sabato 30 maggio 2009

I Dellapica

Sigismondo, i gioielli infilati in un sacchetto riposto nella camicia, seguiva l’intreccio delle vie che si faceva sempre più stretto, cogliendo su di sé sguardi che avvertiva o temeva sospettosi. Svoltò a destra e, dopo pochi passi, quasi si scontrò con un ragazzo al quale chiese informazioni sull’abitazione del signor Gaspez. “Non vorrei essermi perso” aggiunse "sono un forestiero”.
“ Abita lì” rispose il ragazzo “la seconda porta a destra.”
Si affrettò e, giunto davanti al portone, picchiò con le nocche della mano. Si aprì uno spioncino.
“ Cosa volete?” gli alitò addosso una voce femminile.
“ Parlare con il signor Gospez. Ho della roba che potrebbe interessargli.”
La porta si schiuse: una donna lo fece entrare e, facendogli cenno di seguirla, dopo aver percorso un corridoio, bussò a una porta di legno massiccio.
“ Entrate”
Sigismondo varcò la soglia e si trovò in uno studio in penombra, rischiarato appena dalla luce di una lampada a olio posta su una enorme scrivania, colma di carte, libri e oggetti vari. Alle spalle dell’uomo una libreria stipata di volumi.
“ Si accomodi” e l’uomo lasciò scivolare uno sguardo vecchio di anni e di vita su Sigismondo, aggiungendo “Cosa mi ha portato?”
“ Conte Dellapicca” disse Sigismondo con un gesto breve del capo, quasi a rivendicare arrogantemente la differenza di censo, e, dopo essersi seduto, si tolse dal petto il sacchetto, appoggiandolo sulla scrivania.
I gioielli rotolarono sul ripiano, brillando alla luce del lume, mentre l’uomo, accostando a essi la lampada e osservandoli con una lente, li sollevava uno a uno.
“ Volete essere pagato in zecchini o talleri” disse, e aggiunse: “Da dove venite?”
“ Sono veneziano…Quanti zecchini?”
“ Venti!”
“ Venti zecchini, ma voi siete pazzo, sono gioielli del miglior orafo di Venezia, guardate questa spilla, e questa collana…”
“ Prendere o lasciare”
Sigismondo sollevò un sopracciglio e con disprezzo sibilò:” Tanto varrebbe regalarveli. Sapete che valgono molto di più, non mi date nemmeno il valore dell’oro e delle pietre”.
Il vecchio, seduto immobile, lo guardava riservandogli l’attenzione che avrebbe potuto dedicare a una mosca.
“ Sono gioielli di famiglia, ricordi...”e la voce del veneziano s’incrinava, la gola stretta dalla rabbia, mentre l’umiliazione, mai provata in vita sua, affiorava dentro di lui come fango dopo la pioggia, inzaccherandogli l’anima e intorbidendo il suo sguardo.’Se quel vecchio pensa di aver trovato un pollo da spennare…’ si disse, mentre allungandosi sulla scrivania riponeva in fretta i gioielli, chiudeva il sacchetto e se lo infilava nella camicia.
Il vecchio lo osservava tranquillo, accarezzandosi il mento puntuto segnato da una corta barbetta.
Sigismondo uscito dalla stanza si trovò davanti la donna che l’aveva fatto entrare. La scansò, prepotente, e, giunto davanti al portone d’ingresso, con violenza azionò il chiavistello e si ritrovò sulla strada. Sudato, il volto arrossato dalla rabbia, la lunga veste nera che gli svolazzava intorno allargandosi ai lati e facendolo sembrare un corvo in volo, Sigismondo non fece caso ai due giovani che lo seguivano, fino a quando con la coda dell’occhio non avvertì una presenza alle sue spalle. Fingendo indifferenza allungò il passo, voltò la testa e intravide i loro mantelli. Accelerò ulteriormente l’andatura, guardandosi istintivamente intorno alla ricerca di aiuto. Il vicolo era vuoto: porte e finestre sprangate.
Il cuore gli batteva in petto accorciandogli il respiro: quegli uomini stavano seguendo proprio lui. Cominciò a correre, svoltò in un altro vicolo, ancora più stretto. Si era perso. Dove diavolo stava andando? La strada si restringeva sempre di più: ansante si trovò davanti alla porta di un magazzino. Sprangata.
Case a destra, case a sinistra. Cristo santo: era in trappola!
(continua...)

