lunedì 4 maggio 2009

La stanza del nonno Alfonso

I Morabito erano la famiglia più ricca del paese. Erano di loro proprietà le greggi che, riempendo l’aria di belati e digrignar di zanne dei cani da pastore, in autunno scendevano dai pascoli sul Gran Sasso chiazzando di bianco la montagna. Erano padroni delle terre a valle, abitate e coltivate dai mezzadri, dei vigneti che si arrampicavano sulle colline, dei frutteti e delle porcilaie. L’intero paese apparteneva ai Morabito e più precisamente a mio padre e a suo fratello, lo zio Checco.
Beh, lo zio Checco era una persona straordinaria e in lui tutto era insolito, originale: dal modo di vestire alle scelte di vita che l’avevano portato in giro per il mondo. Era bellissimo, nero di occhi e capelli, come diceva sua madre, e quando ritornava dai suoi viaggi in terra d’Africa, bruciato dal sole, vestito di bianco, il sorriso da eterno ragazzo sulle labbra, le donne impazzivano per lui.
Le notti estive si animavano allora nella vecchia casa di fruscii inconsueti. Nel corridoio che portava alla sua stanza scivolavano, impalpabili come ombre soltanto immaginate, figure femminili.
Girava il mondo, questo zingaro di lusso, coltissimo e curioso, mandandomi cartoline illustrate dai posti più strani dai quali faceva ritorno carico di regali dal tocco esotico. Una volta mi regalò una scimmia impagliata e dalla Cina arrivò con uno splendido aquilone di seta rossa, dalla testa di tigre che fluttuando nell’aria sembrava spalancasse la bocca per azzannare il vento.
Per noi bambini, quando sentivamo la sua voce gridare “ Ehi di casa, è così che si accoglie il figliol prodigo”, rimbombando nell’atrio in penombra che consentiva l’accesso al corridoio che portava alla cucina, era una vera e propria festa.
“ E’ un incantatore di serpenti” esclamava mia madre, aggiungendo “ li rincretinisce di fole” , ma dopo avere servito aranciata ghiacciata e dolci, si sedeva anche lei ad ascoltare assorta, mentre il sole corteggiava i picchi bianchi di neve delle montagne e le valli si riempivano d’ombra.
Quando le prime luci si accendevano nelle case, che dal terrazzo di casa nostra si dominavano con lo sguardo, la cameriera veniva ad avvertire che era pronta la cena. Arrivava anche mio padre, il panciotto di seta che s’intravvedeva sotto la giacca e l’orologio a cipolla che apriva con uno scatto metallico, borbottando: “Quando arrivi tu Checco, porti l’anarchia. Siamo in ritardo di mezz’ora sul nostro abituale orario di cena. E come se non bastasse ecciti i bambini a tal punto, con le tue storie, da far loro perdere l’appetito…” e si vedeva che era un po’ invidioso di quella vita libera che il fratello si era scelto, mentre lui si dannava con i mezzadri a controllare che non rubassero sull’olio o il vino e non facessero sparire qualche sacco di mandorle, ché lui nemmeno del suo fattore si fidava.(continua)

