lunedì 2 novembre 2009

Principesca solitudine

La sera scendeva sontuosa e il mare si macchiava di rosso all'orizzonte, là dove si fondeva con il cielo. Come muore il giorno nelle terre che non si affacciano sul mare? - si chiese. La sera successiva l'avrebbe vista orfana di tanta bellezza.
La casa era una distesa di scatoloni sigillati: avevano cenato a panini e frutta, la gatta che si aggirava stranita miagolando il suo disagio.
Alle sue spalle il Carso puntava ardito verso il cielo, i viottoli polverosi che costeggiavano le doline e i vigneti dalle piante piccole, contorte da un vento che spadroneggia, rubando beffardo quel po' di terra strappata alla roccia. L'aspettava una terra grassa e ricca: vigneti ad altezza d'uomo e campi verdi di erba medica...
Qual è il suono di un'aria senza vento? Nella sua città il vento era una presenza, aveva mormorato sul sagrato della chiesa quando si era sposata, figurina di Chagall immortalata in una foto sul punto di volar via, il cappotto a ruota color albicocca gonfio come una mongolfiera... Anche Chagall, senza vento, come avrebbe fatto volare i suoi innamorati? Nelle sere in cui il suo urlo zittiva la città, aveva dato l'avvio, rendendolo protagonista, alle storie più truculente "Era una notte cupa e il vento - come questa sera - ululava sinistro..." Gli occhi dei bambini spalancati come stelle. Che storie avrebbe raccontato senza quel canto a due voci di mare e vento? Con la figlia minore, collezionista nata come lei, avevano raccolto conchiglie e sassi levigati dall'acqua e nei disegni dei bambini che tappezzavano la cucina, l'azzurro dominante si era animato di vele, di stelle di mare, di pesci e mostri marini.
Il mattino seguente si alzò prestissimo e uscì sul terrazzo; il mare lo sentiva, ma non lo vedeva: nascosto nelle pieghe della notte profumava di salmastro. Rimase in attesa fino a quando a Oriente il cielo cominciò a schiarire. Prima debolmente, solo un chiarore sfocato, un brillio che aumentava baldanzoso. Anche nei suoi occhi si accendeva una luce.
Le rocce emersero chiare dal buio, si spensero le stelle e andò sbiadendo la luna. Il paesaggio acquistava i rassicuranti contorni di sempre mentre una manciata di gabbiani si gettava in picchiata sull'acqua e i loro stridii fendevano l'aria. Liberi. Qualcosa acquistava contorni precisi anche dentro di lei.
L'alba, sgominate le ultime ombre, esplodeva; il mare non era più color piombo. Il colore della tristezza. Il sole si levava alto nel cielo. Perché le veniva in mente il sole dell'avvenire? "Sole che sorgi, libero..." Il vento spazzava via le nuvole rubandole i pensieri: sul mare una vela bianca solitaria, spersa in quell'azzurro che la circondava, disegnava un triangolo di solitudine: una principesca solitudine.

Il vento s'intrufolò nella cucina che l'alba illuminava quando incominciò a vuotare uno scatolone dietro all'altro facendoli volare nell'aria tersa del mattino.

Alda Merini

Abitavamo nella stessa zona, a Milano. Mi capitò un giorno d’incontrarla e salutarla, intimidita e con un certo impaccio. In lei il rifiuto della normalità era obbligo, non scelta. Di Alda Merini ricorderò gli occhi dove dilagava la sciagura, la iattura di essere agnello in un mondo di lupi, e lo sguardo che scivolava sull’interlocutore smarrendosi in altri luoghi, lontani e inviolati, di cui portava nell’anima la meraviglia e sulle spalle il peso. Destinata a descrivere le offese filtrandole in chiare luci di cristallo in prigioni dimenticate, si privò – fu privata? - di ogni difesa.
La guardai avanzare a fatica sul marciapiede sconnesso dei Navigli. Non osai fermarla.
Sontuosamente “diversa”… vestì il dolore di abiti regali, di leggerezza e di bellezza.
Non la dimenticheremo.