venerdì 29 maggio 2009

Speranza e utopia

Questo dell’appartenenza non è un problema di poco conto. Io, da triestina, ho visto nascere il “Melone” , una lista civica che, in aperta contestazione con i partiti «tradizionali» (soprattutto DC e PCI) proponeva un programma basato sull’autonomia della città dalla Regione Friuli-Venezia Giulia. Nel 1978, alle elezioni comunali, la lista ottenne la maggioranza dei seggi (18 con il 27,4% dei voti) consentendo a Manlio Cecovini, uno dei suoi fondatori, di assumere la carica di sindaco. Se a Trieste una lista civica poteva essere giustificata dallo scontento conseguente al Trattato di Osimo, quindi da una realtà tutta particolare, come giustificare la nascita della Lega in Lombardia? Secondo me per lo stesso motivo di fondo, al di là delle motivazioni contingenti, che aveva portato, in quegli anni, alla nascita e, soprattutto, all’affermazione dei sindacati autonomi di categoria. Perché venne a mancare la conquista di una “fraternité”, perché ognuno decise di fare per sé.
E prevalse, come principio, “Iddu per iddu”.
In linea di massima non ci si oppone: a una centrale nucleare, alla Tav, a un inceneritore. A patto che si faccia lontano da casa nostra. Fino a quando non si supererà questo provincialismo becero, sostituendolo con un’idea di rispetto delle regole e interesse comune, cioè con quel valore di fraternité che la Rivoluzione francese ci ha lasciato in eredità, fino a quando, anche se portatori di una cultura diversa, non saremo in grado di convivere con altre culture, capendo che la diversità è un valore, una ricchezza da proteggere e rispettare non da eliminare, l’Europa sarà soltanto un acronimo e non una patria.
Se ci sarà da tirare la cinghia (più che un’ipotesi è una certezza) dovremo tirarla tutti, non gli italiani sì perché sono il ventre molle dell’Europa e i tedeschi no, perche hanno maggior forza contrattuale; e i ferrovieri come i dipendenti dei supermercato, e non soltanto questi ultimi, perché i primi possono, con i sindacati di categoria, mettere in ginocchio il Paese, bloccando i trasporti, e quindi fare man bassa di tutte le risorse disponibili. E’ una scelta che a lungo andare non paga. Ghandi disse “Occhio per occhio, il mondo resta cieco”. E fino a quando penseremo che questa è un’utopia, non andremo da nessuna parte, perché non è un’utopia: è una speranza, l’unica che abbiamo e quindi l’unica che dobbiamo impegnarci a realizzare. Ciò che vediamo: la politica spettacolo, corrotta, stantia e priva di ideali potrebbe, ma non deve indurci al cinismo, barattandolo da realismo. Se gli americani avessero fatto spallucce davanti al “We can “ di Obama oggi, alla Casa Bianca, avrebbero un degno seguace di Bush. Se una volta Milano sui suoi muri scrisse “Di Pietro facci sognare” e quel sogno di moralizzazione non si realizzò, questo non significa che non possa realizzarsi. Ora. Perché no? Perché Di Pietro non è Obama? Ma i vincenti si rivelano all’arrivo. Chi era Obama ai nastri di partenza? Un avvocaticchio di colore che aveva qualcosa d’imponderabile che gli altri avevano perduto: la speranza di poter cambiare. Il mondo.
E allora io dico, di nuovo:" Di Pietro facci sognare..."

