lunedì 25 maggio 2009

I Dellapicca (Il Moro é un capo)

La solitudine è una scelta soggettiva, è un ritrarsi in se stessi, nel proprio guscio, ma quando sono gli altri che ti allontanano, che ti buttano fuori al freddo, solo, è l’isolamento che conosci. Sigismondo, in quella bettola, un piatto di lenticchie e un boccale d’acqua davanti, si rendeva conto di essere fuori posto, fuori luogo, ma soprattutto che quella sensazione lo avrebbe accompagnato per sempre. Gli stivali di pelle, la camicia in tela di Fiandra, le mani curate, quasi femminee e i modi, innatamente eleganti, tradivano la sua appartenenza sociale che, per la prima volta, avvertiva come un peso, un marchio di diversità, retaggio doloroso di un passato incancellabile, ma perduto. Gli saliva dentro, mentre ingoiava la zuppa, una disperazione sorda, un dolore mai provato prima.
Abituato a comandare chiese con arroganza del pane e si sentì rispondere “E’ finito!”, con indifferenza. Le sue stizze, le collere improvvise che facevano accorrere i servitori, qui sarebbero cadute nel vuoto o, come già stava notando, avrebbero provocato qualche battuta scurrile e un paio di risate. Sulla panca, dall’altra parte della stanza, due clienti si davano di gomito, osservandolo e, a voce alta in modo da essere uditi, dicevano “ Il servizio non soddisfa il signorino?”
‘Mi sento come un cane in chiesa’ pensò e poi, stizzito ‘ ma dove diavolo è finito il Moro?’
La zuppa era quasi immangiabile e le occhiate che altri due clienti del locale indirizzavano ai suoi stivali non gli facevano presagire nulla di buono.
I due dopo essersi scambiati un’occhiata si erano avvicinati al suo tavolo. Il più robusto, con aria falsamente amichevole, gli chiese:
“ E’ un forestiero?”
Sigismondo annuì, scostante.
“ Aspetta qualcuno?” chiese l’altro.
“ Sì”
“ Se nell’attesa ci facessimo una partita a dadi?”
“ Non mi interessa” rispose, sostenuto, Sigismondo, controllando di nuovo, con ansia, l’ingresso del locale, con la speranza di veder entrare il Moro.
“ Beh, allora non sarà così scortese da non bere alla nostra salute” e rivolgendosi all’oste e alzando la voce, ordinò “ Una caraffa di vino nuovo, quello buono, mi raccomando!”
Nel vano della porta in quel momento si stagliò la figura massiccia di un uomo. Il Moro rimase qualche secondo immobile, lo sguardo altero degli occhi scurissimi che passava di faccia in faccia, mandando un messaggio chiaro di superiorità, che in lui nasceva da un’attitudine al comando che ne faceva automaticamente un capo.
Sigismondo, recuperando l’arroganza usuale, disse: ”Aspettavo il mio servo” e lentamente, fissando uno dei due uomini, si portò il boccale alle labbra. (continua...)
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