lunedì 31 agosto 2009

Laborit e la classe operaia

Eccone un altro: alle quattro del mattino, il cielo ancora nero come i suoi pensieri, si è alzato e ha massacrato tutti: moglie, figli, la padrona di casa. Poi, si è gettato dalla finestra. La cronaca recita: operaio, disoccupato. Quarantasettenne. Uno dei tanti che le piccole imprese - struttura portante dell'industria italiana - licenziano ogni giorno, uno dei tanti seguiti dai Centri di salute mentale. Oh Cristo! gli operai non solamente sono pochi, ma anche matti? Prova tu a restare savio quando ti inviano una lettera di licenziamento, hai una famiglia e non hai diritto nemmeno alla Cassa Integrazione, perché chi ti licenzia è il padrone di una fabbrica con pochi dipendenti. Piccola.

Ma - a proposito - come la mettiamo con "piccolo è bello"? Non erano le nostre micro imprese considerate più duttili, in grado di reggere, adattandovisi, alla crisi?

Ho davanti agli occhi questi uomini ancora prestanti, apparentemente solidi, che improvvisamente non vanno più al lavoro. Quando trilla la sveglia è la moglie ad alzarsi, a preparare la colazione(come sempre), e magari, se ne ha il tempo, anche a mettere su il sugo. Farebbe anche il letto, ma lui, il marito, non si alza, dorme della grossa, dopo essersi rigirato tutta la notte nel letto senza prendere sonno,disturbando lei. Lei che ora mantiene la famiglia, lui compreso.

E il marito, che ha soltanto chiuso gli occhi, ma non dorme, lo sente il nervosismo della moglie, lo avverte in quei gesti tirati, in quella porta che sbatte quando lei se ne va.
Cosa fa un uomo in casa tutto il giorno? Usa "stira e ammira", fa brillare il water? E' probabile che ciondoli in pigiama e poi si piazzi davanti alla tivù, i pensieri in testa che si fanno ripetitivo/ossessivi, la rabbia che incomincia a montare. Ha chiesto agli amici, ai conoscenti, ha inviato curricula, ha lasciato brandelli di dignità, la sua dignità, nelle agenzie interinali. Ora non ce la fa più: si sente in trappola. E come Laborit insegna il topino in trappola che non vede vie d'uscita, scarica la sua aggressività sul topino che gli sta accanto, prima di scaricarla su se stesso. Ha a che fare con il cervello rettile - Laborit spiega.

E' tutto logico, drammaticamente consequenziale.
Il paradiso può attendere, la classe operaia ha appena imboccato la via dell'inferno!

domenica 30 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Blanko aveva faticosamente ripreso a lavorare portandosi nel corpo l'impaccio di quel braccio che gli faceva male e nell'anima una non sopita voglia di vendetta, ma la catasta di legname non poteva attendere e inumidirsi sotto le piogge primaverili. Quella mattina aveva ripreso il lavoro e i tronchi stavano già ordinatamente scendendo a valle uno dietro l'altro quando Blanko, dopo aver incaricato il suo uomo di fiducia di controllare il lavoro a monte, riempita la bisaccia, era salito sul suo mulo e aveva preso la strada a tornanti che portava alla costa per seguire le operazioni di imbarco. Avanzava lento, insensibile alla bellezza del panorama che il sole nascente svelava davanti ai suoi occhi. La strada tagliava boschi fitti di vegetazione che si stagliavano, in tutte le tonalità del verde, contro l'azzurro di un cielo che il mare rifletteva, trasparente in prossimità della costa, più intenso al largo, dove le onde mosse dal vento ne increspavano la supeficie in riccioli spumosi che il sole rendeva cangianti. Nel porto si muovevano neri come formiche uomini e carretti e un brusio indistinto cominciava ad arrivare fino a lui nel silenzio della mulattiera, rotto, fino a quel momento, soltanto dal canto degli uccelli e da qualche fruscio di animale selvatico che sentendo gli zoccoli del mulo s'acquattava nel sottobosco. Ancora un paio di curve e sarebbe stato in grado di stabilire, dalle bandiere che garrivano al vento sui pennoni dei velieri, i loro paesi di provenienza. Quello che faceva la spola con l'Istria e che apparteneva alla Serenissima, l'aveva già individuato, ma quello accanto... ah eccola, ora la bandiera gonfia di vento lasciava intravedere qualcosa: l'aquila imperiale della marina austriaca. Quel veliero veniva da Trieste, la città dove si era recato per affari un paio di volte e che gli era rimasta nel cuore. Abituato alla vita di paese, legato a tradizioni e usanze del tutto diverse, era rimasto sbalordito da quella città in pieno sviluppo, dove il denaro si guadagnava con facilità ma si perdeva con altrettanta rapidità. Gli era sembrata una città affascinante, ma anche pericolosa, con i suoi bordelli e le taverne dove i marinai appena sbarcati si giocavano tutto ciò che avevano, ai dadi o alle carte. Immerso nei suoi pensieri non si era nemmeno reso conto di essere ormai giunto all'ultima curva che, in mezzo a pini marittimi che davano un sottile profumo di resina all'aria, si allargava in una strada più ampia che portava direttamente al porto. Alla sua sinistra la locanda - dove legato l'asino, si beveva qualcosa di forte d'inverno e di fresco d'estate - era piena di avventori. Blanko scese dall'animale. Conosceva quasi tutti e quando, dopo aver assicurato il mulo alla staccionata, fece il suo ingresso nel locale, il silenzio, pesante come una scure fatta calata su un ceppo, scese sul locale.
Poi, uno degli uomini, che seduto davanti al bancone stava bevendo, gli si fece incontro e lo abbracciò. Altri lo seguirono dimostrandogli, nel loro modo rude e privo di convenevoli, la loro partecipazione alla tragedia che l'aveva colpito. Evidentemente a notizia dell'agguato aveva già fatto il giro, di bocca in bocca, di tutto il circondario. Gli arrrivavano manate sulle spalle e parole di conforto, mentre tutti ordinavano al banconiere di versargli da bere. Blanko, che si stava chiedendo cosa pensassero di lui, della sua mancata vendetta, li guardava negli occhi cercando di coglier ciò che le parole non svelavano.
Ad un tratto gli si parò davanti un negro gigantesco, alto come lui e altrettanto prestante.
Lo guardò sorpreso: non l'aveva mai visto da quelle parti. L'uomo che gli stava accanto gli sussurrò: "E' un foresto, appena arrivato da Trieste. Si fa chiamare Il Moro ed è uno con il quale non è il caso di scherzare: ha con sé una donna d'incredibile bellezza e una bambina. Hanno preso alloggio in una delle locande del porto..."
Blanko gli porse la mano e ne incrociò lo sguardo. Stupito ebbe la sensazione di cogliervi lo stesso disperato dolore che rendeva febbricitanti e smarriti i suoi occhi.(continua...)

sabato 29 agosto 2009

Togliamoci il cappello ragazzi: sfila il disastro!

La gatta miagola contrariata, osservando la pioggia in questa mattina di fine agosto che è già preludio d'autunno. Oltre i vetri della finestra il pino trasuda umidità, mentre sbocciano gli ombrelli. Anche oggi sarà giornata da bollino rosso sulle strade. Rientrano i vacanzieri.
Il primo dell'anno non cade a gennaio, cade a settembre.
Gli operai, rappresentanti di una classe sociale data per dispersa, ritornano: abbarbicati alle gru, pericolanti dai tetti, in pieno sciopero della fame, difendono con la forza della disperazione il loro lavoro. E i padroni difendono i loro profitti, comprimendo i costi di produzione, in primis stipendi e salari, poiché i prezzi non possono essere aumentati, vista la contrazione dei consumi e la concorrenza dei paesi emergenti.
I giochi sporchi si fanno di nascosto: ricordo Trentin, con gli occhi bassi, a borbottare di concertazione, comunicandoci l'abolizione della scala mobile decisa in agosto. E la copertura dall'inflazione? Ci avrebbero pensato economisti e banchieri a manovrare tassi d'interesse, riserve bancarie, emissione di titoli di Stato... Abbiamo visto come. Ora uno di loro, il ministro Tremonti, spara a zero sulla categoria, invitando al silenzio i suoi rappresentanti.
Condivido: un minuto per commemorare i morti sul lavoro e il massacro di una generazione che, in larga parte, non avrà mai un posto di lavoro stabile, né una pensione, né una casa, né dei figli.
Togliamoci il cappello ragazzi: sfila il disastro!

La madre di tutte le libertà

In un linguaggio contenuto, mai enfatico, chiaro e, ripeto, elegante nella sua sobrietà, un internauta mi parla della sua esperienza di blogger e mi colpisce non tanto per la sua competenza, ma forse perché il suo amore per la Rete - questo mare virtuale che la tecnologia ci ha messo a disposizione che ogni giorno lascia sulla spiaggia, come conchiglie, migliaia di post - così diverso, nella modalità in cui si manifesta, dal mio, è perfettamente eguale al mio in un altro aspetto.
Io non lo conosco se non per ciò che scrive e per come lo scrive. Scrive di blog e lo fa bene. Si sente che l'argomento lo interessa e che l'ha sviscerato, girandolo e rigirandolo tra le mani, in modo da coglierne ogni aspetto. Sembra dispiacersi dell'uso improprio che alcuni ne fanno, della loro rozzezza nel maneggiare qualcosa che dovrebbe essere trattato con cura. Il blog si esprime, al meglio e al peggio, attraverso le parole e questo blogger le usa con grande attenzione, accompagnandole raramente con aggettivi- che, proprio per l'accuratezza che usa nella loro scelta, risulterebbero pleonastici - e evitandone l'uso a effetto. Lui non vuole colpire, vuole spiegare.
Se dovessi abbinare ai suoi post un sottofondo musicale sceglierei Puccini, mai Verdi: il passionale Verdi che sfida Wagner, non il sentimentale Puccini. A me, che dal "dire al fare" passo con la velocità e il frastuono della Cavalcata delle Valchirie, potrebbe insegnare il senso della misura, che non mi appartiene come indole, ma al quale ho sempre aspirato. La personalità del blogger filtra, rivelatrice di chi scrive, e a me, triestina cresciuta in un clima e una cultura mitteleuropee, sarebbe piaciuto essere come lui che, nella fotografia che lo ritrae, ha un sorriso appena accennato e gli occhialini. Questo blogger lucido e distaccato rappresenta per me ciò che non potrò ma aspirerò, per tutta la vita, a essere. La mia scrittura sovrabbondante, eccessiva nelle virgole e negli aggettivi, che scoppia dove lui scoppietta, urla dove lui sussurra, sghignazza dove lui sorride... be' è diversa, ma forse questa è proprio la ricchezza del blog, delle sue mille facce che non smettiamo mai di analizzare, studiare, ma anche e semplicemente assaporare.
Ma c'è un aspetto fondamentale e insopprimible nella sostanza della comunicazione che accomuna tutti i blogger: si chiama libertà di espresssione. E' la madre, di chi e per chi comunica, di tutte le libertà. In questi giorni perigliosi in cui un politico importante, invece di rispondere all'esigenza di chiarezza dei cittadini, denuncia il giornale che, facendo sua questa esigenza, gli ha posto una serie di domande, questa libertà ha subito un attacco senza precedenti.
Mi auguro che nella nostra democrazia, fragile nei fatti, ma ancora forte nei presupposti e nelle regole normative, i blogger facciano sentire, ancora una volta - forte e chiara - la loro voce a difesa della libertà di espressione.