Elezioni europee

La complessa realtà dell’Europa che si sta realizzando potrebbe essere forse più facilmente comprensibile se la paragonassimo per un istante alla realtà del nostro Paese sostituendo alle regioni gli stati. Tra un triestino e un napoletano non c’è forse la stessa diversità che tra un romano e un londinese considerando l’aspetto fisico, quella variante della lingua che è il dialetto, la storia a monte, la realtà economica etc.?
Questa ‘diversità’ , non dimentichiamolo, fino a pochi decenni fa era vissuta, all’interno del nostro Paese, con notevole intolleranza. Chi di noi non ricorda i cartelli – nella ‘civilissima’ Torino che aveva bisogno di operai per la Fiat in espansione – con la scritta “Non si affitta ai meridionali”?
Poi nacquero i figli di questi emigranti, e i figli dei loro figli, e faticosamente s’integrarono, al punto che soltanto i loro vecchi avrebbero voluto tornare, magari soltanto a morire, dov’erano nati. Loro, i giovani, si sentivano ormai milanesi o torinesi e a stento si adattavano a passarci le ferie estive, al paesello. Mi sono chiesta spesso se si sentissero torinesi o italiani, scoprendo, con ironica sorpresa, negli anni da me vissuti a Milano, che molti di loro erano diventati leghisti.
Ho la sensazione che siano ancora ben pochi a sentirsi europei tra i cittadini dell’Unione, mentre credo che ogni cittadino degli States, ad esempio, si senta americano.
Questo dell’appartenenza è un primo, grave problema che questa Europa in divenire deve affrontare.
Dai sondaggi fatti in vista delle elezioni di giugno, le previsioni sull’affluenza risultano bassissime e questo mi fa pensare che non si sia ben capita la portata di ciò che bolle in pentola. L’Europa sembra lontana, i problemi sono qui, è il posto di lavoro nella fabbrica dietro l’angolo che si sta rischiando di perdere, è alla Asl di zona che dobbiamo aspettare sei mesi per fare un’ecografia, è la filiale locale di una certa banca che non ci concede un mutuo perché non offriamo sufficienti garanzie. Ma in tema di politica occupazionale, di concessione del credito, di assistenza sanitaria nell’ambito del Welfare, è previsto – e già tutto scritto, nero su bianco – che gli Stati membri rinunceranno alla loro sovranità a favore di quell’Europa il cui Parlamento varerà le leggi che renderanno operativo il Trattato di Lisbona. Sarà il Parlamento che scaturirà da queste elezioni a proseguire su questa strada, primo per portare a termine un’armonizzazione - che le Direttive comunitarie non hanno ancora consentito – e poi per governare, a tutti gli effetti, l’Europa.
Ho la sensazione che non tutti abbiano capito quel che sta succedendo.
(continua…)

giovedì 28 maggio 2009

Istinti e regole

Ricordo un episodio della mia infanzia: avrò avuto dieci o undici anni, mia sorella uno di più.
La guerra era finita, il Paese impegnato nella ricostruzione. Muratori, con il cappello fatto con un foglio di giornale, lavoravano sul terrazzo dell’ultimo piano, dove sventolavano al sole le lenzuola stese ad asciugare.
Riparavano il tetto che portava ancora i segni dei bombardamenti anglo-americani. Un giorno, lavorando, provocarono il crollo di uno dei solai, ma senza suscitare proteste perché il proprietario dell’appartamento cui spettava il solaio, un anziano professore ebreo, era scomparso nell’infamia dei campi di concentramento e l’appartamento era ancora lì, quasi in attesa del ritorno di chi l’aveva per tanti anni abitato.
Quell’appartamento vuoto stuzzicava la nostra fantasia di bambini, tanto che io avevo giurato e spergiurato di aver visto dalle finestre della mia casa, che dava sullo stesso pianerottolo, un’ombra muoversi guardinga nell’appartamento del professore.
Per questo motivo, il giorno del crollo, quando i muratori finirono il loro lavoro, noi bambini ci calammo dal tetto nel solaio del signor Gospez.C’erano degli scatoloni, che aprimmo impazienti, ma che ci lasciarono piuttosto delusi. Contenevano libri, soltanto libri e vecchi quaderni ingialliti dal tempo. Delusi stavamo per andarcene, quando uno scatolone ancora chiuso attirò la nostra attenzione. Lo aprimmo: conteneva minuscole scatole di tutti i colori. Vuote. Erano veramente belle, anche se non riuscimmo a capire a cosa potessero servire. Ognuno di noi se ne mise in tasca qualcuna , ma mia sorella e io ne prendemmo più degli altri perché mia sorella si tuffò nello scatolone e, a piene mani, me ne riempì il grembiule.
Arrivate a casa, era l’ora di cena, mostrammo tutte orgogliose il tesoro ai nostri genitori e mia sorella, ridendo, disse: “Nessuno ci ha viste e quindi ne abbiamo approfittato”.
Lo schiaffo di mio padre ci colse di sorpresa, mentre diceva:” Riportate tutto dove l’avete trovato. Sono vostre?”
Questo episodio mi fa riflettere ogni volta che mi ritorna in mente: qual è il bambino che non ha rubato la marmellata e cosa, in primis, ci trattiene dal rubare se non la paura di essere scoperti, con l’inevitabile corollario di conseguenze?
L’istinto predatorio è uno degli insopprimibili istinti dell’uomo: quando le merci cominciarono a viaggiare via mare apparvero i pirati che, per secoli, hanno imperversato anche sui mari di casa nostra. Il fatto poi che accanto alla pirateria si fosse sviluppata la corsa - dando vita ai corsari, che agivano su mandato dei re o signori di allora, ma sempre ladri erano - la dice lunga sull’intreccio malavita/potere che non è certamente stato un’invenzione recente.
E i pirati/negrieri?
E la mafia?
E la legittimità dei saccheggi in guerra per i vincitori?
E gli scippi, i furti in appartamento, i borseggi?
Furti, furtarelli e rapine in grande stile nonché organizzazioni ispirate a principi predatori…
Per questo motivo - Montesqieu insegna - esiste un potere giudiziario al quale deve essere assicurata la totale indipendenza e autonomia rispetto agli altri due poteri dello Stato, quello legislativo e quello esecutivo.
Per questo motivo la Costituzione deve essere difesa con le unghie e con i denti: cerchiamo di non dimenticarcelo, anche perché pur essendo in parte un “libro dei sogni” (diventa, infatti, operativa attraverso leggi e regolamenti di attuazione) o forse proprio perché è tale, rappresenta l’impianto di base al quale un popolo ha scelto d’ispirarsi. La nostra Costituzione è in questo senso un piccolo gioiello di libertà, democrazia, tutela di diritti essenziali e rigore formale.
Andrà affiancata a questo oggetto misterioso e inquietante che è la Costituzione Europea (leggi Trattato di Lisbona).
Evitiamo che parta già mutilata.

