anche le crepes. Poi, notando la disponibilità del marito, aveva deciso di parlargli. (continua...)

venerdì 1 gennaio 2010

E' venerdì

Sollevò gli occhi dal libro e incrociò il suo sguardo. La stava osservando, pensoso. Lei gli sorrise: uno stiramento di labbra più che un sorriso, nello sguardo le passò come un frullo d'ali la paura. Lui si alzò e passandole accanto andò in cucina.
Lo sentì armeggiare: il tonfo lieve della porta della credenza, il ronzio dell'accensione elettrica del gas. La casa era assolutamente silenziosa, dalla finestra filtrava tremula la luce del giorno svelando un cielo che prometteva neve. Passò lenta frenando all'incrocio un'automobile, mentre il profumo del caffè si spandeva per casa. Primo gennaio duemiladieci. Venerdì o sabato?
Lo sentì alle spalle, poi al suo fianco: due cucchiani di zucchero... Il tè puoi anche non zuccherarlo, il caffè è buono dolce.
Le passò la tazzina.
"E' venerdì" le sussurrò.
Riprese in mano il libro, aperto sulla pagina da leggere.
Abbandonò tra le mani dell'anno vecchio la malattia, la fatica, l'impotenza e, equipaggiata solo dalla curiosità di scoprire il mondo, affrontò l'anno nuovo, appesa a quel sorriso, a quel profumo di caffè e a quel silenzio che non aveva bisogno di domande per darle le giuste risposte.