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça aveva appreso dalla madre, che a sua volta aveva imparato dalla nonna, a riconoscere,  macerare e  distillare le erbe, a catturare gli scorpioni per infilarli nella bottiglia della grappa da usare per scacciare i reumatismi e a utilizzare le ragnatele per proteggere le ferite e le ustioni. Non aveva quasi finito di trangugiare il suo tè che Branko era caduto in un sonno senza sogni, profondo, quasi comatoso.
Al suo risveglio era piombato nella cucina perfettamente ripulita, e facendosi largo tra la gente venuta a omaggiare il morto, era entrato nella camera da letto dove il fratello, vestito con l'abito nuovo, sembrava dormisse tra mazzi di ginestre che le donne avevano raccolto e intrecciato. Pur sentendosi intontito e privo di aggressività, si era limitato a pensare dipendesse dal sangue perduto e dallo spavento e dalla violenza dell'agguato e, ora, mentre il dolore scacciava ogni altro sentimento, sentiva piegarsi le gambe e farsi confuso il pensiero.
In quello stato d'animo si ritrovò seduto nella chiesa ortodossa, frastornato dalle parole pronunciate dal pope, i novizi festeggiati il giorno prima di nuovo in chiesa, quasi una replica della giornata appena passata: di nuovo tra ginestre, canti e gente, ma in una apoteosi di morte non di vita. La moglie, al suo fianco, lo controllava attenta, il volto pallidissimo che il fazzoletto nero e l'abito da lutto facevano risaltare. Era quasi rauca a furia di cantare, lamentarsi e piangere, com'era tradizione fare in quelle circostanze. Al suo fianco Zastros si attaccava alla sua gonna smarrito e piagnucoloso, non capendo bene cosa stesse succedendo, ma riportando un'impressione generale di paura, angoscia e dolore che avrebbe da quel giorno sempre associato alle ginestre, al loro spavaldo colore e al profumo intenso dei loro fiori.
Al cimitero calarono il corpo nella fossa, senza cassa, avvolto in un lenzuolo, all'uso slavo.
Poi tutti fecero ritorno alla casa del defunto per il banchetto. Quelle ore successive all'agguato rimasero nella memoria di Blanko confuse e frammentate anche e, soprattutto, a causa del potente sedativo che la moglie aveva aggiunto alla bevanda del marito, rendendolo così debole da impedirgli di organizzare e dare attuazione alla vendetta. Ora che finalmente anche il complesso rituale previsto per la morte era stato rispettato, mentre nella camera da letto di Blanko e Daviça calavano le ombre della notte nella casa improvvisamente deserta e silenziosa, e il marito, dopo aver trovato un confuso conforto tra le bianche braccia della moglie, si era addormentato pesantemente addosso a lei, Daviça poteva permettersi il lusso di riflettere su ciò che era avvenuto. Quel perpetrarsi di agguati, vendette e ritorsioni avrebbe finito per distruggere entrambe le famiglie e aver evitato il peggio in quella circostanza non la poneva al riparo da decisioni scellerate in seguito. Era indispensabile trovare una soluzione definitiva che ponesse fine a quella faida sancita nella loro razza da una consuetudine che aveva lo stesso valore di una legge o ordinamento che fosse stato imposto dal Senato della Serenissima. I rappresentanti veneziani della Repubblica si guardavano bene dall'interferire in quelli che consideravano affari interni, connessi a quelle che ritenevano abitudini selvagge di popoli a loro inferiori. Si ammazzassero pure tra loro gli Slavi, l'importante era soltanto che i campi venissero coltivati, la legna imbarcata con il marmo e le damigiane di olio e vino e il pesce seccato, stivato per benino, nelle navi che facevano la spola tra l'Istria e Venezia - pensò Daviça, prima di cadere anche lei in un sonno popolato da incubi che la svegliarono varie volte nel corso della notte facendola rifugiare tra le braccia del marito che, borbottando qualcosa al suo orecchio, la rassicurava.
(continua...)
Nb. Mi scuso con i miei lettori per la versione "andata in onda", che avevo appena abbozzato
senza titolo e senza riferimento all'etichetta. Sto facendo delle prove sul blog e il mio pc improvvisa di testa sua e non risponde ai comandi...

giovedì 27 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça sentì il rumore dei passi, pesanti, e le voci, alterate, mentre, balzata dalla sedia e in preda al terrore, cercava di riconoscere quelle voci. Chi aveva perduto per sempre: il marito, il padre, il cognato? O, forse, erano salvi e sarebbero state altre donne a piangere in quella primavera che nell'aria fredda del primo mattino sapeva ancora d'inverno? Ma la porta che si spalancava lasciando entrare Blanko, con il fratello più giovane gettato sulla spalla come un sacco di patate, la fece respirare di sollievo, subito venato di vergogna per quella felicità di vedere vivo il marito che i suoi occhi non erano riusciti a nascondere
Dietro gli altri due uomini. Con una manata il marito liberò la tavola, stendendovi il fratello mentre urlava alla moglie: "Prendi dell'acqua, andate a chiamare il barbiere... " tagliando con il coltello la camicia e mettendo a nudo la ferita. La madre di Daviça, scuotendo la testa, mormorò: " Povero Bosak, povero ragazzo... non c'è più niente da fare" mentre Blanko cercava di tamponare il sangue, chiamando il fratello e mescolando bestemmie a invocazioni ai santi, nella cucina dove la luce del sole illuminava il volto del ragazzo, disteso sul tavolo, il capo ripiegato sulla spalla, il viso che sbiancava mentre il sangue scivolando dal tavolo arrossava il pavimento. Entrò il barbiere che, dopo essersi chinato sul ferito, alzò gli occhi sconsolato sui presenti, rendendo con quello sguardo superflua ogni parola, poi, con rispetto e leggerezza chiuse gli occhi al ragazzo borbottando "Occupiamoci dei vivi!"
Blanko aveva una ferita da coltello per un colpo di striscio al braccio e il barbiere, dopo essersi seduto e aver pulito la ferita, cominciò a ricucirla.
"Fate in fretta " borbottò Blanko e rivolgendosi al padre ordinò: "Caricate il fucile che quei due rinnegati li ammazzo!"
Sulla cucina calò un silenzio che per qualche istante nessuno osò infrangere: la madre di Daviça cominciò in silenzio a pulire il pavimento, gli altri due uomini, furenti di rabbia e dolore, stavano già caricando il fucile. Daviça era lucida, quasi fredda mentre pensava che doveva trovare un modo per porre fine al massacro. Nessuno avrebbe osato in quel momento contraddire Blanko e lei sapeva che nemmeno le sue lacrime l'avrebbero fermato, nemmeno ricordargli che aveva un figlio... "La gente della nostra razza lava le offese con il sangue" pensò provando una cupa disperazione, ma non rassegnazione.
"Beviamo qualcosa di caldo: siamo tutti sconvolti e tu, Blanko, hai perso molto sangue" disse e veloce si avvicinò al camino. Pochi minuti dopo la fiamma scaldava l'acqua nel samovar e la donna s'infilava nella tasca del grembiule un boccettino.
Blanko a bassa voce raccontava l'agguato che, ad eccezione di alcuni irrilevanti particolari, non era diverso da quelli che, in quella faida che da tre generazioni insanguinava il paese, l'avevano preceduto, opponendo i Sokol ai Dabrovich. I Sokol, una famiglia numerosa e povera di contadini e pastori, avevano lavorato spesso per i Dabrovich, da generazioni i più ricchi e arroganti del paese. C'era stato all'origine della faida un diverbio finito a coltellate, apparentemente per un furto d'agnelli, ma nel paese si mormoravano pettegolezzi che le beghine riportavano fermandosi a chiacchierare sul sagrato della chiesa, i volti, sotto i fazzoletti bassi, improntati alla disapprovazione e alla sorpresa.

Gentile Presidente...

Gentile Presidente del Consiglio,
mentre scrivevo quell’aggettivo “gentile” mi saliva alla gola una certa ridarola perché la gentilezza che è fatta di misura, attenzione all’altro da sé e una punta di ritrosia, non è tra le sue – pur numerose – doti.
Oggi mi è giunta la notizia da parte di un caro amico di un altro licenziamento. La mia reazione, sulla base dei suoi illuminati consigli, è stata subito improntata a giovialità, barzellette - tratte dal suo ricco e variegato repertorio - sui disoccupati (in questo caso non ci sarà cassa integrazione date le modeste dimensioni dell’industria fallita) e tanto sano ottimismo, improntato a una visione della giornata del disoccupato spaparanzato in mutande (non è poco in queste giornate di caldo torrido) davanti alla TV a godersi i programmi prodotti dalle sue reti. Ma quello aveva proprio il magone, e era plumbeo: come uno di sinistra, quelli che le cose se le fanno andare male proprio per potersi lamentare, per poter scendere in piazza. Ammettessero mai che è una scusa per portare il cane a passeggio, pora bestia…
E’ tutta invidia, Presidente perché Lei è ricco, bello e famoso. Be’, io sulla bellezza avrei qualche dubbio, ma le donne la trovano irresistibile, un vero e proprio trombeur de femmes, pardon tombeur, come certamente la sua fortunata consorte potrebbe, in qualunque momento, confermare se, a furia di bazzicare corsi sull’etica negli e degli affari, non avesse finito per perderci la testa e pensare (quando le donne usano la parte che va dal collo in su, mi permetto di fare mio un suo concetto, i guai sono all’ordine del giorno) che negli affari ci siano regole morali da rispettare e che preferire alla moglie cinquantenne tre sedicenni sia da malati. Idee malsane che le ha messo in testa quel filosofo da quattro soldi che si ostina a frequentare, perché fa tanto intellettuale di sinistra.
Comunque Presidente, e con questo concludo, io la stimo e la ammiro moltissimo, lei è il mio punto di riferimento, il faro che illumina la mia un po’ grigia esistenza. E’ riuscito a farsi dare dalle banche finanziamenti miliardari senza alcuna garanzia, in amicizia, facendosi presentare da politici di rilievo, diventati suoi amici. (Come se la conquista Lei la gente…) quando a me in banca, dove mi conoscono da quando il nonno, buonanima, mi metteva cinquemila lire per il compleanno sul libretto di risparmio, non concedono nemmeno mille euro di scoperto sul conto. E’ sempre circondato da donne splendide… un po’ leggerine, un po’tanto eh, eh, - altrimenti perché le chiamerebbero veline? Non pago, guadagna un treno di soldi e quando ha un problema, va in Parlamento e si commissiona una legge che, come un abito fatto da un sarto, - vuoi mettere - calzi a pennello sulla sua persona. Be’, chi può le leggi come gli abiti, se le fa “su misura” o “ad personam”.
E ora, Presidente, La saluto e le auguro di farsi una bella vacanza ma, dia retta a me, la Veronica la lasci a casa che questa volta ha proprio esagerato e, si ricordi che Noi Italiani la vogliamo in forma, sempre giovane, pimpante, mica come Prodi che sembrava suo nonno.
Buone vacanze Presidente!

mercoledì 26 agosto 2009

Racconto La soffitta virtuale dell'anima

La luce di settembre filtrava dalla finestra, chiusa da una grata, e i nostri passi di bambini sollevavano nuvole di polvere che, intercettate dal chiarore, svelavano un pulviscolo dorato in movimento. Mia sorella e io eravamo andate a trovare degli amici di famiglia che avevano appena traslocato e, con i nostri due amichetti, stavamo esplorando la soffitta della nuova casa. Nel locale, quasi vuoto, un baule troneggiava. Chiuso, anzi come verificammo tentando di aprirlo, sprangato.
Giovanni - il grande del gruppo - il volto che tradiva la delusione, ci saltò sopra battendo i piedi con rabbia: toc, toc... toc, toc e, pausa stizzita, toc finale con piroetta. Si udì uno scatto e mentre Giovanni balzava a terra, il coperchio del baule si sollevò lentamente con un cigolio che sembrò fremere nell'aria, mentre tuttti e quattro ci sporgevamo, la curiosità e la meraviglia che s'incrociavano nei nostri sguardi, a osservare.
C'era una divisa dell'esercito: grigia, i profili neri: la croce uncinata ci fece capire subito a chi fosse appartenuta. Perfettamente stirata e spazzolata era riposta con cura.Sotto, avvolto nella carta velina, prese vita tra le nostre mani un abito rosso, impalpabile:la gonna plissettata e il corpino con le spalle al'americana, trasparente e accompagnato da una sottoveste di raso rosso. C'erano anche delle scarpe da donna con il tacco alto, un fiocco davanti e, in fondo, ancora qualcosa: un pacco di lettere legate da un nastro di velluto.
La voce di nostra madre ruppe l'incanto. Sprangammo il baule che si rinchiuse con un tonfo e scendemmo, ma ormai la curiosità ci ribolliva dentro e le lettere, nascoste in un posto sicuro, le leggemmo una dopo l'altra, nei pomeriggi passati a giocare, legati a doppio filo da quel segreto che avevamo giurato di non confidare a nessuno. E così scoprimmo la storia d'amore tra quell'ufficiale tedesco e una ragazza ebrea...
I genitori dei nostri amici, che erano ricorsi all'aiuto di un fabbro per aprire il baule, dopo averne ispezionato il contenuto, piuttosto delusi, lo lasciarono in un angolo e se ne dimenticarono, ma noi bambini continuammo le ricerche. E, a furia di chiedere, una mattina c'imbattemmo in un vecchietto che, durante la guerra, aveva abitato in quella zona. Ricordava quasi tutto di quegli anni terribili, anche quella retata di ebrei fatta dalle SS naziste. Noi bambini lo ascoltammo increduli con il fiato sospeso ripescare nella memoria il ricordo di quella notte di terrore mentre, davanti ai nostri occhi, prendeva forma il balenare degli elmetti. Quasi ci sembrò di udire le urla, i latrati dei cani, mentre lui diceva:" C'era anche una ragazza, giovane, grandi occhi scuri, i capelli corti, a riccioli. Singhiozzava, il padre le gridò 'Scappa...Scappa' e lei fuggì".
"Quindi si salvò?" e la mia domanda era sulle labbra di tutti e quattro noi bambini.
"No, un soldato puntò il mitra, il padre della ragazza si gettò su di lui. Si udirono degli spari e, pochi minuti dopo la camionetta ripartiva...Padre e figlia erano al suolo".