mercoledì 27 maggio 2009

Credere obbedire combattere

Ho cercato, in un paese il cui degrado si faceva di giorno in giorno più profondo, di ritagliarmi un angolo, uno spazio anche minimo in cui rintanarmi. Le parole e io: per giocarci, dimenticare e ricordare, ma l’eco è giunta anche qui: parole affilate come coltelli hanno forato il mio silenzio, mi hanno raccontato che mentre io gioco con le favole, la realtà bussa, invadente, alle porte di chi non vuol vedere, né sentire. Parole gonfie di paura hanno sussurrato che la democrazia va protetta, ogni giorno, ogni ora. Non si va in vacanza dai doveri, nemmeno se si è stanchi e malati e non si ha più voglia e nemmeno forza per opporsi. Ognuno deve fare la sua parte: come può, come sa, con gli strumenti che ha a disposizione. Anche se di battaglie, essendo vecchia, ne ha fatte tante, e sono stata sconfitta troppe volte, so, e non mi occorre una laurea per capirlo, che sono sconfitta ma non perdente. I miei nipoti mi guardano, nei loro occhi le domande attendono risposte alle quali non posso più sottrarmi.
Per questo per un po’ trascurerò le mie fole, e le parole, che tanto amo, le userò per raccontare altre cose, per capire e confrontarmi perché la posta in gioco è alta. Sono passati poco più di sessant’anni da quando tanti, troppi ragazzi sono morti per darci la possibilità di vivere liberi, perché potessimo crescere senza “credere (alle altrui bugie) obbedire (senza essere d’accordo) e, soprattutto, combattere (crepando a vent’anni sui campi di battaglia).” Cerchiamo di non scordarlo.

martedì 26 maggio 2009

Servi e padroni

Sulla tv di Stato, ieri sera, è andato in onda uno spettacolo inquietante. Oggetto del contendere: la rispettabilità del Presidente del Consiglio al quale il Paese, attraverso la stampa ancora libera, chiede formalmente di rispondere a una serie di domande.

Come giudichereste vostro nonno, ragazzi, se allungasse le mani sulla vostra amichetta minorenne? E se, pescato con le dita nella marmellata tuonasse "Tu non sai chi sono io!" Semplicemente patetico, immagino, ma qui il discorso è diverso: il presidente è sì patetico, ma è anche, e soprattutto, pericoloso.
Per il Paese.

Si sgretola la finzione abilmente impostata a tavolino, dietro a un alter ego carismatico e vincente si nasconde un omino piccolo, piccolo...e il riferimento non è alla statura.

