martedì 11 agosto 2009

Aggiornamento di "Addio compagni"

Il compagno era un sognatore, un tenace, inguaribile sognatore. Il compagno era uno che credeva che il futuro avrebbe portato un mondo migliore. Per tutti. Era corretto, rigoroso, un po' spaccaballe, certo un po' serioso. Aveva un forte senso d'appartenenza il compagno.
Era onesto, sì, anche se può far ridere in un mondo come questo, lui era onesto e, quindi, un po' démodé, come il suo pugno alzato e l'Internazionale che a sentirla gli veniva sempre il groppo in gola.
Quando il compagno era una compagna, i suoi sogni si facevano ancora più audaci, quasi deliranti...
Dove siete finiti, tenaci, inguaribili sognatori convinti che il futuro avrebbe portato un mondo migliore? Voi così corretti, rigorosi, anche un po' sentimentali - che l'Internazionale l'ascoltavate in piedi, come a messa, levandovi il cappello - dove siete finiti? Cosa vi ha fatto smettere di sognare, a chi avete creduto, voi, così puntigliosi e attenti, di chi vi siete incautamente fidati? Vi facevate riconoscere subito, forse perchè in un mondo come questo eravate mosche bianche: mai al passo con i tempi che i padroni, per voi, sempre padroni erano, e bisognava diffidarne, e le donne controllarle perché il prete non le facesse votare male.
Certo eravate seriosi e anche un po' spaccaballe ma...mi mancate, compagni!