Vuotando la soffitta, aveva ritrovato quelle lettere. Il camion del trasloco sarebbe arrivato tra poco e nella nuova casa, come ormai un po' dappertutto per mancanza di spazio, non avrebbe più avuto una soffitta, ma un pensiero le passò per la mente: il blog - strumento che non smetteva mai d'irretirla - poteva servire anche a delineare un passato, a dare corpo alla memoria collettiva, diventando "soffitta dell'anima" in cui i nipoti avrebbero frugato per ritrovare le tracce di un passato sconosciuto, dei segreti di famiglia, dei ricordi senza i quali il loro presente sarebbe stato scarsamente decifrabile e... piatto. Accese il pc portatile e incominciò a battere sui tasti.

martedì 25 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Avevano mangiato, ballato e bevuto per tutto il giorno e per buona parte della notte. Ora, nella casa dello sposo, la stanchezza cominciava a segnare d'ombre i volti degli invitati e dei musicanti che si succedevano a rotazione, dando però, ormai, segni evidenti di stanchezza. Molti ciondolavano sproloquiando tra loro, stravaccati sulle sedie, aggrappati all'ultimo bicchiere di grappa, mentre dalle finestre s'insinuava la prima pallida luce del nuovo giorno e il profumo del caffè turco si diffondeva nell'aria. Soprattutto gli uomini ne scolavano, tazzina dopo tazzina, grandi quantità per ridare forza alle gambe che l'alcool aveva infiacchito.
Daviça si avvicinò al marito, che stava chiacchierando con un vicino di casa che lavorava alle sue dipendenze, il figlio addormentato appoggiato sulla spalla. Il fratello più giovane del marito, impaziente , li attendeva già sulla porta. Blanko le tolse il bambino di dosso, rassicurandolo con un paio di carezze, poi, salutati i padroni di casa, si avviarono uscendo poco dopo all'aperto. Il cielo, a Oriente, schiariva e l'aria, fredda e tersa, anche se la primavera era ormai avanzata, risuonava del canto degli uccelli. Poi, quel rumore: appena un fruscio seguito dal suono secco che produce un ramo spezzato e sul sentiero, che curvava costeggiando il bosco, apparvero i Sokol. Alti, le gambe allargate e piantate al suolo come tronchi d'albero, i pollici infilati nella cintura...
Daviça già prendeva Zastros, la voce del marito che le rimbombava nel cervello "Scappa, scappa... il bambino". Intorno a lei il fogliame fitto come un mare verde e negli occhi un balenio d'acciaio. Coltelli, di nuovo coltelli che il sole nascente faceva brillare, coltelli a pareggiare i conti con il sangue, a lasciare vedove e orfani. Non piangeva Daviça, aveva sempre saputo che sarebbe successo. Ancora pochi passi: il sentiero deviava a sinistra e la casa era, ormai, a pochi passi. Le aprì sua madre. Le parole non servirono; lo sguardo atterrito urlava ciò che la gola non osava pronunciare.
"Dove?" Suo padre con il cognato, i fucili tra le mani "Dove?" le ripeteva. "Alla prima curva del bosco". Era la sua voce quella? Era Zastros che piangeva tra le sue braccia? A Daviça sembrava che gli uccelli avessero smesso di cantare. Sua madre pregava, a tratti malediceva.
La giovane donna, poi, seduta nella cucina ancora in penombra, le mani abbandonate in grembo, cominciò ad aspettare, mentre il suono di una civetta, lugubre, infrangeva il silenzio.
"La civetta ha cantato" mormorò la vecchia e spense il lume.
"La civetta ha cantato con il cielo già chiaro" continuò, scuotendo il capo. Daviça non le rispose. Li rivedeva i fratelli Sokol, alti e biondi, passeggiare davanti alla chiesa ortodossa. Sputavano per terra quando lei passava e la paura era più forte dell'umiliazione. Si rivide al matrimonio: i fiocchi lucidi che svolazzavano nel vortichio della danza e le braccia del marito che l'afferravano, cingendola. Proteggendola. Tese l'orecchio: solamente il borbottio dele preghiere insolentiva il silenzio là nella casa di pietra dal tetto di ardesia che il sole, ormai alto, faceva brillare.
Lontano, dove la collina si abbassava e la terra incontrava il mare s'intravedeva all'orizzonte un veliero. Sul pennone più alto sventolava la bandiera con l'aquila a due teste della Marina austriaca.

sabato 22 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça e Blanko s'intrufolarono al centro della stanza, facendosi largo tra le coppie che ballavano. Blanko, capo del villaggio, veniva trattato da tutti con la deferenza un po' invidiosa che circonda chi esercita il potere. La sua stazza, decisamente al di fuori della media, la capigliatura rosso fuoco, che in battaglia aveva consentito ai suoi uomini d'individuarlo e seguirlo come se quel demonio fosse sbucato dritto, dritto dall'inferno per guidarli all'attacco, avevano attirato su di lui l'attenzione dei funzionari della Serenissima di cui era diventato l'interlocutore privilegiato, contribuendo a assicurare la coesistenza non sempre pacifica, ma fruttuosa, tra l'etnia slava dei villaggi interni e quella istro-veneta che popolava le coste.
Blanko, nel paese che viveva di agricoltura e pastorizia, si occupava del commercio del legname che ricavava dai boschi che circondavano il villaggio e che, portato a valle con un sistema di carrucole e funi molto ingegnoso, veniva caricato sui velieri che partivano , facendo rotta verso Venezia, per rifornire l'Arsenale. Ma in quella sala dove l'aria sapeva di spiedini d'agnello e la grappa di prugne scorreva a litri, mentre le portate dell'interminabile pranzo di nozze venivano servite dalle donne e il virtuosismo dei musicisti incatenava le coppie al centro della stanza in balli ora sfrenati, ora struggenti e appassionati, gli occhi di Blanko e il bagliore ammaliante del sorriso, lontani da doveri, litigi e mediazioni erano presi solo dal corpo pieno della moglie che, nel ballo, sfiorava il suo.
"Era tutto tranquillo fuori, Blanko?"
L'uomo annuì facendola roteare nella danza, la sua risata che sovrastava piena il fracasso che aleggiava mentre le coppie si scambiavano le donne intrecciandosi nella danza. Dariça si moveva leggera, flessuosa e gli occhi degli uomini la seguivano di soppiatto golosi. Era stata un'ottima ballerina in quella breve stagione in cui alle sagre e alle feste aveva ballato ritovandosi sempre più spesso tra i piedi quel gigante d'uomo che per lei aveva fatto a pugni più di una volta, rendendola orgogliosa della propria avvenenza.
I bambini e i ragazzini giocavano a rimpiattino sotto ai tavoli seguiti dallo sguardo vigile delle anziane del villaggio che confabulavano tra loro spettegolando e lasciandosi andare ai ricordi. Balenavano negli occhi, imprigionati dalle rughe, gli amori, i tradimenti e le passioni che la musica, i balli, il vino facevano affiorare, mentre i novizi uscivano diretti alla casa dello sposo.
Blanko si chinò verso la moglie e le sussurrò: "E se mandassimo te a istruire la novizia sui doveri coniugali?"
"Ho ancora molto da imparare" la donna gli gorgogliò di gola in risposta, drappeggiandosi lo scialle sulle spalle, mentre cercava il figlio con lo sguardo. Blanko si chinò verso il ragazzino che li aveva raggiunti e se mise a cavalcioni sulle spalle, ridendo e dando di gomito alla moglie, mentre il bambino lo afferrava per i capelli con uno sguardo che tradiva la sua apprensione. Ora la sposa, precedendo il gruppo dei parenti, si era incamminata lungo il viottolo che le prime ombre della sera confondevano con i prati che, punteggiati di margherite nella primavera avanzata, lo costeggiavano. Qualcuno cominciava a ciondolare, le gambe stroncate dal vino e la voce roca da ubriaco che rispondeva stizzita ai rimproveri della moglie.
L'interminabile festa di nozze si spostava a casa dei parenti dello sposo, ma i novizi avrebbero salutato tutti e si sarebbero ritirati a consumare il matrimonio al piano superiore della casa. Nel letto d'acero bianco le lenzuola candide sarebbero state esposte al mattino alla finestra, macchiate, a riprova della purezza della sposina. Le beghine del villaggio sarebbero andate alla prima messa per controllare e avrebbero pregato non si sa se per quella notte d'amore o per l'invidia di non averla potuta avere.

Ultima recita a Venezia

Erano anni che non tornava a Venezia, in quella città che era stata fondale perfetto delle sue recite e, quindi, dei suoi cambiamenti. Almeno i più importanti. La prima volta in cui l'aveva vista le aveva dato in dono le radici, a consentirle un'appartenenza che fino a quel momento non aveva posseduto. Era da quelle viuzze strette, avare di sole, che venivano i bisnonni, e a quelle tose chiare, bionde e snelle lei assomigliava nel fisico, mentre nel carattere che andava delineandosi il gusto dell'ambiguità, il desiderio di mascherarsi e svelarsi cominciavano a affiorare, anticipando quella sensibilità sofferta che sarebbe stata la struttura portante della sua caratterialità.
Aveva attraversato i suoi ponti e goduto dei suoi tramonti da innamorata, più dell'amore che degli uomini che glielo avevano fatto scoprire, mentre i palazzi, come comari chiacchierone schierate ad assistere a uno spettacolo, facevano ala allo splendore della sua giovinezza.
Era tornata a Venezia con gli alunni e con i figli, a spiegare, didattica, con la guida tra le mani, a chi quella bellezza non voleva o poteva cogliere, particolari di un insieme che era rimasto nebuloso, indistinto. Forse a causa sua? Avrebbe dovuto esprimere le emozioni che la attanagliavano a tradimento scoprendo piazzette sfiorate dal sole, abitate da gatti acciambellati sui davanzali tra vasi di basilico nell'umidore greve delle calli? Avrebbe dovuto indurli a tacere per sentire la voce dell'acqua e i sussurri che gli amanti, imprigionati nei giochi e nelle bugie dell'amore, si scambiano nelle notti estive?
Ma lei non amava scoprirsi o forse non poteva farlo. Quando le bugie nella gondola barocca l'avevano fatto arrossire più dei velluti svelati dalla luna, quella luna troppo grande per i riquadri stretti di cielo che le calli possono concedere, lei si convinse che la verità, come la luna, si deve prendere a piccole dosi...
Poi gli anni passarono, troppo impegnata a crescere i figli per avere tempo e voglia di cambiare, finché una mattina prese il treno e tornò a Venezia. Splendeva la città, appena sfiorata di sghembo da quella luce che gli ori impreziosivano, sfumandola nell'aria. Sbilenca ondeggiava facendole percepire la fatica e l'orgoglio della sua lotta quotidiana con l'acqua che la segnava di ferite. Rispecchiandosi in quelle ferite, lei capì che la libertà non può che essere lotta quotidiana e sorridendo annuì, lanciando un pezzo di pane a un gabbiano, mentre prendeva il notes e cominciava a scrivere. Era questo che voleva fare nell'ultimo scampolo di esistenza che la vita le concedeva - pensò, mentre il sipario calava, come sempre quando si è capito tutto o quasi, implacabile, sulla ultima recita della sua vita.

venerdì 21 agosto 2009

Chiedete e vi sarà dato... Lui disse

Ci risiamo, Santo Padre, nonostante il suo nome, Lei non ama i suoi figli, specie se di colore.
Un'emorragia di uomini, in fuga dalla fame, collassa i centri, che di accogliente hanno ormai soltanto il nome, di disperati che hanno bisogno di tutto.
Di tutto Santo Padre: di essere sfamati, rivestiti, alloggiati... Anche di preghiere, Lei dice?, ma Lui disse "Vestite gli ignudi" , "Chiedete e vi sarà dato" e, se non erro, moltiplicò pane e pesce per nutrire chi era venuto ad ascoltarLo.
A Lei che - in abito di gala, sotto la tiara impreziosita d'oro, nella chiesa profumata d'incenso - offre preghiere ai bisognosi e... solo nell'orario di apertura delle chiese, non sembra d'ispirarsi più a Maria Antonietta (che suggeriva ai parigini affamati di pane di cibarsi di brioches) che a Gesù?
Devo dedurre, Santo Padre, che Lei s'ispiri più alle regine che ai diseredati?

giovedì 20 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

"Zastros, Zaastrooos... "
La voce di sua madre gli arrivò all'orecchio, portata dal vento, mentre con altri due ragazzini lottava rotolando nella polvere.
Si fermò, esitante, e il pugno lo colse di sorpresa, atterrandolo. Si voltò furente sibilando "Vigliacco", gli occhi ridotti a due fessure dorate che comunicavano bagliori di odio, ma i due erano già in piedi, in fuga, sollevando polvere che, ultima umiliazione, gli si depositava sul viso mischiandosi al sudore e al moccio che gli scendeva dal naso.
"Zaastrooos...".
"Vengo" borbottò alzandosi e incamminandosi verso il sentiero sterrato che portava alla casa in pietra di cui s'intravedeva il tetto e dalla quale, avvicinandosi, giungeva un suono di violino e chitarra, nonché lo scalpiccio che produce un impiantito di legno percorso da ballerini.
Dopo pochi minuti sotto il porticato si stagliava la figura di sua madre: l'abito della festa con le stringhe incrociate a sorreggere e mostrare il seno ampio che scoppiava dal corsetto. Il volto, arrossato dal cibo e dal ballo, tondo e pieno, sotto il fazzoletto annodato dietro e portato basso sulla fronte all'uso slavo.
"Brutto figlio di un diavolo rabbioso, guarda come ti sei conciato. Hai fatto a botte di nuovo? Manco al matrimonio di tua zia sei capace di comportarti come si deve? Guarda il tuo vestito nuovo" e,prendendolo per un orecchio, concluse, trascinandolo all'interno della casa, lungo il corridoio buio che portava a una grande sala "Sarà tuo padre a punirti".
"Blanko, Blanko guarda come si è ridotto tuo figlio... Ha fatto a pugni come al solito!" e la donna si fermò, le mani sui fianchi davanti al marito che stava innalzando il bicchiere e inneggiando ai due "novizi" che, arrossendo, sorridevano e ringraziavano.
" Ha ragione tua madre, figlio mio... " ma il ragazzino, mentre lo sguardo si rifaceva sfuggente come quello di un gatto selvatico, mormorò "Erano i fratelli Sokol!" prima di piantarsi davanti all'uomo in attesa. "Sei sicuro?" e l'indolente mollezza dell'uomo scomparve di colpo, mentre afferrato il ragazzino ripercorreva con lui il corridoio sbucando sotto il portico e lanciando un lungo sguardo indagatore tutto intorno. "Hanno osato avvicinarsi e, da quei vigliacchi che sono, attaccarti in due contro uno, ma conoscendoti... sono sicuro che gli avrai fatto mangiare la polvere..."
Il ragazzo taceva evitando lo sguardo del padre che, dopo aver nuovamente lanciato uno sguardo in direzione del bosco agitando minacciosamente il pugno, e aver detto al figlio " Eh, tua madre..." senza attendere la risposta del ragazzo, continuò: "Sì, lo so, lei vive nella paura, ma è una donna, figlio mio!" e, ridendo e allungandogli un buffetto sulla testa, concluse "Le femmine, ancora non lo sai, sono il miele - quello migliore, d'acacia - nella vita di un uomo, ma l'onore è il sale. Un uomo senza onore è come una minestra senza sale: insulso, insipido!"
Il ragazzino ascoltava attento. Silenzioso.
"E, ora, rientriamo e godiamoci la festa, il bello è appena cominciato!"
La madre, uscita a cercarli, li incrociò lungo il corridoio. Sospettosa. Il marito le mise un braccio intorno alla vita e chinandosi le sussurrò all'orecchio "Non preoccuparti per il ragazzo: è un maschio ed è arrivato il momento che sia io, io suo padre, a educarlo. Non vorrei me lo trasformassi in una donnetta. E ora andiamo a ballare che questa è la canzone che hanno suonato anche al nostro matrimonio..."
La donna al suo fianco ridacchiò, lanciandogli un'occhiata invitante, gli occhi chiari che brillavano nel viso scurito dal sole, azzurri come il mare che occhieggiava tra i rami degli alberi laggiù dove le colline si adagiavano come gatti accucciati a bagnarsi le zampe nell'Adriatico. Il sole calava lentamente sul paese abbarbicato alla collina e sui boschi che scendevano rincorrendosi giù, giù fino al mare che circondava la penisola istriana.(continua...)