Il codazzo dei servi ringhia, intimidisce, offende e mente, ma cosa ci si può aspettare da un servo? Che dimostri autonomia? Dai loro sondaggi è emerso il bisogno "dell'Uomo della Provvidenza"? E loro lo hanno confezionato, nulla di più facile nell'era dell'immagine. Ma l'icona si è incrinata, si è intravisto qualcosa di sinistro e il codazzo dei servi si è spaventato, diventando a sua volta patetico fino ad affermare la purezza del rapporto dello sfatto presidente con tale Noemi vattelapesca.

Il sipario si abbassa sull'elenco dei disastri del Paese, sulla miseria dei disoccupati, sui fallimenti delle piccole imprese, sulle chiusure dei negozi, inquadrando un farneticante Pannella, uno spaventato Ezio Mauro, un - devo dire - corretto Franceschini e le facce squallide dei servi, imitazioni mal riuscite del padrone.

Che tristezza, ragazzi!

I Dellapicca

Il Moro, che aveva raggranellato qualche soldo al porto trasportando i sacchi di un carico appena giunto via mare, ordinò da mangiare e da bere, mentre all’interno del locale gli avventori osservavano quella coppia, padrone e servo, con malevola curiosità.
Il Moro sollevò la testa e i suoi occhi si posarono, per un lungo istante, su Sigismondo che, stizzito, gli chiese:
“ Cos’hai da guardarmi?”
“ Ha deciso cosa fare?”
Il viso arrossato dal sole, non sbarbato e stanco del veneziano, si contrasse in una smorfia, mentre nello sguardo affiorava lo sgomento e le mani appoggiate sul tavolo si contraevano nello sforzo di contenerne il tremito.” Devo trovare qualcuno a cui vendere…sai cosa intendo, ma non sarà facile. E’ l’unica ricchezza che mi rimane, poi finirò come questa gentaglia…”
Il Moro gli rispose:” E’ sano e vivo: non è poco!”
“ Non capisco perché perdo tempo a parlare con te…” borbottò Sigismondo
“ A proposito di quello che sappiamo, sono andato al porto per tastare un po’ il terreno e ho saputo di certi ebrei che comperano la roba senza fare troppe domande, anche se non pagano molto...Allora cosa vuole fare, signore? Ho già chiesto i loro indirizzi.”
Sigismondo, colpito dall’efficienza del servitore, fece spallucce, non prima di aver chiesto:
“ Te li ricordi a memoria gli indirizzi?”
“ Li ho scritti con il carbone, sul lato esterno degli zoccoli” e, così dicendo allungò, quasi volesse sedersi più comodamente, la gamba fuori dal tavolo, mentre il veneziano lo guardava stupito.
“ Come mai sai leggere? Non me l’avevi mai detto”
“ Sono molte le cose di me che non conosce” gli rispose il Moro.
“ Ho notato che ti muovi a tuo agio in qualunque ambiente… Cosa facevi prima di diventare un pirata e cosa ti ha spinto…”
“ Mia madre era una zingara montenegrina e mio padre era un maghrebino. Sono nato sul veliero che riportava in patria mio padre e la sua giovanissima moglie, che morì nel darmi alla luce. Mi salvai soltanto perché una tunisina, che viaggiava con un figlio che ancora succhiava il latte materno mi sfamò, impietosita. Lei era rimasta vedova con un bambino appena nato e mio padre le offrì ospitalità nella sua casa. Fu lei a crescermi, come una madre..”
Il Moro tacque, pensieroso.
“ Anch’io sono cresciuto senza uno dei genitori, mio padre morì combattendo contro gli Spagnoli: era un uomo coraggioso, appassionato musicista e uomo di lettere. Sono cresciuto tra le gonne delle donne” e, ridacchiando concluse “ forse è per questo motivo che le amo, tutte!”
Il Moro lo guardò e sussurrò: “ Chi le ama tutte, non ne ha mai amato nessuna “ , ma il veneziano non lo stava più ascoltando perché, alzando gli occhi, aveva visto affacciarsi, scostando la tenda che copriva una porta che dava sul retro della locanda, una donna.
Era giovanissima, vestita semplicemente con un abito grigio coperto da un grembiule. I capell, di un biondo chiarissimo, lunghi e annodati intorno al capo, facevano risaltare il volto pallido. Passando di tavolo in tavolo, cominciò a raccogliere piatti e boccali. Gli occhi degli uomini la seguivano e non soltanto per la bellezza del volto e l’eleganza dell’incedere. C’era in lei qualcosa che incatenava l’attenzione. Paradossalmente lo squallore della bettola incorniciava, esaltandola, la sua bellezza. Passava tra gli uomini altera e inaccessibile e nessuno avrebbe osato allungare una mano su di lei: forse per quel viso da madonna portata in processione? O per quello sguardo, serio e conscio: da donna, non da ragazza? Un uomo le fece un complimento: lei si fermò e lo guardò in silenzio, un accenno di sorriso sulle labbra quasi si scusasse, con grazia, di non voler parlare. Lo fissò fino a quando l’uomo, impacciato, borbottò alcune parole per giustificarsi.
Solo allora proseguì, l’aureola bionda dei capelli che brillava nell’oscurità del locale.
(continua...)

