mercoledì 28 gennaio 2009

Magdalena

Magdalena, rumena, venuta in Italia per lavorare, faceva le pulizie in un call-center. E lì, alle prime luci dell'alba, è stata violentata dal compagno della proprietaria.
Ha perso il lavoro e, anche se questo i giornali non lo dicono, ha perso la fiducia nel suo prossimo. In chi, come il sindaco Alemanno, le ha promesso aiuto a parole, ma si è ben guardato dal tenere fede alle promesse fatte, e negli esseri umani di sesso maschile che guarderà con altri occhi e nuove paure. E, se il suo desiderio di giustizia non venisse accolto a livello processuale con una auspicabile condanna dello stupratore, dovrebbe aggiungere al dolore la rabbia, la frustrazione di aver subito una prova durissima com'è un processo per stupro, per essere umiliata e infangata di nuovo.
Gli stupratori possono essere anche italiani: sono, spessissimo, italiani.

La strega dimenticata

La casa, piccola e ordinatissima, le procurò un senso d’angoscia che si sforzò, invano, di controllare. Poi, con un sospiro aprì uno scatolone e incominciò a avvolgere nella carta da giornale piatti e bicchieri della credenza. Sigillò il primo scatolone; ne riempì un secondo, un terzo, cercando di tenere a bada i ricordi. In quella casa era cresciuta, riconosceva quasi tutti gli oggetti che le passavano tra le mani. Sua madre, ordinata fino alla pignoleria, aveva conservato tutto. Con una certa sorpresa notò che non c’era nulla di spaiato: tutte e dodici le tazzine, tutte e dodici le posate, al gran completo il servizio di piatti.
Andò nella camera da letto. La cassapanca, con la chiave infilata nella serratura, la incuriosì. Non l’aveva mai vista aprire da sua madre e non aveva idea di cosa contenesse. Girò la chiave e sollevò, esitante, il coperchio con la sensazione di violare un luogo riservato, non suo. Sul fondo, come un papavero spezzato adagiato con cura, un vestito, il suo vestito da carnevale… E l’unica festa da ballo della sua vita le tornò alla memoria, prepotente, sensuale come quella strega rossa di riccioli e d’abito, che ballava di nuovo davanti ai suoi occhi, mentre il cielo grigio e spento di quel pomeriggio d’inverno si faceva nero e fondo, pieno di stelle, e la musica incalzava, scoppiando come fuoco d’artificio. Sfiorò la stoffa con le dita per dimenticare il profumo di quella notte, e le mani di quell’uomo, e la sua bocca.
Aprì gli occhi.
Incrociò lo sguardo di sua madre, incorniciata d’argento sullo scrittoio. Gli occhi scuri, neri come
un cielo in tempesta, avevano sfiorato l’abito sgualcito, i riccioli sfatti…gelandosi.
Seppellendo il ricordo della madre, il rancore e il suo unico amore in un gesto, abbassò il coperchio.
Lo sentì rinchiudersi con un tonfo sordo.