mercoledì 19 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

La carrozza correva nella notte e Sigismondo, legato e imbavagliato, giaceva sul sedile. I tre uomini, dopo averlo trascinato nel palazzo del conte Pivani, quel Giovanni che Sigismondo aveva riconosciuto, si erano tolti i costumi e, a pugni e schiaffi, l'avevano obbligato a ragiungere la locanda dove lo aspettava il suo cocchiere. L'uomo, spaventato, aveva obbedito immediatamente agli ordini ricevuti e ora guidava sicuro la carrozza ripercorrendo in senso inverso la strada in direzione di Trieste.
Il Veneziano si lasciava nuovamente alle spalle Venezia riprovando, come allora, una disperazione sorda, uno sgomento così profondo da annientarlo. In quella sua prima fuga non si era reso conto di avere ancora delle carte da giocare e un asso nella manica rappresentato dalla giovinezza, dai gioielli, ma soprattutto dal Moro. A quell'uomo sembrava che il suo destino avesse assegnato il compito di salvarlo o annientarlo... Ma era stato davvero così ingenuo il suo astuto socio da non subodorare l'inganno? E se invece avesse capito tutto e si fosse prestato al gioco per far cadere lui, Sigismondo, nella trappola e prendersi poi la sua donna, la figlia e, forse, anche la Capinera? Magari, mentre lui era lì, legato come un salame, il Moro, vele al vento navigava già in acque sicure diretto chissà dove! In fondo lui l'aveva trattato sempre con condiscendenza altezzosa e forse era arrivato il momento di gettare la maschera delle finzioni anche tra lui e il suo ex servitore. Ma mentre questi pensieri gli attraversavano la mente, la speranza, che ci sostiene nelle situazioni disperate, gli prospettava ancora vie di fuga, soluzoni rocambolesche da porre in atto per salvarsi e salvare la moglie e la figlia.
Ogni tanto qualcuno degli uomini che, stravaccati all'interno della carrozza, dormicchiavano, apriva un occhio per controllare la situazione e gli sferrava un calcio borbottando insolenze che aggiungevano alla paura e al groviglio di sentimenti contraddittori che provava anche il gusto amaro dell'umiliazione mentre il disprezzo per l'uomo che era stato, per la debolezza del suo carattere e la stupidità che lo aveva fatto cadere ella trappola che gli era stata tesa, gli calavano addosso cupi come una notte senza luna su un viaggiatore perso in una terra sconosciuta.(continua...)

martedì 18 agosto 2009

Trenta minacce di morte al giorno

Quando aprendo la posta il presidente Obama trova una minaccia di morte che cosa fa? Lui, personalmente, nulla. Presumo si limiti a consegnare la lettera incriminata a qualcuno del suo staff che, a sua volta, la catalogherà in un certo modo fino a che, a percorso ultimato, approderà sulla scrivania di chi coordina le operazioni che hanno come obiettivo la tutela del Presidente. E chi di dovere indagherà sulla pericolosità di quella minaccia che potrebbe essere un banale scherzo di qualche idiota fino alla decisione di un singolo o di una organizzazione di fare tutto il possibile per uccidere Barack Obama.
Ma lui, non il Presidente, ma Obama Barack, laureato in legge, sposato con due figlie e marito di una bella avvocatessa di colore, cosa pensa quando riceve una minaccia di morte, non un insulto più o meno pesante, ma una comunicazione con la quale un nemico invisibile, gli comunica la propria decisione di farlo a pezzi. Preciseranno anche le modalità dell'agguato, oppure si limiteranno a dirgli "ti vogliamo morto!"? E quando la folla lo accoglie tributandogli un caloroso, corale applauso, lui, facendo scorrere lo sguardo sui mille volti che lo circondano, non sente il suo cuore che smette di battere, il sudore che gli imperla la fronte, la voce che trema come la mano serrata sul microfono, alla vista di uno sguardo obliquo, di un sorriso sghembo, sardonico, sfuggente, da gatto che gioca con il topo? E' protetto dalle guardie del corpo, agenti speciali, specialissimi, ma uomini non angeli custodi.
E quando saluta le figlie, che vanno a scuola, o la moglie, che esce a fare shopping, non pensa mai che potrebbe essere il loro, l'ultimo saluto o l'ultimo sguardo e l'ultima carezza quella che lui, Obama, regala alle figlie, o scambia con la moglie? C'è il pudore che racchiude la paura, imprigionandola, relegandola in fondo al cervello, nella profondità dell'anima o esorcizzandola con la banalità della saggezza spicciola. "Se fosse il mio destino quello di..." e la parola morte non si pronuncia nemmeno, mentre nella Sala Ovale calano le ombre della sera, i consiglieri del Presidente suggeriscono e informano, le figlie giocano con il cane sul prato, circondate dalle nere bocche di fuoco degli agenti speciali disseminati come margherite sul prato al fiorire della primavera, e la moglie pensa, ma forse non lo dice, che lei lo sente l'odio, dissimulato sotto sorrisi di convenienza che i suoi cromosomi, dopo secoli di disprezzo, hanno imparato a smascherare. Guarda le figlie e pensa a Barack perché per lei è soltanto Barack, non il Presidente, e rimpiange il passato...Forse?
Nello sconfinato territorio americano, intanto, parole nere come la notte imbrattano schermi e fogli, mani di uomo o/e di donna imbucano lettere di morte, e i computer le consegnano solerti.
"Buona giornata, Presidente. Caffè forte e nero, i quotidiani freschi di stampa e la posta -
mediamente trenta minacce di morte al giorno".
Ci vuole coraggio ad avere paura, Presidente.

romanzo a puntate I Dellapicca

"Mio Dio!, ma siete proprio voi...Giovanni" sussurrò Sigismondo, mentre anche le altre due maschere mostravano il volto. Sigismondo crollò nuovamente a sedere sui gradini della chiesa mentre, minacciosi, i tre uomini lo circondavano.
"Che ne diresti di una bella partita? Come ai vecchi tempi". E senza aspettare la risposta, dopo averlo sollevato da terra, l'uomo che portava il nome di Giovanni, sputandogli addosso tutto il suo livore, gli sibilò: "Pensavi di essere al sicuro? Di averci preso tutti in giro?"
"Ho saputo che vi siete rifatti sul palazzo del Canal Grande" balbettò Sigismondo e, poi, mentre una strana luce gli balenava nello sguardo, chiese "Come...?" ma l'altro , interrompendolo, gli rispose: "Ti abbiamo cercato per mare e per terra. Sembravi esserti volatilizzato, nascosto come una "granseola" sotto la sabbia. Poi, non riuscendo a trovarti, abbiamo cercato le tracce del Moro e lui ci ha portati fino a te".
Furente Sigismondo mormorò: "Quel negro maledetto! L'avessi lasciato, quel pendaglio da forca, crepare su patibolo...Mi ha portato solo disgrazie!"
"Ma lui non ti ha tradito: è cascato nel tranello che noi gli abbiamo teso credendo alla storia che gli abbiamo raccontato":
"Allora mia madre non è morta?" chiese Sigismondo.
"Dalla vergogna e dal dolore per la tua scomparsa è uscita di senno..."
Sigismondo sentì una fitta al petto: tutto era perduto ma, e questa era la considerazione che più l'angosciava, a causa sua.
"Vi pagherò..." promise, lo sguardo che assumeva un'espressione supplice, codarda.
"Ci prenderemo la casa, il magazzino...Tutto" gli alitò addosso Mariotto, l'altro compagno di bagordi e divertimenti con il quale aveva condiviso gli anni focosi e pazzi della gioventù.
" Va bene, ma ora lasciatemi andare" implorò ancora l'uomo tremante che i tre circondavano.
" Ci prendi per donnette credulone? Ora t'impacchettiamo per bene, ti carichiamo sulla tua carrozza e ce ne torniamo a Trieste. Lì ci firmerai una dichiarazione che ci autorizzi a prendere possesso di tutti i tuoi beni..." ma Sigismondo lo stava già interrompendo con la solita frase che i vigliacchi sono soliti usare: "Io ho famiglia, mi dovete lsciare qualcosa"
"Ci è stato detto che hai una bellissima moglie! Ah, ah, ah... Usala. A Trieste i bordelli non mancano, anzi, ora che mi ci fai pensare, potremmo valutarne le doti e metterla sul piatto della bilancia a pareggiare il conto con quanto ci è dovuto". E, piegandosi in due dalle risate e dandosi manate sulla schiena i tre uomini se lo indicavano e afferrndolo lo sbattevano dall'uno all'altro, rifilandogli calci negli stinchi e spintoni. Poi, dopo averlo umiliato in questo modo, gli legarono le mani dietro alla schiena e, trascinandoselo dietro come un cane riluttante a seguirli, si inoltrarono nell'intrico, ormai silenzioso e deserto dei vicoli.

lunedì 17 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Venezia si stordiva nel Carnevale, in un'allegria che lasciava sottintendere rimpianti inconfessabili, trasudanti dalle lacrime disegnate sui volti di gesso dei pierrot e dalle manfrine dei cicisbei al seguito di dame distratte, che lasciavano cadere il fazzoletto o agitavano il ventaglio, in un rituale che andava assumendo un'aria stantia, un dejà vu che Sigismondo, invece, notava con stupore per la prima volta. Come tutti coloro che abbandonato un luogo per troppo tempo lo idealizzano, stentava a riconoscere in quella Venezia, anche se gravida di ricordi, la città che aveva costruito e conservato nella sua memoria. Ciò che vedeva non aveva più nulla a che fare, se non come versione umiliata, con la sua città. Scattava, automatico, il confronto con Trieste, città che si ampliava, cresceva e si abbelliva sulla scia di un porto in piena espansione e del fiume di denaro che traeva origine da uno sviluppo commerciale che non conosceva pause. Provato dalla fatica del viaggio e squassato da emozioni violente, cercava nell'intrico delle vie che la notte, ormai scesa sulla città, rendeva difficilmente distinguibili, una vecchia locanda dalle parti dell'Arsenale, con stanze di poco prezzo e proprietari che non facessero domande.
Il suo passo si andava facendo strascicato, mentre una grande stanchezza lo coglieva e, dentro di lui, franavano, alla vista dell'abbandono che traspariva dai muri scrostati e nell'afrore di marcio che esalava dai canali, il ricordo e l'orgoglio per il suo essere veneziano. La decadenza della città gli rimandava l'immagine della sua disfatta che coglieva con una lucidità inusuale e devastante.
Si sedette per riprendere fiato sui gradini di una chiesa e si prese la testa tra le mani, mentre davanti agli occhi gli passavano i ricordi di una città fastosa e della vita che lui, l'elegante, raffinato conte Dellapicca, vi aveva condotto, sotto lo sguardo amorevole di sua madre che gli sorrideva allungando le braccia per stringerlo a sé...ma un rumore di passi affrettati attirò la sua attenzione, distraendolo dai suoi pensieri. Tre maschere avanzavano verso di lui, guardandosi intorno. Guardinghe. La più colorata, un Arlecchino dai colori sgargianti, gli si parò davanti. Sigismondo, rendendosi conto dell'ora tarda, della piazza deserta, dell'evidente disparità numerica, nonchè fisica, ebbe un moto di paura e si alzò, incerto, fissando l'Arlecchino che stava improvvisando a suo uso e consumo piroette e inchini. Osservandolo più attentamente, Sigismondo ebbe la sensazione di conoscerlo poiché la maschera che portava gli incorniciava solamente gli occhi, lasciando libera una bocca dalle labbra sottili, e un naso, appena arcuato, aristocratico. La sua attenzione si concentrò su quella bocca e sulle mani, ornate di anelli, mentre il cervello gli rimandava l'immagine di una mano maschile che si allungava, bianca, quasi femminea nella sua mollezza, a prendere una carta da gioco.
L'uomo si strappò la maschera dal volto, lasciandola cadere a terra mentre Sigismondo, la bocca spalancata dalla meraviglia, lo riconosceva.(continua...)