lunedì 25 maggio 2009

I Dellapicca (Il Moro é un capo)

La solitudine è una scelta soggettiva, è un ritrarsi in se stessi, nel proprio guscio, ma quando sono gli altri che ti allontanano, che ti buttano fuori al freddo, solo, è l’isolamento che conosci. Sigismondo, in quella bettola, un piatto di lenticchie e un boccale d’acqua davanti, si rendeva conto di essere fuori posto, fuori luogo, ma soprattutto che quella sensazione lo avrebbe accompagnato per sempre. Gli stivali di pelle, la camicia in tela di Fiandra, le mani curate, quasi femminee e i modi, innatamente eleganti, tradivano la sua appartenenza sociale che, per la prima volta, avvertiva come un peso, un marchio di diversità, retaggio doloroso di un passato incancellabile, ma perduto. Gli saliva dentro, mentre ingoiava la zuppa, una disperazione sorda, un dolore mai provato prima.
Abituato a comandare chiese con arroganza del pane e si sentì rispondere “E’ finito!”, con indifferenza. Le sue stizze, le collere improvvise che facevano accorrere i servitori, qui sarebbero cadute nel vuoto o, come già stava notando, avrebbero provocato qualche battuta scurrile e un paio di risate. Sulla panca, dall’altra parte della stanza, due clienti si davano di gomito, osservandolo e, a voce alta in modo da essere uditi, dicevano “ Il servizio non soddisfa il signorino?”
‘Mi sento come un cane in chiesa’ pensò e poi, stizzito ‘ ma dove diavolo è finito il Moro?’
La zuppa era quasi immangiabile e le occhiate che altri due clienti del locale indirizzavano ai suoi stivali non gli facevano presagire nulla di buono.
I due dopo essersi scambiati un’occhiata si erano avvicinati al suo tavolo. Il più robusto, con aria falsamente amichevole, gli chiese:
“ E’ un forestiero?”
Sigismondo annuì, scostante.
“ Aspetta qualcuno?” chiese l’altro.
“ Sì”
“ Se nell’attesa ci facessimo una partita a dadi?”
“ Non mi interessa” rispose, sostenuto, Sigismondo, controllando di nuovo, con ansia, l’ingresso del locale, con la speranza di veder entrare il Moro.
“ Beh, allora non sarà così scortese da non bere alla nostra salute” e rivolgendosi all’oste e alzando la voce, ordinò “ Una caraffa di vino nuovo, quello buono, mi raccomando!”
Nel vano della porta in quel momento si stagliò la figura massiccia di un uomo. Il Moro rimase qualche secondo immobile, lo sguardo altero degli occhi scurissimi che passava di faccia in faccia, mandando un messaggio chiaro di superiorità, che in lui nasceva da un’attitudine al comando che ne faceva automaticamente un capo.
Sigismondo, recuperando l’arroganza usuale, disse: ”Aspettavo il mio servo” e lentamente, fissando uno dei due uomini, si portò il boccale alle labbra. (continua...)
Technorati Profile

