lunedì 20 aprile 2009

Incipit

E venne il giorno in cui, seduta davanti al computer, scrissi Capitolo 1°, pomposamente, tanto per farmi coraggio. In che contesto temporale e geografico collocare il mio romanzo? Questa scelta fu facile: sono cresciuta tra Udine, Gorizia e Trieste e ancora mi viene da sorridere quando ripenso a uno “stage”, fatto in Francia , alla fine degli anni ’60 e all’impaccio con cui mi chiedevano “Trieste? Est- tu italienne?” Girando l’Italia mi sono accorta che la gente sa poco o nulla della mia città, delle sette bandiere che nel Novecento sventolarono sui suoi pennoni, della comunità ebraica che accolse Weiss, dei suoi molti, troppi cimiteri, delle sue tante chiese, di quel suo essere “crogiolo” di razze e culture, ma certamente non per chi la conosca a fondo. Trieste è una città strana, dove le “mule” sono piene di “morbin” e i “muli” hanno il gusto del “vitz”. E’ una città dove, tra amici, ci si scrive in dialetto, la lingua in cui io “ancora amo, impreco e canto”.
Città unica, incastonata tra il mare, che le dà respiro e spazio, e il Carso, che il sommacco accende di rosso e giallo, Trieste è decadenza indolente, sempre con il pensiero rivolto al passato, in un borbottio astioso che sfuma in mugugno costante.
Bambina, tutto sentivo parlare fuorché l’italiano. Gli zii e mio padre, che avevano frequentato le scuole dell’Impero - il buon Francesco Giuseppe, in questa turbolenta provincia mandava i migliori funzionari e insegnanti di cui disponeva - per non farsi capire da noi bambini parlavano in tedesco, mentre mia nonna in cucina litigava in croato con la figlia maggiore. L’altra nonna mi insegnava intanto il dialetto istriano – e di Goldoni non mi sarebbe più sfuggita nemmeno una parola – e a Udine imparavo il friulano.
A scuola, in prima elementare, con quale fatica è facile immaginarlo, finalmente cominciai a parlare in italiano. I nonni paterni non erano triestini: il nonno apparteneva alle minoranze italiane che popolavano la costa dalmata e la moglie era croata.
Approdarono a Trieste perché era per loro una terra promessa: una città ricca di opportunità lavorative, dove aveva già fatto fortuna un loro parente. Inoltre, la nonna in seguito alla morte dei due figli più piccoli era quasi impazzita e il marito l’aveva portata a Trieste nella speranza che il cambiamento d’ambiente l’aiutasse a convivere con quel dolore o a superarlo.
E così iniziai il romanzo descrivendo l’arrivo, via nave, dei miei nonni con le loro tre figlie, in quella Trieste dei primi del Novecento grande emporio dell’impero austro ungarico.
Sulle spalle non soltanto il peso di quei fagotti in cui avevano tentato di stipare il passato, ma lo strappo che da quel passato li avrebbe separati per sempre.




“ La nave passeggeri, pilotata da un rimorchiatore, attraccò in perfetto orario al molo di Trieste. Carica di bagagli, una folla variopinta, si accalcava in direzione della scaletta attorno alla quale si muovevano, efficienti e veloci, i marinai.
La gente cominciò a scendere.
Su una panca della nave, spersa in un mare di fagotti accatastati intorno a lei, stava, nerovestita dalla testa ai piedi ad eccezione di un fazzoletto colorato annodato intorno al capo a coprirle la fronte, una donna alta, il corpo arrotondato dalle numerose maternità. Con una bambina stretta al petto e altre due aggrappate alla gonna, sedeva immobile, apparentemente nell’attesa di qualcosa o di qualcuno, respirando quell’aria per lei nuova che sapeva di vento e di salmastro.
“ Vincenzo, siamo arrivati? “.
L’uomo, che si era avvicinato alla panca portando sulle spalle un altro ingombrante pacco legato alla meglio con dello spago, annuì sorridendo, il braccio teso a indicarle la città di cui, ora, s’intravedevano i palazzi imponenti, le rive lambite dall’acqua, i grandi viali alberati e, a destra dietro agli attracchi delle navi, la serie ininterrotta dei magazzini dai quali entravano e uscivano traballanti carichi di merce..."
(continua)

Episodi slegati prendono il volo.

Per prima cosa buttai giù quelle storie come le ricordavo, con quel sapore d’infanzia, con lo stesso stupore con cui le avevo accolte, senza filtrarle e ridimensionarle attraverso uno sguardo adulto e dissacratorio. E’ strano questo meccanismo della memoria che seleziona i ricordi secondo presupposti che spesso, a un primo esame, risultano incomprensibili.
Infatti venivo letteralmente inondata di ricordi, ma in quella fase subentrò un fatto nuovo: i personaggi e le loro storie, già enfatizzati nei racconti infantili, ora prendevano il volo, uscivano dagli schemi mnemonici, piegandosi alle finalità del romanzo, sì perché avevo già nell’anima e nel cervello la storia di una famiglia, alla quale la mia famiglia si limitava a prestare qualcosa di sé.
Connotai i personaggi in modo da differenziarli nettamente, facendo e sfacendo le loro vite e diventando arbitra del loro destino. Ero la voce narrante, il burattinaio che tirava i fili e, senza nemmeno rendermene conto, ero diventata io la cantastorie, prendendo il posto della zia.
Piedi in terra e testa tra le nuvole, prendeva corpo l'invenzione letteraria.
Ricordo mia madre che, leggiucchiando qua e là i miei appunti, commentava disorientata dicendo: “ Ma non è andata così… “ e io che, riprendendo il gesto della zia, mi mettevo l’indice davanti alla bocca, interrompendola mentre mi sembrava di vederli, tutti questi personaggi, improvvisamente di nuovo vivi.
Catalogai i vari episodi in ordine di tempo dopo aver fatto delle schede intestate a ciascuno di loro. Ora avrei dovuto collegare tra loro i vari episodi e scrivere il capitolo introduttivo: l’incipit.
Questo lavoro mi entusiasmava: mi dimenticavo di avere fame, sete, sbuffavo infastidita sentendo suonare il telefono che mi strappava a forza da quella vita parallela in cui mi ero calata.
Ero molto distratta e le persone intorno a me se ne rendevano conto.
Qualche volta qualcuno mi diceva “Dove hai la testa?”.
Fossi stata sincera avrei dovuto dire:” A Trieste, primi anni del Novecento, in una casa piena di ragazzini urlanti e nell’anima e nel cervello di tutti i componenti di quella famiglia…” (continua)