domenica 16 agosto 2009

Scrittura

Gli scrittori sono curiosi? Sì, ma qual è la curiosità che li contraddistingue? Non è certo il gossip, è piuttosto la voglia di conoscere la conclusione o l'evoluzione di una storia, forse per verificare la loro capacità di analisi dei personaggi, l'abilità di calarsi nei loro panni in una sorta d'identificazione per ipotizzarne verosimilmente i comportamenti o le scelte. Penso che uno scrittore sia - come un attore a livello interpretativo - in grado di sviluppare una storia anche partendo da uno spunto apparentemente poco importante o, secondo chi scrittore non, è scarsamente incisivo. Ha osservato un amico mentre si vestiva e, nella sua testa, ha preso forma il protagonista di una storia. Quel giorno l'aveva visto sostare pensoso davanti all'armadio, un occhio agli abiti appesi e un altro alla finestra, cercando di indovinare la temperatura e l'evolversi di quelle nuvole in corsa. Lo scrittore, da quell'osservatore che è, aveva già notato quel qualcosa in più, un'esitazione, un'altra occhiata alla finestra mentre la mano saliva ad accarezzare il mento, lo sguardo che si perdeva nel vuoto. Il protagonista era distratto, la sua mente altrove, i gesti, dettati dall'abitudine, risultavano privi di grinta, anzi la grinta in quest'uomo, se mai c'era stata, ora non c'era più. Era un uomo in crisi, ingabbiato in una routine che fino a quel momento era riuscito ad accettare ma che, in quella mattina in cui qualcosa dentro di lui si era spezzato, senza fare nemmeno crac tanto era usurato e sottile quel legame che ancora lo univa alle sue rassicuranti e noiose abitudini, gli era diventata insostenibile. E lui, lo scrittore, lo descrive, ne tratteggia la noia, il disagio che gli serpeggia sotto pelle. Poi, cercherà le motivazioni di quel malessere facendo decollare la storia in chiave fantastica: in quale città, periodo storico, classe sociale collocherà il suo protagonista? Qui la fantasia dello scrittore deve cedere il passo al lavoro organizzativo che include quasi sempre una ricerca. E' la parte meno creativa ma è quella che dà al protagonista uno sfondo scenografico, un'appartenenza che consentirà all'autore di passare alle parole che, pensate, sussurrate, scambiate con un interlocutore, daranno il via alla storia, rispettando il nesso logico che lega i dialoghi al luogo e al tempo della narrazione.
A questo punto lo scrittore attingerà a tutto ciò che ha sbirciato, ascoltato, immaginato, ipotizzato, ai mille sguardi di troppo che ha lanciato su seccati passanti, ai dialoghi origliati sui tram, alle associazioni fantasiose che traggono vita da tratti fisionomici, elaborate sulla base di sguardi rivelatori o presunti tali, bocche serrate su confessioni impossibili, mani artigliate a contenere angoscia o dare la stura all'allegria.
L'archivio di storie da raccontare si baserà su quella vasta gamma di spunti che la sua curiosità gli ha permesso di raccogliere e archiviare. Un ultimo consiglio: tenetevi lontani dagli scrittori: sono divoratori bulimici di vite altrui.

sabato 15 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo dal finestrino della carrozza vedeva scorrere il paesaggio che le prime avvisaglie dell'autunno velavano di nebbie mattutine. L'arroganza dei colori estivi cedeva il passo, sfumando, ai toni dell'ocra e del marrone. Ricordi d'infanzia si affastellavano nella sua mente: rivedeva la madre salutare il marito, tenendolo per mano, mentre l'uomo si chinava a baciarlo e, senza voltarsi indietro, saliva quasi correndo lungo la scaletta del veliero che si staccava dalla riva puntando, maestoso e terribile, con le vele che raccoglievano il vento e le bocche da fuoco lucide e oliate, verso il mare aperto, sulla scia degli altri che lo precedevano: il volto intatto di sua madre - giovanissima - che arrossiva sotto la parrucca bianca e il velo della cipria... E rivedeva la stessa nave avanzare nel chiarore dell'alba e attraccare in un silenzio irreale, mentre uomini stanchi, feriti nell'anima e nel corpo, cominciavano a scendere cercando nella folla di donne e bambini in attesa...Erano rimasti fino a quando tutti gli uomini erano scesi e la brezza aveva smesso di soffiare e anche il sorriso era scomparso dal volto di sua madre che, stringendolo tra le braccia, aveva ripreso la strada di casa. Poi, era vissuta, viziandolo e coccolandolo, per lui che l'aveva abbandonata...

Si fermarono a una locanda per mangiare e sostituire i cavalli, stremati e lucidi di sudore. Un'ansia immotivata spingeva il Veneziano a gridare "Presto, presto" al cocchiere, mentre il paesaggio mutava in quello tipico lagunare e un'eccitazione insolita, un tremore interno gli facevano brillare lo sguardo. Tornava a Venezia, la sua Venezia di cui cominciava a scorgere qualcosa, quasi un baluginio d'oro lontano, nel cielo che scuriva, mentre l'odore stantio dell'acqua immota gli solleticava le narici. Lo sentiva o lo ricordava?
La città, da miraggio appena intravisto, si andava materializzando - o ancora immaginava? - in tetti, cupole, campanili, sussurri, sciabordio d'acqua, rumore di passi e suoni di risate. Quando, lasciati nell'ultima locanda sulla terraferma carrozza e cocchiere dopo essersi vestito da paggio con la maschera sul viso, imboccava la via d'accesso alla città, proseguendo a piedi e avventurandosi nell'intrico di calli della città d'acqua, il cuore gli batteva forte come a un appuntamento galante quando il desiderio scorre così violento nelle vene che sembra di volare. Era così emozionato Sigismondo, così preso da quelle strette viuzze che ritrovava e che gli sembrava lo riportassero non solo a un luogo lontano ma anche a un tempo passato che sembrava ritornare, da pensare che fosse possibile imboccare la prima via a destra e poi la seconda a sinistra, attraversare la piazzetta, salire su quel ponte, delicato come un pizzo, per trovarsi davanti al portone del suo palazzo, alzare gli occhi a inquadrare le finestre tutte d'oro e sua madre che lo attendeva, sbirciando dietro alle tende...
Era così distratto da non aver notato che nel turbinio di risate, fruscii di seta e voci che si rincorrevano, un Arlecchino non lo perdeva d'occhio e il suo costume colorato appariva e scompariva nella sera che ormai avvolgeva la città, mentre i suoi passi ritrovavano itinerari mai dimenticati nella città che l'acqua, instancabile, circondava e cullava.(continua...)

giovedì 13 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Maria si era ripresa e Sigismondo era scivolato giorno dopo giorno nelle vecchie abitudini quando, una mattina, alcuni colpi battuti con impazienza alla porta lo scaraventarono giù dal letto.
Scese, incespicando ancora assonnato nei gradini, e borbottando un " Vengo, vengo...un minuto di pazienza" fece scorrere il chiavistello, inquadrando il volto del Moro.
"Allora cos'è successo di tanto grave da buttarmi giù dal letto a quest'ora?" chiese.
"Vostra madre e morta!"
"Morta?!" esclamò il Veneziano, aprendo il portoncino e accasciandosi subito dopo su una delle sedie dell'ingresso, mentre la madre gli tornava alla memoria nell'ultima immagine che aveva di lei che, alla finestra del palazzo sul Canal Grande a Venezia, si sporgeva a salutarlo - ignara della decisione da lui presa di fuggire dalla città. Meccanicamente chiese al Moro "Come l'hai saputo? Ma è una notizia certa?"
"Al porto mi sono fermato a bere e a scambiare due chiacchiere con tre mercanti veneziani e, nel discorso, uno ha rammentato all'altro dei due che sarebbe dovuto ripartire immediatamente per Venezia, dove lo aspettava, per festeggiare la nomina appena conferitale, la nuova badessa del Convento delle Carmelitane Scalze". "Be', ma questo cosa c'entra...?"
Il Moro lo zittì con un'occhiata, proseguendo "L'altro si è intromesso chiedendo che fine avesse fatto la vecchia madre badessa - che lui conosceva molto bene - e non vi dico la faccia che ha fatto venendo a sapere che era morta nel crollo di uno dei soffitti del convento assieme ad alcune monache e alla contessa Dellapicca"
"E se si trattasse di qualche vecchia cugina?" mormorò con una punta di speranza Sigismondo.
"Per essere sicuro, a questo punto, sono intervenuto, fingendo di non sapere nulla di voi e ho detto:"Avevo conosciuto un conte, un certo Sigismondo Dellapicca. Sono passati parecchi anni, ma lo ricordo bene perché mi ha spennato al tavolo da gioco". E, abbassando la voce, continuò: "Mi hanno tolto ogni dubbio", poi, dopo una pausa di esitazione, concluse:"Hanno detto letteralmente che la contessa era finita in convento dopo che il figlio era scomparso da Venezia, abbandonandola alla sua sorte, o meglio malasorte, a vedersela con i creditori che l'avevano spogliata di tutti i suoi beni. Be',i particolari ve li risparmio".
Ma Sigismondo sembrava non ascoltarlo più. Lo sguardo fisso su un punto imprecisato se ne stava immobile ignorando il Moro che, con un colpo di tosse imbarazzato, dopo averlo salutato, uscì dalla casa.
Sigismondo era rimasto immobile fino a quando, sentendo un passo lungo il corridoio, aveva alzato la testa vedendo entrare la moglie, l'espressione del volto che lasciava intuire avesse sentito il breve scambio di parole tra i due uomini. Si era alzato, andandole incontro, mentre, improvvisamente agitato, le diceva: "Parto per Venezia, oggi stesso. Devo dire una preghiera sulla tomba di mia madre".
" Mi dispiace...Vuoi che ti accompagni?"
"Sarebbe pericoloso" le rispose il marito.
"Perché?"
Sigismondo le lanciò unocchiata obliqua, poi, in fretta rispose: "Impazza il Carnevale, non è il caso" e, salendo al piano superiore le gridò: "Sveglia il cocchiere".
Dopo poco la carrozza partiva a tutta velocità mntre Sigismondo, che aveva infilato in tutta fretta, per non essere riconosciuto, il costume da paggio nel baule issato sulla carrozza, si lasciava andare ai ricordi.

martedì 11 agosto 2009

Aggiornamento di "Addio compagni"

Il compagno era un sognatore, un tenace, inguaribile sognatore. Il compagno era uno che credeva che il futuro avrebbe portato un mondo migliore. Per tutti. Era corretto, rigoroso, un po' spaccaballe, certo un po' serioso. Aveva un forte senso d'appartenenza il compagno.
Era onesto, sì, anche se può far ridere in un mondo come questo, lui era onesto e, quindi, un po' démodé, come il suo pugno alzato e l'Internazionale che a sentirla gli veniva sempre il groppo in gola.
Quando il compagno era una compagna, i suoi sogni si facevano ancora più audaci, quasi deliranti...
Dove siete finiti, tenaci, inguaribili sognatori convinti che il futuro avrebbe portato un mondo migliore? Voi così corretti, rigorosi, anche un po' sentimentali - che l'Internazionale l'ascoltavate in piedi, come a messa, levandovi il cappello - dove siete finiti? Cosa vi ha fatto smettere di sognare, a chi avete creduto, voi, così puntigliosi e attenti, di chi vi siete incautamente fidati? Vi facevate riconoscere subito, forse perchè in un mondo come questo eravate mosche bianche: mai al passo con i tempi che i padroni, per voi, sempre padroni erano, e bisognava diffidarne, e le donne controllarle perché il prete non le facesse votare male.
Certo eravate seriosi e anche un po' spaccaballe ma...mi mancate, compagni!

