domenica 3 maggio 2009

La stanza di nonno Alfonso

Ci sono case che sono palcoscenici teatrali perché per le luci, le dimensioni, gli arredi, sono state i fondali perfetti di quella recita senza soluzione di continuità che è la storia di una famiglia. A cosa si ridurrebbero nascite, morti, matrimoni e delitti privati di quella cornice? A semplici annotazioni sul Registro dello Stato Civile, perdendo parte del loro mistero. In queste case le camere, che hanno nomi che evocano fatti, sembrano vivere di vita propria. La camera di zia Rosetta era quella in cui la zia in questione era morta, mentre lo studio di nonno Alfonso, in cui nessuno entrava – a eccezione delle domestiche per spolverare – era la stanza nella quale era stato rinvenuto, riverso sulla scrivania, il foro all’altezza della gola provocato dalla pallottola partita dalla pistola che ancora stringeva tra le mani. Accidentale quella morte? Non si era mai saputo con precisione, ma in paese si mormorava che il nome e soprattutto il patrimonio della famiglia, avessero indotto chi avrebbe dovuto indagare a stendere un velo di silenzio sull’intera vicenda, avvalorando la tesi dell’incidente. Dal giorno della morte di nonno Alfonso, nessuno aveva più voluto entrare nello studio e c’era chi, in paese era disposto a giurare e spergiurare che nelle notti di luna la finestra dello studio, che dava sulla piazza del paese, lasciasse filtrare un filo di luce, sufficiente a lasciare intravedere un’ombra in movimento dietro alle tende.
A noi bambini era stato vietato, ma senza fornirci la ben che minima spiegazione, di entrarci, con il risultato di scatenare in noi una morbosa curiosità e la tentazione, vivissima, d’infrangere il divieto.
Ne parlavamo tra cugini, spessissimo e a voce bassa, usando una sorta di linguaggio cifrato: era la camera ics che sorvegliavamo istituendo turni di guardia per dimostrare il nostro coraggio. Era infatti ubicata in fondo a uno stretto corridoio, illuminato debolmente da un lume che pendeva dal soffitto e sul quale erano state svitate tutte le lampadine, a eccezione di quella centrale che mandava una fioca luce la quale sembrava più alimentare ombre paurose sulle pareti che fugare le tenebre.
Rimaneva accesa tutta la notte perché accanto allo studio c’era uno dei bagni di servizio e le domestiche lo usavano per vuotarci il pitale di nonna Clotilde, che stava su una sedia a rotelle e che, spesso, di notte con voce aspra, gridava: “ Nunziatì, Nunziatì…a piscia!”
E, subito dopo, si udiva ciabattare Nunzietta, mentre con voce spazientita diceva” Arrivo signo' ,arrivo”.(continua)

nostalgia

Sigillò con cura la scatolone: l’ultimo. Finalmente. Controllò l’ora: l’impresa di trasporti sarebbe arrivata tra poco. Si affacciò sul terrazzò , lasciando vagare lo sguardo sul condominio di fronte prima di soffermarsi sulla finestra del quinto piano. Il proprietario dell’appartamento era già uscito per recarsi al lavoro. Al suo ritorno a casa avrebbe fatto un gesto, un saluto, una comunicazione cameratesca tra “single”, un invito non privo di sottintesi fatto da un uomo a una donna ...chissà? affacciandosi al balcone alle otto in punto. Avrebbe scrutato incerto i riquadri scuri delle sue finestre. Sarebbe rientrato, sarebbe uscito di nuovo: incerto, stupito. Poi, anche sulle sue finestre sarebbe calata la notte. Forse si sarebbe dimenticato di annaffiare i gerani o forse no.
Il suono del campanello lacerò il silenzio. Chiuse la porta sul terrazzo sigillando l’ultimo scatolone, il più fragile, quello dei ricordi.