Amore folle

Giovanna era lì, davanti a lei, più che seduta, afflosciata sulla seggiola. Lo sguardo, opaco, che si perdeva nel vuoto.
L’amica le porse la tazza di tè. “Hai voglia di parlarne?” le chiese. L’altra la guardò, muta.
“Ha perso di nuovo il lavoro?” disse Anna.
L’amica sembrò scuotersi per un breve istante dal suo torpore.
“ Non è colpa sua, è difficilissimo trovare lavoro in questo periodo…”
L’altra la interruppe. “ Stai a vedere che è colpa tua” . “Beh, se io…”. “Se tu cosa? Lui perde un lavoro, il suo lavoro, e la colpa è tua?”
Anna si sedette e afferrò le mani di Giovanna.
“ Vi state distruggendo a vicenda, lo capisci? E’ da due anni che siete insieme: lui era problematico già prima d’incontrarti e nemmeno tu eri messa bene. Avete unito non le vostre forze, ma i vostri problemi e lui è riuscito a farti sentire responsabile anche di tutto ciò che di negativo gli sta succedendo”.
“ Ma se cambiasse, se..”replicò l’amica.
“ Non puoi metterti con un uomo per cambiarlo, per trasformarlo nella persona che andrebbe bene a te. E' impossibile, una battaglia inutile. Ti passerebbe per la testa di cambiare il colore degli occhi di qualcuno?"
“ Se riuscissi a fargli capire che sta sbagliando, che potrebbe e dovrebbe cambiare. Io non mi comporto nel modo giusto: è per questo motivo che lui non cambia” .
La voce di Giovanna era monotona e la sofferenza le scavava il volto minuto.
“ Non possiamo imporre a un’altra persona cambiamenti nei nostri modi e con i nostri tempi. E sentirci frustrate e cariche di sensi di colpa per errori che non sono nostri. E' il modo migliore per imboccare la strada della distimia. Stai spostando l’attenzione da te a lui. E’apparentemente meno rischioso, come continuare a drogarsi, per fare un esempio estremo, ma significativo. Può dare un’illusione di benessere perché non si va incontro a una crisi d’astinenza nell’immediato, ma in un ottica, appena più dilatata, si muore”. “Si muore!” E Anna, accalorandosi le chiese: “Sei tu in un momento difficilissimo della tua vita, sei tu che non hai un lavoro, hai problemi familiari, sei sola, non stai bene…Pensi di essere in grado di occuparti, fino allo sfinimento, dei problemi di un altro? E’ funzionale ai tuoi bisogni, ti consente di non affrontare i tuoi demoni, ma” e Anna concluse, alzando la voce, “ ognuno può affrontare soltanto il suo passato e lottare unicamente per il suo futuro”. “L’equilibrio, la maturità che cerchi di far acquisire al tuo compagno sei sicura di possederli? Prima si fa pulizia in casa propria, dovresti spostare l’attenzione su di te. Lui non è un bambino da seguire e controllare. Non puoi controllare nulla di lui, puoi sapere e modificare tutto di te. E quando tu sarai riuscita a essere più forte, equilibrata , conscia dei tuoi problemi, allora, ti potrai "scegliere" un compagno sulla base di reali affinità e che il suo amore lo dimostri con la voglia e la capacità di farti stare meglio, di rasserenarti, di gratificarti accettandoti per quella che sei. Chi ti vuole cambiare non ti ama, vuole una persona diversa, ma te ne rendi conto? Perché farsi fagocitare dai bisogni quando potremmo aspirare ai desideri? Ma sceglie chi è libero dentro e tu non lo sei.”
Giovanna l’ascoltava, un po’ più attenta, mentre una ruga dritta le si disegnava sulla fronte.
“ Lui mi ama…a modo suo” .
“ La misura di un amore è data dalla sofferenza che provoca?” la incalzò Anna, aggiungendo “ Rispondimi sì e non aggiungerò altro”
Giovanna scosse la testa. Anna aggiunse:” La sofferenza misura una malattia, lo vedi che stai entrando in una fase di negazione della realtà, altro elemento che caratterizza un amour fou, una dipendenza affettiva. Tu non sei innamorata, sei malata d’amore!”
Giovanna la guardò, incerta, poi le chiese:" Ammettendo che tu avessi ragione, come potrei uscirne?"
" La prima cosa da fare è chiedere aiuto, la seconda.."
Giovanna la interruppe "Dammi il tempo di riflettere. Ci penserò"
Le due amiche si abbracciarono.
Sul portone Giovanna si voltò indietro chiedendole "Com'è che hai le idee così chiare su questo argomento?"
Anna assunse un'espressione pensosa e negli occhi le affiorò la traccia di un dolore antico, superato ma consapevole. "Ci sono passata", le rispose, aggiungendo "Si può uscirne, ma prendendo atto della propria realtà".
Si sorrisero.
"Ci vediamo domani"dise Anna.
Il sole tramontava su Milano traendo riflessi d'argento dal serpentone ingolfato di macchine che invadeva il viale. L'aria era aspra di smog, l'inquinamento dava all'aria un sapore metallico. Anna risalì in casa pensando "Ci fossero soltanto i veleni dell'aria...E i miasmi dell'anima?"