Amarcord

In uno dei miei post rispolveravo ricordi d’infanzia e nel farlo, mi colpiva quell’immagine di ragazzina che non leggeva i quotidiani, che si annoiava assistendo a Tribuna Politica.
Era considerata “roba da uomini”, come il calcio, fare a pugni, o smadonnare. Le studentesse leggevano “Grazia”, le sartine e le commesse fotoromanzi.
Come viveva negli anni Sessanta una ragazza di estrazione piccolo borghese, in una cittadina di provincia?
Beh, devo dire che ciò che mi rendeva particolarmente diversa era la presenza di quel padre, così ingombrante in tutti i sensi. Troppo diverso dagli altri padri e incredibilmente severo, non disposto a concedere, a me e mia sorella, la minima libertà a meno che le nostre richieste non avessero alla base una valenza culturale.
Andare a un festino - si facevano in casa con quattro aranciate, qualche panino e il giradischi - era un’impresa epica. Valenza culturale: inesistente. Permesso di andarci: negato.
I maschi uscivano, le femmine, blindate.
Capii in quegli anni quanto il modo di vivere la sessualità, che mi sembrava eguale, fosse diverso.
Poi l’università: laurea in economia e commercio, matrimonio e nascita del primo figlio.
Ai colloqui di lavoro, storcevano il naso sentendo che avevo un bambino. La mia famiglia era lontana, mio marito lavorava all’estero. Cercai un lavoro che mi consentisse di conciliare …l’inconciliabile: maternità e lavoro. Avrei scoperto, anni dopo, che le poche donne che si erano laureate con me avevano “scelto” in massa l’insegnamento.
La maternità aveva istituzionalizzato la diversità: la disparità era aumentata a dismisura. Nato da un uomo e una donna, mio figlio fu allevato da un genitore soltanto: è facile immaginare quale. Battagliai per il secondo, chiedendo aiuto e collaborazione. Con il terzo figlio subentrò la rassegnazione.
Mi sentivo tradita …e non era soltanto una sensazione.
Il marito aveva fatto carriera, lui; era sempre in giro per il mondo, lui, mentre io percorrevo in lungo e in largo il perimetro della mia casa prigione. Una sera, complici la stanchezza di troppe notti perse e la luce tenue del comodino, nello specchio mi sembrò di vedere mia madre. Il cerchio si chiudeva intorno a me: ero di nuovo prigioniera. I tradimenti divennero spudorati, appena venati d’imbarazzo.
Io tacevo e pativo.
Mio marito mi guardò sorpreso, vagamente seccato, quando gli comunicai la mia decisione di andarmene. Pensava che con tre bambini piccoli non ce l’avrei fatta.
Si sbagliava.
La dura scuola alla quale ero cresciuta mi salvò. Ma ce la feci perché, vissuta in un ambiente politicizzato, avevo coscienza dei miei diritti, ero economicamente autonoma perché lavoravo, la laurea mi aveva dato una preparazione che mi permise, quando il mio ex marito non pagò più gli alimenti, di investire in borsa, uscendone prima del disastro.
Fu durissimo e senza la protezione familiare (mio padre era morto, mia madre non aveva approvato la mia scelta di separarmi, indicandomi la via della sopportazione e/o rassegnazione) mi resi conto di quanto fosse difficile vivere la condizione femminile, senza un uomo accanto e con tre figli piccoli. La ventata di libertà del ’68 , la speranza di poter avere “tutto e subito” non era più nemmeno un borin…
Le donne della mia generazione, avendo conquistato il diritto di divorziare, abortire, vivere la propria sessualità, hanno avuto una facoltà di scelta che le madri non ebbero, ma il filo rosso della continuità tra le generazioni, impostato sull’accettazione, la rinuncia, il sacrificio femminile connessi alla dipendenza, anche e soprattutto economica, si era spezzato. Avevamo scelto di non identificarci in modelli femminili che consideravamo perdenti e per molte la lacerazione dalle madri che si sentirono spesso tradite, fu pesante. Il buon senso, la saggezza femminili, noi che avevamo vissuto il ’68, li avevamo gettati a mare, crescendo le figlie in modo nuovo, diverso, muovendoci su un terreno sconosciuto. La complicità, che si espresse nella sorellanza, fece emergere l’invidia femminile, i piccoli ambigui giochi di potere di chi non avendone, era stato abituato a tramare nell'ombra. Questi figlie senza padre, con madri impegnate nel lavoro, hanno avuto, diventate adulte, non pochi problemi. Nonne e madri contrapposte e spesso in aperto conflitto provocarono perdita di radici comuni e, quindi, di sicurezza, difficoltà a identificarsi, acquisendo una individualità autonoma. Il tutto in un tourbillon di nuovi compagni e compagne dei genitori che, allargando le famiglie soltanto in senso quantitativo, toglievano loro spessore. Il femminismo ci aveva dato molto, ma ci aveva lasciate anche con le ossa rotte, frantumate in pezzi che non si sarebbero mai fusi del tutto.
C’è una specificità femminile che ci rende diverse, profondamente, dagli uomini e questo primo limite del movimento femminista, che ci voleva trasformate in maschietti secondo un ingenuo concetto di parità, io ( come molte altre donne) l’ho vissuto sulla mia pelle e dolorosamente.
Il nocciolo duro della diversità è la maternità, che ha ben poco a che fare con la paternità. C’è una sessualità che ha una valenza emotiva diversa più esigente e coinvolgente. Noi siamo madri anche se non abbiamo figli, siamo intessute di maternità, così come i maschi pensano e agiscono in funzione sempre della sessualità. Al di là del mondo maschile, logico e razionale, non c’è il vuoto, c’è un’altra cultura, legata alla natura, al corpo, a tempi biologici stringenti che ritmano un altro mondo, quello femminile che non è inferiore, è soltanto diverso.
Ma il potere, quello economico/finanziario, è nelle mani dei maschi. Saldamente. E qui la diversità diventa inferiorità. E, a questo punto, nella attuale realtà economico/sociale di grande crisi, questa inferiorità alza un muro davanti alle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e le ultime a trovarne uno nuovo.
La tregua che sarebbe potuta nascere, capendo finalmente che la diversità non va combattuta, ma accettata e valorizzata, che non deve far paura, ma incuriosire, che non è scarsità, ma ricchezza, si è rotta nuovamente tra maschi e femmine. Questo è un altro pesante problema che possiamo addebitare alla crisi e non è un problema da poco, perché rimanda quel confronto lucido, serrato tra uomini e donne a data da destinarsi, contribuendo a incancrenire i problemi esistenti.

lunedì 10 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Quando riapriva gli occhi le facevano ingoiare cucchiaiate di uno sciroppo amaro come il fiele. Andò avanti così per giorni, squassata dalla febbre, fino a quando, una mattina, Maria si sollevò, rizzandosi a sedere sul letto, e lasciando scorrere lo sguardo intorno a sé. Stranita. Quanti giorni erano passati vagando in quegli incubi che l'avevano collocata al di fuori del tempo e dello spazio? Ma ora guardandosi attorno riconosceva i luoghi, ritrovando i suoi punti di riferimento, gli oggetti che sancivano le sue abitudini, il volto della figlia, il brusio che saliva dal vicolo, i raggi del sole che s'insinuavano prepotenti nella stanza.
Era viva e aveva fame.
Teresina le cinguettava intorno descrivendole la disperazione di Sigismondo, le visite continue dello speziale che, tetro, aveva formulato le ipotesi peggiori tra cui anche la perdita del senno o della memoria...E, invece, ricordava tutto, anche quei terribili momenti, quando disperata si era gettata in mare. Maria non rispondeva: pensava. Ma davvero aveva deciso di uccidersi e la sua mente sconvolta le aveva fatto balenare davanti agli occhi il Moro, in tutta la sua prestanza, seminudo e bellissimo, per indurla a gettarsi tra le onde? O più semplicememte, e la sua natura pratica e spiccia la induceva a ritenerla l'ipotesi più valida, intonita dal sole, sfiancata dalla fatica della strada percorsa in fretta, digiuna, lo stomaco e la mente sottosopra per quella maternità che le piombava addosso in un momento già molto difficile, aveva avuto un mancamento credendo di vedere il Moro, soltanto perchè era a lui che pensava quando aveva perduto conoscenza?
Era stata al suo capezzale ad assisterla anche la madre che, dall'espressione cupa e dalle occhiate oblique che ora, muta e arcigna, le indirizzava, doveva aver saputo qualcosa o dalla servetta o da qualche sua frase mormorata nel delirio. Non gliene importava molto, si era salvata, stava bene e avrebbe fatto tesoro del suo tempo a venire. Aveva guardato in faccia la morte, forse per qualche secondo l'aveva seguita nel suo mondo di gelo e di nebbia, ma era riuscita a sfuggirle, lasciandole tra le dita soltanto quell'accenno di vita che si era portata in grembo. Ripensò a quel bambino che non aveva voluto, che aveva accolto come si accoglie un intruso, pensando soltanto a scacciarlo, e un dolore, che assumeva il sapore aspro del rimorso, le alterò lo sguardo. Sapeva, come ogni donna sa, anche se giovanissima o sventata, che quel bambino non voluto sarebbe rimasto nel suo cervello, carne della sua carne sarebbe riemerso a tradimento nei sogni, avrebbe alimentato gli incubi e se lo sarebbe portato dietro fino alla tomba, cercandolo e trovandolo in ogni sguardo o balbettio di bambino, perché ogni donna è madre nell'anima e nel cervello prima che nel corpo, e la maternità, struttura portante della sua identità - accolta, negata o anche soltanto fantasticata - ne costituisce l'essenza.

domenica 9 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Di nuovo quel suono cupo, pesante, un rintocco di campana a morto.
Soffoca: fluttua nell'acqua. La gonna le si allarga intorno facendola sembrare una medusa. Paura? No! Dov'è il Moro? Si nasconde? E' inutile gridare anche se ora ha freddo. Mostruose creature marine, ghignanti, verdi di pelle e occhi l'afferrano. Mio Dio, una è Angela, l'altra... la sorella? Ridono, ridono, risate che sembravano singhiozzi nell'acqua che riempie le loro bocche spalancate. Non riesce ad afferrarle. Le sfuggono...
"Aggrappatevi alla gonna".
"Calmati! E' tutto finito, stai tranquilla"
Perché ridono? La stanno trascinando verso il fondo, l'acqua è sempre più scura.
Non le vede più, ma le sente ridere.
"Fate silenzio! Fate silenzio!"
Il mare è rosso, ora è un mare di sangue che le entra in bocca, la soffoca, dolce, nauseabondo...Le bambine colano a picco, lei tenta di trattenerle, ma le sfuggono dalle mani e scendono, scendono là dove l'acqua si fa scura e densa, mentre lei risale, liberata da quelle mani aggrappate alla sua gonna, sale verso la luce e...
"Svegliati Maria..."
"Svegliati!"
Qualcuno la scuoteva, obbligandola ad aprire gli occhi... Sigismondo? Sembrava verde anche lui, mentre la guardava con un'espressione strana, come stesse soffocando: lui... come se gli mancasse l'aria.
"Ma cosa hai fatto?"
Cosa aveva fatto? Era annegata, aveva rischiato di annegare.
Balbettò.
"Sono scivolata. Sui sassi"
"Hai perso il bambino. Lo sapevi di aspettare un bambino?"
"Sì!"
Finalmente riusciva a parlare, tentando di giustificarsi, mormorò "... Bagnarmi la fronte, forse sono svenuta".
Sigismondo la guardò dubbioso.
"Se non ci fosse stato quel pescatore...Ti ha sentita gridare".
"Angela dov'è? E' annegata anche lei?"
"Ma cosa dici? Riposa, riposa" le sussurrò Sigismondo, provando nel sentire che nominava l'altra figlia un lungo brivido e in gola il sapore aspro del rimorso.
Prima di ripiombare nel sonno sentì un parlottio. Riconobbe la voce di Teresina. Si calmò.
Un cucchiaio le stava scivolando in bocca: sputò. Non voleva essere disturbata. Il suo corpo le rimandava ondate di dolore e brividi di febbre, mentre cedeva a un sonno agitato che si popolava nuovamente di incubi. (continua...)

Romanzo a puntate I Dellapicca

Balzò in piedi e gli corse incontro, allungò le braccia e strinse a sé il nulla. Sconvolta, confusa, Maria fece ancora qualche passo, il terreno che, di colpo, sprofondava sotto ai suoi piedi. L'acqua le arrivò alla gola, mente gli abiti, inzuppati e pesanti, la trascinavano verso il fondo. Sprofondò e l'acqua l'avvolse, come in un acquario. L'istinto di conservazione e l'immagine della figlia la spinsero di nuovo, boccheggiante, con la testa fuori. Ingoiò aria, acqua, gli occhi che le bruciavano, mentre annaspava muovendosi scompostamente, combattuta tra il desiderio di lasciarsi andare, smettere di lottare e la voglia di vivere. Poi, tutto scomparve e una coltre nera le calò sugli occhi, mentre il suo corpo fluttuava leggero e i capelli si allargavano intorno a lei sfiorandole il volto, avviluppandosi intorno al collo quasi volessero imprigionarla o proteggerla.
"Si sta svegliando..."
"Sst! Parlate piano..."
"Grazie a Dio!"
Questa era la voce di Teresina, ne era sicura. Aprì la bocca per parlare e il dolore al basso ventre la trafisse. Confusamente ricordò la sensazione di soffocamento, l'acqua. Allora non era morta. I morti non soffrono, oppure sì? Aprì un occhio e vide Teresina e il marito. Accanto a lui un uomo che conosceva...Chi era? Eppure l'aveva già visto. Lo speziale, ecco chi era.
"Teresina" mormorò e la ragazza si chinò.
"Maria che cosa hai fatto?" Era la voce di Sigismondo, ma diversa. Non sembrava nemmeno la sua voce. Si avvicinò e le prese una mano.
"Cerca di dormire ora. Hai bisogno di riposare".
Lei annuì, era troppo stanca per rispondere, e ripiombò in quel suo mondo nero, buio come la notte più profonda che, stranamente, non la spaventava.
Sigismondo chinandosi verso Teresina le disse:"Vegliala tu per un paio d'ore. Poi, svegliami. Sono stravolto, ho bisogno di riposo. Tra qualche ora ti darò il cambio. Lo speziale è ottimista: anche se ha perso il bambino, se la caverà".
La ragazza annuì e, abbassato il lume si sedette accanto al letto. Sentì parlottare i due uomini alle sue spalle, poi la porta si aprì richiudendosi con un tonfo attutito.
Da un campanile giunse un rintocco di campana. Lugubre.
Poi sulla stanza calò il silenzio. Il volto di Maria, pallidissimo nella luce fioca sembrava quello di una morta e Teresina si chinò più volte per sentirne il respiro, borbottando tra sé e sé confuse preghiere e domande senza risposta. Fuori la notte avvolgeva la città in un'oscurità che solo le luci sulle barche dei pescatori al largo, spezzavano, baluginando fioche come fiammelle sulla nera superficie del mare.
Il Moro, ignaro, dormiva nella sua cabina sulla Capinera, cullato dal rollio del veliero.
(continua...)

sabato 8 agosto 2009

L'Italia non è un Paese normale

Dal diario di Maria Rossi, professoressa.