Finito

Ho finito ieri il mio secondo libro. Si è staccato, forse sarebbe meglio dire che me lo sono strappato di dosso, come un maglione bagnato di pioggia. Cosa mettiamo, in un libro, di noi che lo scriviamo? Le nostre emozioni e una storia che è, o era la nostra storia, ma che ora non lo è più.
Perché il potere della scrittura, uno dei tanti, è anche quello di cambiarla la storia, piegarla a un destino diverso. Si arriva a un bivio e invece di svoltare a destra, si prende la strada a sinistra, oppure ci si ferma. Era inverno?, e noi cambiamo il colore del cielo, e spruzziamo di margherite il bordo del fosso. E ci sediamo a riflettere, mettendo in bocca al personaggio scaturito dalla nostra penna, un monologo, una riflessione articolata, consequenziale, lucida che mai la nostra personale impulsività ci avrebbe consentito. E lo seguiamo, questo personaggio che è un nostro doppio dai contorni ancora non definiti, con la sollecitudine e lo stupore di una madre. Come madri vorremmo vederlo crescere e andarsene, indipendente e autonomo, come madri veniamo lacerate dal distacco.
Ora è lì, imprigionato in quel pacco di fogli che, stranamente, non vagano più per tutta la casa, ma sono ben impilati uno sopra l’altro, occupano così poco spazio, e sono costati tanto lavoro, tanta fatica.
Costruire un romanzo non è facile, anche se, paradossalmente lo abbiamo già tutto scritto dentro. Dentro dove? Nel cervello, nella pelle, nell’anima. Nelle decine di osservazioni appuntate in giro per la casa: sul libro delle ricette, sulla prescrizione medica, ma anche nelle rabbie, nella leggerezza di certi momenti, nello struggimento dei rimpianti, nei ricordi che ci sorprendono o ci hanno sorpreso a tradimento Lui, il romanzo, con la sua storia, è fatto di noi, delle nostre parole, idee, speranze, tic, sogni, paure e illusioni e da noi è completamente diverso.
Come un figlio.
E come un figlio che se ne fosse andato, a conquistare il suo posto nel mondo, questa mia storia parallela che ha riempito di sé tanta parte delle mie giornate, oggi, mi manca.

La stanza di nonno Alfonso

Quell’anno l’autunno fu più piovoso del solito e il freddo in quel paesino di montagna alle pendici del Gran Sasso si fece sentire presto. Alla fine di settembre caminetti e stufe già ardevano nella casa, e nei letti, alla sera, le domestiche mettevano il “prete”. Non maturarono i cachi nell’orto e l’uva, pallida e acquosa, dette un vino cattivo che, per anni, fece dire a mio padre, se c’erano ospiti a tavola:” Non prendete il vino del Cinquantadue.” fino a quando mia madre si decise e, di nascosto, fece svuotare tutte le bottiglie nel lavello. Operazione alla quale io presi parte con grande divertimento. Alla fine, vuoi per le esalazioni del vino, vuoi per qualche sorsata, Nunzietta e io ci ubriacammo e quella fu la mia prima sbornia. Mia madre, che era incinta, aveva una gravidanza difficile e si lamentava sempre per la nausea e il mal di stomaco. Era cambiata, le sue risate di gola non risuonavano più nelle stanze. Tetra, mentre lo sguardo le si incupiva, diceva che quel bambino nel suo ventre la stava facendo impazzire, che era troppo grosso, senza ombra di dubbio maschio e, inoltre, che aveva deciso di farla dannare prima ancora di nascere. E concludeva, rivolgendosi alla domestica, con quel sussurro” Nunziatì io morirò di parto” che terrorizzava la ragazza.
Poco più di una bambina, presa a servizio a dieci anni, Nunzietta sentendo le parole di mia madre si metteva le mani nei capelli e, facendo gli scongiuri, diceva“ No è issa c’ ha da murì, no è issa…” e poi si tappava la bocca con le mani, mentre io pregavo Santa Rita, che mia cugina mi aveva assicurato essere la Santa dei miracoli impossibili, di far sopravvivere al parto mia madre e di prendersi, se proprio qualcuno doveva morire, nonna Clotilde che non riconosceva nessuno e mi diceva, quando e se notava la mia presenza nella stanza “ E tu chi sei? Nessuno di noi è biondo, siamo tutti neri, di occhi e di capelli.” E scuotendo il capo concludeva: “ Con chi ti fece, con chi ti fece? Ah povero figlio mio!Non ne risparmiò nessuno ”
Io correvo da mia madre che mi rassicurava dicendo: “ E’ pazza. Quando ha smesso di essere fertile, il sangue, non trovando sfogo, le è andato al cervello” e mi accarezzava, ma sottovoce, facendosi sentire soltanto da me, aggiungeva:” Ma anche cattiva è, e non mi ha mai potuta soffrire. Tu hai i miei capelli e i miei occhi e nelle vene ti scorre il sangue dei Morabito. Sei bellissima figlia mia, vieni qui e fatti baciare “.(continua)