Amarcord

In uno dei miei post rispolveravo ricordi d’infanzia e nel farlo, mi colpiva quell’immagine di ragazzina che non leggeva i quotidiani, che si annoiava assistendo a Tribuna Politica.
Era considerata “roba da uomini”, come il calcio, fare a pugni, o smadonnare. Le studentesse leggevano “Grazia”, le sartine e le commesse fotoromanzi.
Come viveva negli anni Sessanta una ragazza di estrazione piccolo borghese, in una cittadina di provincia?
Beh, devo dire che ciò che mi rendeva particolarmente diversa era la presenza di quel padre, così ingombrante in tutti i sensi. Troppo diverso dagli altri padri e incredibilmente severo, non disposto a concedere, a me e mia sorella, la minima libertà a meno che le nostre richieste non avessero alla base una valenza culturale.
Andare a un festino - si facevano in casa con quattro aranciate, qualche panino e il giradischi - era un’impresa epica. Valenza culturale: inesistente. Permesso di andarci: negato.
I maschi uscivano, le femmine, blindate.
Capii in quegli anni quanto il modo di vivere la sessualità, che mi sembrava eguale, fosse diverso.
Poi l’università: laurea in economia e commercio, matrimonio e nascita del primo figlio.
Ai colloqui di lavoro, storcevano il naso sentendo che avevo un bambino. La mia famiglia era lontana, mio marito lavorava all’estero. Cercai un lavoro che mi consentisse di conciliare …l’inconciliabile: maternità e lavoro. Avrei scoperto, anni dopo, che le poche donne che si erano laureate con me avevano “scelto” in massa l’insegnamento.
La maternità aveva istituzionalizzato la diversità: la disparità era aumentata a dismisura. Nato da un uomo e una donna, mio figlio fu allevato da un genitore soltanto: è facile immaginare quale. Battagliai per il secondo, chiedendo aiuto e collaborazione. Con il terzo figlio subentrò la rassegnazione.
Mi sentivo tradita …e non era soltanto una sensazione.
Il marito aveva fatto carriera, lui; era sempre in giro per il mondo, lui, mentre io percorrevo in lungo e in largo il perimetro della mia casa prigione. Una sera, complici la stanchezza di troppe notti perse e la luce tenue del comodino, nello specchio mi sembrò di vedere mia madre. Il cerchio si chiudeva intorno a me: ero di nuovo prigioniera. I tradimenti divennero spudorati, appena venati d’imbarazzo.
Io tacevo e pativo.
Mio marito mi guardò sorpreso, vagamente seccato, quando gli comunicai la mia decisione di andarmene. Pensava che con tre bambini piccoli non ce l’avrei fatta.
Si sbagliava.
La dura scuola alla quale ero cresciuta mi salvò. Ma ce la feci perché, vissuta in un ambiente politicizzato, avevo coscienza dei miei diritti, ero economicamente autonoma perché lavoravo, la laurea mi aveva dato una preparazione che mi permise, quando il mio ex marito non pagò più gli alimenti, di investire in borsa, uscendone prima del disastro.
Fu durissimo e senza la protezione familiare (mio padre era morto, mia madre non aveva approvato la mia scelta di separarmi, indicandomi la via della sopportazione e/o rassegnazione) mi resi conto di quanto fosse difficile vivere la condizione femminile, senza un uomo accanto e con tre figli piccoli. La ventata di libertà del ’68 , la speranza di poter avere “tutto e subito” non era più nemmeno un borin…
Le donne della mia generazione, avendo conquistato il diritto di divorziare, abortire, vivere la propria sessualità, hanno avuto una facoltà di scelta che le madri non ebbero, ma il filo rosso della continuità tra le generazioni, impostato sull’accettazione, la rinuncia, il sacrificio femminile connessi alla dipendenza, anche e soprattutto economica, si era spezzato. Avevamo scelto di non identificarci in modelli femminili che consideravamo perdenti e per molte la lacerazione dalle madri che si sentirono spesso tradite, fu pesante. Il buon senso, la saggezza femminili, noi che avevamo vissuto il ’68, li avevamo gettati a mare, crescendo le figlie in modo nuovo, diverso, muovendoci su un terreno sconosciuto. La complicità, che si espresse nella sorellanza, fece emergere l’invidia femminile, i piccoli ambigui giochi di potere di chi non avendone, era stato abituato a tramare nell'ombra. Questi figlie senza padre, con madri impegnate nel lavoro, hanno avuto, diventate adulte, non pochi problemi. Nonne e madri contrapposte e spesso in aperto conflitto provocarono perdita di radici comuni e, quindi, di sicurezza, difficoltà a identificarsi, acquisendo una individualità autonoma. Il tutto in un tourbillon di nuovi compagni e compagne dei genitori che, allargando le famiglie soltanto in senso quantitativo, toglievano loro spessore. Il femminismo ci aveva dato molto, ma ci aveva lasciate anche con le ossa rotte, frantumate in pezzi che non si sarebbero mai fusi del tutto.
C’è una specificità femminile che ci rende diverse, profondamente, dagli uomini e questo primo limite del movimento femminista, che ci voleva trasformate in maschietti secondo un ingenuo concetto di parità, io ( come molte altre donne) l’ho vissuto sulla mia pelle e dolorosamente.
Il nocciolo duro della diversità è la maternità, che ha ben poco a che fare con la paternità. C’è una sessualità che ha una valenza emotiva diversa più esigente e coinvolgente. Noi siamo madri anche se non abbiamo figli, siamo intessute di maternità, così come i maschi pensano e agiscono in funzione sempre della sessualità. Al di là del mondo maschile, logico e razionale, non c’è il vuoto, c’è un’altra cultura, legata alla natura, al corpo, a tempi biologici stringenti che ritmano un altro mondo, quello femminile che non è inferiore, è soltanto diverso.
Ma il potere, quello economico/finanziario, è nelle mani dei maschi. Saldamente. E qui la diversità diventa inferiorità. E, a questo punto, nella attuale realtà economico/sociale di grande crisi, questa inferiorità alza un muro davanti alle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e le ultime a trovarne uno nuovo.
La tregua che sarebbe potuta nascere, capendo finalmente che la diversità non va combattuta, ma accettata e valorizzata, che non deve far paura, ma incuriosire, che non è scarsità, ma ricchezza, si è rotta nuovamente tra maschi e femmine. Questo è un altro pesante problema che possiamo addebitare alla crisi e non è un problema da poco, perché rimanda quel confronto lucido, serrato tra uomini e donne a data da destinarsi, contribuendo a incancrenire i problemi esistenti.