Profilo di Tilvio Terlusconi.

L'alunno è deboluccio in Italiano, un vero disastro in Storia, non conosce nemmeno i nomi dei sette re di Roma. Poco riflessivo. Abituato a spararle grosse per fare colpo sul suo interlocutore. Non si confronta con chi gli sta di fronte, si scontra. Un po' arruffone ma portato al comando, se sbaglia, non lo ammette. Nonostante le mie reiterate spiegazioni - tanto per fare un esempio - considera il termine unanimità sinonimo di maggioranza. Non sarebbe stupido, ma c'è qualcosa in lui...
Pizzicato a copiare dal Brunone, quello sì un bravo studente, polemizza dicendo che se la maggioranza copia, i copiatori sono maggioranza e io, pagata con il denaro dei contribuenti per insegnare, non posso attaccarlo, infastidendolo, ma devo permettergli di farsi i suoi affari. In pace.
E', infatti, un traffichino. Si mormora - ma non si è mai potuto provarlo - sia solito rubacchiare i compiti dai cassetti dei docenti, in Sala Insegnanti, per poi rivenderli. Sembrerebbe aver sedotto, a questo scopo, la bidella. Ha fatto parecchi soldi, troppi per questo, sia pur lucroso, commercio di compiti. E' belloccio ma piccolo, destinato a inquartarsi e, alla cena di maturità, avrei giurato avesse il rimmel. Mah?!
Attitudini: "venditore nato". Ha venduto ai più ingenui lo stesso compito, maldestramente modificato, più volte. Mi è stato detto che, atteso fuori dalla scuola per fargliela pagare, si è presentato con i carabinieri, convinti della sua innocenza da testimoni falsi, da lui ricompensati con copie gratuite di compiti. E', infatti, bugiardo, ma molto persuasivo. Una volta l'ha fatta grossa: ha rubato dal cassetto del preside riuscendo a cavarsela con un ricatto. Ha promesso alla Rosina, la Mantegani che ha le più belle tette di tutta la scuola ma è un'oca, di sposarla se lei avesse inguaiato il preside. E quella scema l'ha fatto e ha pure perso l'anno per la disperazione di essere stata piantata.
Nel tema assegnato in classe "Cosa vorreste fare da grandi" ha dichiarato di voler diventare Presidente della Repubblica, Papa o L'Uomo più Ricco d'Italia. Povero Tilvio, mi fa quasi tenerezza, quanti sogni destinati a finire in un cassetto! E lui? Be', in un Paese normale: nelle patrie galere!

venerdì 7 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Maria, appena i due uomini si furono allontanati, si rivolse a Teresina. "Allora, cosa ti ha dato?"
Teresina scosse la testa, dicendole:"Nulla! Teme l'ira, se venisse a saperlo, del padrone". La donna davanti a lei la guardò con un'espressione che non riuscì a decifrare, poi, dopo essersi avvolta le spalle nello scialle e averle detto "Bada a Angela", aprì il portoncino e uscì. La servetta borbottando "I xe tuti mati!" salì al piano superiore a svegliare la bambina.
Maria, percorso il vicolo, si diresse verso il porto. Sentiva il bisogno di calmarsi e riflettere in solitudine. Conosceva una stradina, poco più di un sentiero tra i rovi, che scendeva verso il mare concedendo l'accesso a una lingua di terra sassosa dove in primavera fiorivano le ginestre.
Camminò a lungo, di buon passo, il borin che scherzava con i suoi riccioli e le gonfiava la gonna, lasciandosi alle spalle la frenesia di carretti, uomini, merci e velieri del porto. Il mare, alla sua sinistra, riluceva sotto il sole. Alla sua destra pini marittimi si arrampicavano sulla collina tra bianche rocce che inasprivano il paesaggio. Eccolo! Il sentiero si distingueva a stento e scendeva ripido. Svoltò e con cautela incominciò a scendere. La gonna la impacciava e, con gesto deciso, la sollevò avanzando a fatica tra rovi e sassi. Lo scialle s'impigliò in un ramo, strappandosi. Lei sorrise e lo lasciò sventolare come una bandiera. L'avrebbe ripreso al ritorno: era accaldata e stanca, ma si sentiva meglio.
Il sentiero davanti a lei si aprì e Maria si lasciò scivolare a terra, sfinita. Intorno a lei lo stridio roco dei gabbiani rompeva il silenzio. Il mare l'affascinava, facendola fantasticare. A volte si alzava per vedere sorgere il sole o, in albe in cui grigia sfumava la notte, restava alla finestra lasciando scivolare lo sguardo sulle rocce bianche come fantasmi che la luna, primo di scolorare nel cielo, illuminava. Amava quella sua città battuta dal vento, eccessiva nella sua vitalità ridanciana, arrogante ma genuina.
Un rumore turbò la quiete, facendola sobbalzare spaventata. Qualcuno nuotava con ampie bracciate dirigendosi verso la spiaggetta. Pochi minuti e, irreale come un miraggio e altrettanto sconvolgente, emergeva dall'acqua, in un arcobaleno di spruzzi iridescenti, il Moro. (continua...)

Debiti e morale

Girando pochi giorni fa per Milano, dove ogni trecento metri si trova una banca, mi chiedevo cosa ci facciano in un'economia alle corde, consumi al lumicino e fabbriche che chiudono, tutte quelle banche?
Aspettano i clienti in difficoltà per concedere loro credito. Anche se non possono garantire con il lavoro? Ma cosa volete che sia, una firmetta qua e una là e opslà, tutto, ma proprio tutto compresa la catenina d'oro della nonna è ancora tuo, ma non è più tuo. Se non fossi in grado di onorare il debito la banca si rifarebbe sui tuoi beni. Anche su quelli di tua moglie, suocera, figlia. Ti hanno chiesto una firmetta in più, data dai tuoi familiari. Si chiama fideiussione: è una trappola mortale.
Quando cominciò il cambiamento, il predominio delle banche all'interno del sistema? Quando non bastò più la delocalizzazione delle imprese, in paesi dove si pagavano stipendi da fame, quando ci si rese conto che si poteva guadagnare di più, e più in fretta, con la gestione finanziaria che con quela industriale? Stanco dell'economia reale, dei suoi tempi lunghi, della fatica del produrre un bene dopo l'altro, l'Occidente vide brillare il miraggio di un'economia finanziaria che viaggiava sui computer con sposatmenti velocissimi di moneta scritturale, intestata a nomi di comodo, libera da lacci e lacciuoli e imposizione fiscale. Il Paese di Bengodi aveva acceso le sue luminarie. La globalizzazione lo consentiva: denaro per tutti. Si compra oggi, si pagherà in futuro. L'economia finanziaria, però, si basa sui debiti. Non è solo immorale, è stupido e si rivelerà devastante. Ma che cosa se ne fa una banca, al di là delle garanzie che la mettono al riparo dalle perdite, di crediti di dubbia esazione? Non li tiene, sono esosi ma non stupidi, li cede a intermediari finanziari che, a loro volta, li cederanno a altri intermediari sul mercato. Più la pende più la rende - dicono dalle mie parti.
Questa facilità di trasferimento dei crediti ha un altro nome - che ai più astuti dovrebbe far drizzare le orecchie. Si chiama cartolarizzazione. Forse perché quello che stanno vendendo è carta straccia? Ma qualcuno i soldi li dovrà pur dare? A darli saranno i risparmiatori, opportunamente indirizzati dai consulenti per gli investimenti. Mai sentito parlare di Hedge Found? Più alto diventa il rischio, più alto il rendimento e così i gonzi ci cadono. Il cliente risparmiatore conferisce i suoi risparmi alla banca e lei li investe. In cosa? In titoli che compera in giro per il mondo oltre che a casa propria. In Argentina per esempio. Dove il rischio paese è alto? Sì, ma anche il rendimento. Poi le informazioni sul titolo sono buone...soltanto che chi le dà sono le società di rating, è pagato dalle banche che dovrebbero controllare. Qui si prefigura un conflitto d'interesse, ma sappiamo che è una mania, una sorta di chiodo fisso in questo paese! Quindi sorvoliamo...
La banca lucra le commissioni di sottoscrizione, il cliente poco dopo perde il capitale. Chiedete, se avete dei dubbi, a chi ha sottoscritto bond argentini, o Cirio o Parmalat.
Ma ci sono anche prodotti finanziari più complessi, per palati fini. Sono pezzi di carta che "derivano" il loro valore da un'attività sottostante: azioni, obbligazioni, ma anche tassi d'interesse o tassi di cambio. Nati con una funzione di copertura dal rischio sono diventati strumenti d'investimento. Sono il nulla per eccellenza, in una realtà che fa i conti con il virtuale, sono un miraggio di ricchezza e di potenza, ma come al tavolo da gioco, alla fine, vince solo il banco, pardon la banca, ma soltanto perché lo Stato interviene a sovvenzionarla. Con i soldi dei contribuenti naturalmente, ma il gioco d'azzardo, assurto a regola del mercato capitalistico, permette ancora quel tenore di vita che al mondo occidentale non è più consentito. Sono investimenti finanziari che ricalcano i vecchi contratti a premio ma riveduti e corretti sulla base di un'innovazione finanziaria folle e truffaldina. Consentono guadagni altissimi, ma perdite altrettanto elevate. Hanno nomi nuovi, si chiamono option, swap, call ecc. Li hanno stipulati anche Comuni e Regioni italiani per continuare a fornire servizi ai cittadini che le entrate fiscali non potrebbero più permettere.
Chi li ha introdotti, sapeva e ha taciuto. Le autorità monetarie hanno smantellato, con la connivenza del potere normativo e esecutivo, tutta la normativa che regolamentava, a tutela del risparmiatore, l'attività bancaraia e che era stata introdotta nel nostro Paese, negli anni Trenta, per uscire dalla crisi di Wall Street, ma soprattutto per evitare di ricaderci.
Perché e stato consentito? Perché la deregulation del settore del credito avrebbe consentito maggiori guadagni alle banche. Seguite la via dei soldi e vi sarà tutto chiaro- ha detto qualcuno.
Vi risulta che sia stata emanata una normativa per dichiarare i "derivati" prodotto finanziario fuorilegge? Che sia stato creato un organismo di controllo al di sopra delle parti per regolamentare i flussi di capitale che circolano fuori dai confini dei singoli paesi?
In Italia esiste ancora il segreto bancario che di tutti i segreti che fanno capo alle banche dovrebbe essere il primo ad essere smantellato.
Sapete su cosa indagava Falcone quando è stato ucciso? Sui conti correnti della mafia e sugli uomini che nelle banche lavorano per riciclare e investire i proventi derivanti dalle attività criminali mafiose. Li chiamano "uomini cerniera" e sono la nuova mafia in guanti bianchi che con uno zip ha saldato l'attività del crimine al mondo dell'alta finanza.
Erano almeno due anni che non tornavo a Milano e ho notato che il numero degli sportelli è ulteriormente aumentato.
Inquietante come vedere, in paziente attesa, degli avvoltoi girare in tondo sopra un moribondo.
E dovremmo credere a chi, con incauto ottimismo, ci vede fuori dalla crisi? Gli strozzini legalizzati stanno arrotando i denti.
Brutto segno, ragazzi, brutto segno!

mercoledì 5 agosto 2009

CAMBIARE E' MORIRE MA PER RINASCERE

Mi è capitato recentemente d'incontrare, dopo parecchi anni in cui non c'eramo viste, una vecchia amica diventata, inevitabilmente, anche un'amica vecchia. Il tempo passato, che implacabile l'aveva segnata, mi fece cogliere immediatamente nelle sue rughe il riflesso delle mie. Ci sedemmo a prendere un tè, a raccontarci...Quanti anni, quanti ricordi. Lei non era cambiata. Per niente. Era stata una belle donna, formosa, vestita in modo da sottolineare quella sua femminilità un po' esuberante. Anche quel giorno indossava sandaletti legati alla caviglia, una gonna stretta, una maglietta scollata e attillata. Si era truccata pesantemente: il rimmel appesantiva le palpebre gonfie e il fondotinta accentuava le zampe di gallina, creando l'effetto cerone. Era coinvolta in una turbinosa storia d'amore con un uomo sposato. Come allora. Mi chiesi, non le chiesi, se fosse lo stesso. Mi raccontava, con le stesse parole, una storia nuova che, vissuta con le stesse modalità, diventava una replica di un dejà vu. Come allora mi ascoltò distrattamente, lasciando scivolare uno sguardo di commiserazione sui miei pantaloni neri con camicia dello stesso colore, rigorosamente fuori dai pantaloni, che il girovito non è più quello di una volta, poi, sorpresa, mi chiese: " Perché non ti tingi i capelli? Eri bionda"
" Ero " le risposi, e in quel verbo al passato sintetizzai un cambiamento che partendo dai capelli aveva investito tutta la mia vita.Mi guardò senza capire. Non le parlai della fatica che mi era costato, della guerra furibonda che avevo ingaggiato con me stessa, dello sforzo iniziale di spostare la mia attenzione dai problemi di chi amavo ( attribuendo a questi problemi la mia infelicità) ai miei problemi. Se risulta difficile cambiare un'abitudine, che è soltanto ripetitività di comodo, è durissimo cambiare qualcosa nella struttura portante della personalità che così si è formata sulla base dei cromosomi che ci hanno caricato in spalla al momento della nascita, dell'ambiente in cui siamo cresciuti e delle persone con cui abbiamo condiviso soprattutto le esperienze fondamentali dei primi anni di vita. Cambiare aveva significato per me andare all'origine, alle motivazioni di certi comportamenti, ripescare ricordi rimossi - i sogni e un'ottima terapeuta mi avevano aiutata - scoprire l'umiltà del dubbio e consegnarmi al ciclone del cambiamento sapendo che ci sarebbe stato quel momento terribile in cui, gettate a mare tutte le sicurezze reali o fasulle alle quali mi ero aggrappata per sopravvivere, mi sarei trovata, inerme, vulnerabile, ancora priva delle nuove sicurezze che avevo elaborato per vivere.
Vivere o sopravvivere?
Sceglier o subire?
Vivere nei bisogni o soddisfare i propri desidei?
"Come sei cambiata! Non ti avrei riconosciuta" mi disse.
"Cambiare è morire, ma per rinascere" le risposi prima di lasciarci.
Mi guardò inquieta, perplessa, poi dopo avermi baciata, attenta a non sbavare il rossetto, si allontanò, caracollando incerta sui suoi tacchi stratosferici.

martedì 4 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Teresina, lo scialle sulla testa, imboccò la strada che portava al ghetto. Non amava quelle strade strettissime che il sole non illuminava e che lei percorreva in fretta, il passo agitato e il volto paffuto, al quale la preoccupazione dava un'espressione finalmente adulta, teso, mentre cercava la casa della levatrice. Doveva essere nei paraggi, sempre che ricordasse bene. Non si era sbagliata - pensò, attaccandosi al battacchio il cui suono sembrò rimbombare all'interno della casa. La levatrice si affacciò e, riconoscendo Teresina, un'espressione spaventata le alterò il viso, mentre, aggressiva, le diceva: "Ancora voi! Se riguarda la vostra padrona non ne voglio sapere nulla. Andatevene!", facendo il gesto di accostare il portoncino. "Per l'amor di Dio, datele una mano prima che faccia una pazzia". La donna sembrò esitare e Teresina ne approfittò per infilarsi nell'ingresso, mentre l'altra, quasi parlando tra sé e sé, borbottava: "E non sarebbe la prima".
Poi, aggiunse:" E, ora, che problema ha?"
Teresina, stropicciandosi le mani, disse:" E' incinta".
" Di nuovo? Ma di chi? Questa volta si è fatta furba, la vostra padrona..." e la levatrice aggiunse "Non voglio problemi con il Veneziano".
Teresina borbottò:" Vi pagherà bene" ma la donna di fronte a lei, che appariva irremovibile, le stava già indicando la porta con un gesto e un'espressione che non denotavano tentennamenti. Pochi secondi dopo, nel vicolo rimbombava il rumore del portone sbattuto con violenza.
La servetta ripercorreva il vicolo, tradendo un'agitazione che andava aumentando all'idea di trovarsi di fronte alla padrona senza essere riuscita a combinare nulla. Andava come un refolo di vento, incontrando rari passanti, che scansava senza quasi vederli, conscia di trovarsi in strade poco sicure.
Con un sospiro di sollievo, uscì dall'intrico dei vicoli e, dopo aver attraversato una piazza, si trovò in una strada più ampia. La brezza sapeva già di mare e oltre le case spuntavano gli alberi più alti dei velieri ormeggiati nel porto. Un marinaio ubriaco le fece un complimento, tentando di afferrarla, e Teresina gli sfuggì dalle mani, urlandogli " Ma va in malora!" mentre, quasi di corsa, infilava l'ultima strada e alzando gli occhi intravedeva alla finestra Maria, con Angela tra le braccia.
Entrò nell'atrio, mentre la padrona scendeva lungo le scale.
"Allora?" e Maria era ancora più pallida della camicetta che indossava. Soltanto gli occhi le brillavano, febbricitanti, nel volto teso, mentre la servetta, sgomenta, allargava le braccia e faceva un cenno di diniego con la testa. In quell'istante la porta si apriva e il Veneziano, seguito dal Moro, entrava nell'ingresso, diretto all'ufficio del pianterreno. Un silenzio, carico d'imbarazzo, calava sull locale. Gli occhi del Moro scivolarono sul volto di Maria, sul profilo da cammeo, inchiodandosi sulla bocca, piena e tremante, sulla quale sembrava essersi arenato, come una nave in secca, il saluto. Si mosse per primo il Veneziano dicendo: "Teresina, dove Diavolo ti eri cacciata? Quando servi non ci sei mai! Portaci del caffè, bello forte. Siamo nello studio", poi, senza degnare di uno sguardo la moglie, imboccava deciso il corridoio davanti a lui, seguito dal Moro. (continua...)

lunedì 3 agosto 2009

Il Grande Venditore di sogni irrealizzabili è ancora più forte.

Ricordo ancora certi film dell'orrore, i figli spaventatissimi che rassicuravo dicendo "E' tutto finto", mentre loro, a rimarcare il ben diverso impatto dell'immagine sulla parola scritta, rispondevano "Sembrava vero". Era inventato, ma verosimile. Chi di noi riuscirà mai a dimenticare le due Torri Gemelle di New York che crollano al suolo? E quel commento "Sembrava un film"?
Il confine tra ciò che è e ciò che sembra si sta facendo labile? E se la risposta suonasse affermativa quali sarebbero i rischi? Pensiamo a un leader politico sul palco di una piazza o inquadrato da uno schermo televisivo. Alla televisione la mimica facciale, difficile da cogliere dal vivo a distanza, darebbe una ben diversa rilevanza alla comunicazione gestuale. Il sorriso o sorrisetto, gli sguardi, la mascella che si fa rigida, la strizzata d'occhio, la postura, il gioco delle mani potrebbero convincere quasi più delle parole. Certamente i più fragli, i meno preparati, come un falso piazzista che per mettere a segno i propri colpi li indirizzasse alle vecchiette. Ma, con una popolazione che invecchia, le vecchiette e i vecchietti sono numerosi. E poi ci sono i giovani che ancora non sanno che le parole non hanno padrone e si prestano a tutti i giochi. E i ragazzi apprendono dalla scuola ma anche dalla televisione e quasi nulla dai giornali. Ma cosa può una scuola ridotta, da interventi demagogici e velleitari, a brandelli, su cui la famiglia - mai come ora in affanno - ha scaricato anche la responsabilità dell'educazione dei propri figli, di fronte al pifferaio magico in cui la televisione s'incarna? Il giornalista verifica la notizia prima di scriverla, a differenza del cronista televisivo il cui merito è di darla in tempo reale, spiazzando, ovviamente, il giornale. Quante volte i miei alunni a scuola, facendomi imbufalire, mi buttavano là quel " L'ho sentito alla televisione!" con la deferenza che avrebbero manifestato per un versetto biblico. Nel nostro Paese il confronto tra televisione pubblica e privata, con la televisione pubblica già parzialmente asservita al potere politico attraverso le nomine dei dirigenti, è ora, dopo la fusione tra Rai e Mediset che ha dato vita a Raiset, inesistente. A Berlusconi è stato consegnato praticamente l'intero sistema della comunicazione televisiva.
Il Grande Venditore di sogni irrealizzabli è ancora più forte.
Spegnamo le televisioni, comperiamo i giornali, parliamo con i nostri figli,percorriamo con loro le vie della blogsfera e, soprattutto, facciamoli studiare per sviluppare il loro senso critico, abituarli al confronto dialettico,porli in grado di spostare l'attenzione sui fatti. Questa è una guerra anche se sono le parole e le immagini le nuove armi.
Ricordo un film di Nicolas Roeg con uno splendido e inquietante David Bowie: L'uomo che cadde sulla Terra. L'alieno, mandato in missione sul nostro pianeta con il compito di reperire energia per il suo asfittico mondo, seduto al centro di una stanza tappezzata di televisori, s'ingozzava di programmi, convinto che ciò che vedeva fosse la fotocopia del mondo che lo circondava. Era il Settantasei, il film mi lasciò addosso un'inquietudine strana. Tenace. Ormai siamo abituati a questa pluridimensionalità: accanto al reale c'è l'immaginario - che c'è sempre stato -, ma al quale la tecnologia ha dato sfumature diverse. Luccicano attraenti la copia del reale, il falso verosimile e l'ultima nuova dimensione della realtà che è la dimensione virtuale a dare l'impressione di un immenso luna park nel quale può risultare sempre più facile e piacevole perdersi.L'avrà visto l'uomo che ha inventato la televisione d'intrattenimento nel nostro Paese, ma non ha mai permesso ai propri figli, bambini, di vederla? Raccontiamolo ai nostri figli. Regaliamoli per un compleanno l'abbonamento a un quotidiano, una di quelle ormai pochissime testate giornalistiche che ancora osano schierarsi contro Berlusconi, non soltanto una giochino elettronico.
Sarà come mettere nelle loro mani una bussola per muoversi in un mondo così complesso.
Prima o poi ci ringrazieranno.

domenica 2 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Maria fu svegliata dal chiarore che filtrava dalla finestra e da una sensazione di fastidio che, da vaga, si faceva, mentre prendeva coscienza, più precisa. La testa le ronzava e la camera, quando scivolò giù dal letto, prese a girarle attorno come una trottola. Uscì senza fare rumore e raggiunse la cucina. Si riscaldò un po' di latte e lo buttò giù, ma l'aveva appena ingoiato quando un violento dolore allo stomaco la fece quasi crollare su una seggiola. Un minuto dopo vomitava il latte, mentre una domanda angosciosissima si faceva strada dentro di lei. " Che giorno era? IL venti, no il ventuno...Oh, Santo Paradiso, aveva un ritardo di cinque giorni. Un ritardo mestruale e il vomito potevano significare una cosa soltanto: era di nuovo incinta! Il ricordo del parto le tornò alla mente e, violento dentro di lei, scattò il rifiuto per quella maternità. Non era un altro figlio che non voleva: era un figlio di Sigismondo, di quell'uomo che non stimava, che la teneva chiusa in gabbia, che non l'amava e probabilmente non l'aveva mai amata. Era il frutto, quella creatura che le cresceva dentro, di quegli amori coniugali frettolosi, invadenti, che iniziavano e si concludevano senza una parola, senza una carezza. Abbracci che la lasciavano insonne a fantasticare su possibili fughe, mentre il respiro del marito si faceva regolare e profondo e il senso di estraneità che lei provava la faceva raggomitolare sul bordo estremo del letto ad aspettate il primo chiarore dell'alba per alzarsi e darsi da fare, dare gli ordini per il pranzo a Teresina e scendere a controllare il magazzino. Con la merce scaricata dalla stiva della Capinera, era di nuovo pieno e le vendite andavano benissimo. Il problema, come al solito, riguardava Sigismondo, che aveva perso molto denaro al gioco e che attingeva continuamente alla cassa, nonstante le sue proteste e le sue raccomandazioni.
L'arrivo di Teresina, alla quale fu sufficiente notare il pallore della padrona e il pavimento sporco di vomito per mettersi le mani nei capelli, la distolse dai suoi pensieri. La ragazza borbottando:" La xe de novo incinta. Gesù Maria questa no la ghe voleva", si affrettò a passare lo straccio sul pavimento, aggiungendo: "E' il nostro destino di donne, dobbiamo avere pazienza", ma Maria, guardandola con decisione, le rispose: "Vestiti, devi andare dalla levatrice e spiegarle la situazione. Ho avuto pazienza fino a questo momento, ora basta!So che ci sono delle pozioni a base di erbe..."
La domestica impallidì:" Non vorrà prendere quella porcheria. Una mia cugina è morta con quella roba e poi...". "E poi, cosa? E' un peccato! Perché portarmi via una figlia non è stato un peccato? E ora non voglio discutere con te. Domanda alla levatrice quello che ti ho chiesto e quanto vuole. E ora fila che el sol magna le ore e io ho un sacco di cose da fare. Quando Teresina uscì dalla cucina lei la seguì e, percorso il corridoio, entrò nella camera dove il marito dormiva ancora, si avvicinò al lettino della figlia e la osservò, a lungo, pensosa, mentre quel bambino dentro di lei diventava reale, e ne immaginava i capelli, gli occhi, il carattere. E lo vedeva già gattonare per casa e ridere e ascoltare, a bocca spalancata, le sue favole.
Come sarebbe stato quel bambino fantasticato che lei non poteva e non voleva mettere al mondo in quel momento? Avrebbe avuto bisogno di tutta la sua forza per scacciare il desiderio che la vista del Moro aveva riacceso in lei, doveva tenere saldamente in mano le redini della famiglia e degli affari. Doveva pensare a quella figlia, la cui serenità dipendeva da lei, e doveva cercare l'altra, scoprire se fosse ancora viva, nelle mani di chi, magari poco amata se non maltrattata, umiliata. Si voltò, un'espressione di odio negli occhi, lo sguardo che scivolava sul corpo massiccio del marito. Togliendole la figlia l'aveva punita, ma anche perduta e, mentre un pianto silenzioso la scuoteva, dopo essersi chinata a prendere la figlia, badando a non fare rumore, scivolò fuori dalla stanza.