domenica 24 maggio 2009

I Dellapicca

Avevano navigato lungo le coste per giorni percorrendo quell' Adriatico di cui la Serenissima era stata padrona assoluta per secoli e, ora, stavano entrando nel porto di Trieste: la città li accoglieva con cieli spazzati da quel vento impetuoso che arrivava fino ad Ancona e un mare ben diverso da quello veneziano: non acqua di laguna stantia che assedia e imbeve, che è muro e strada e casa, ma mare che, senza soluzione di continuità, sconfina in cieli azzurri dilaganti, estesi come una infinita promessa di fuga e avventura.
Sbarcarono in una baraonda di velieri, casse, damigiane, sacchi e uomini brulicanti come formiche operose, vocianti.
Sigismondo, rivolto al Moro, borbottò: “Fiume e Trieste ci stanno rovinando, sembra di essere a Venezia…”. Poi, con un gesto plateale, si tolse il berrettuccio che portava e fece un inchino, questo sì perfetto, mormorando: “M’inchino all’imperatrice Maria Teresa d’Austria”.
Il Moro si guardava intorno sospettoso, la bisaccia ben stretta, quasi cercasse qualcosa. Sigismondo lo guardò interrogativo:
“ Conosci questa città?” gli chiese
“Sì” rispose l’altro, aggiungendo “ Ma è cambiata da quando la vidi la prima volta, parecchi anni fa.Ci dovrebbe essere una locanda per fermarci a mangiare e riposare. E se non ci fosse il “Leon d’Oro” – ricordo ancora il suo nome – ce ne sarà un’altra."
Il Moro s’incamminò, seguito dal padrone che gli ciondolava dietro seguendolo, mentre si faceva largo nella ressa che animava il porto. Finalmente un’insegna e…un leone. No, non era il simbolo della Serenissima, era un leone rossiccio, mal disegnato che oscillava lasciando nell’aria un rumore di ferro arrugginito. Mentre entrava e si accasciava sfinito su una panca gli passarono davanti agli occhi i soffitti fastosi del suo palazzo e gli affreschi che ornavano le ville dei nobili sul Brenta, i quadri del Guardi, del Canaletto, gli scarpini di broccato, gli abiti eccentrici di velluto e damasco. Entravano uomini polverosi in brache e giubba, che si accasciavano sulle panche dissetandosi rumorosamente. I tavoli, ingombri di boccali vuoti erano sporchi e infestati dalle mosche. Anche a Venezia aveva visto bettole simili, ma frequentarle era stato un gioco, da farsi mimetizzato dietro la bautta, con un velo applicato sotto il tricorno a coprire il viso. Era stato divertente sdoppiarsi, triplicarsi come in un gioco di specchi, nelle settimane dedicate al Carnevale, ma ora qualunque specchio gli avrebbe rimandato soltanto la squallida immagine di un fuggiasco all’apice della disperazione. (continua...)

sabato 23 maggio 2009

Il Max sbaglia pure le parole

"Hai visto la Susy?"
"Sì, devo averla incrociata su Facebook, pochi minuti fa".
"Ma sei sicura?"
"Secondo te la Susy è una che si può scambiare per un'altra?"
Mi guarda dubbiosa e alza il sopracciglio, facendo il broncio.
" Io vengo da Myspace, la Susy imperversa anche là", mi dice e l'invidia è più viola della lacca delle sue unghie.
"Ma questo bus non arriva"sbuffa la Lory.
"Ehi popolo, volete un passaggio?" urla quel deficiente del Max, sporgendosi dall'Ape.
Lo ignoriamo.
"Io ve l'ho detto! C'è sciopero".
La Lory e io ci fiondiamo sul retro dell'Ape, tra cassette di frutta e due sacchi di noccioline.
Si affianca a noi - oh cristo santo – la Susy, a pelle di leone su una moto che sembra un'astronave, curvilinea e slanciata come lei. E quello che guida: altro che il Max.
Ci afflosciamo come le foglie d'insalata della cassetta che ha sulle ginocchia la Lory.
L'invidia ha il sapore dei gas di scarico nella notte che ci ingoia in un boccone.
Il Max canta stonato e - la malora - sbaglia pure le parole.

venerdì 22 maggio 2009

I Dellapicca (Corsari e pirati)

Sigismondo si svegliò. Il Moro aveva diretto l’imbarcazione verso la terraferma risalendo poi lungo la costa. Doveva avere dormito parecchio perché aveva fame e si sentiva riposato.
“ Padrone, tra dieci minuti si mangia “ gli gridò dalla riva, mentre rivoltava sul fuoco un pesce infilzato con uno stecco.
Il veneziano abituato alle comodità del palazzo sul Canal Grande sospirò stizzito e dopo essersi tolto gli stivali scese dalla barca e sguazzando nell’acqua raggiunse la riva. Abituato a essere servito e riverito, cosa avrebbe fatto senza il Moro? Per  fortuna il suo servitore sembrava cavarsela benissimo.
Sigismondo gli aveva salvato la vita sottraendolo alla forca, destino che era toccato ai suoi compagni quando la nave corsara sulla quale scorrazzavano lungo l’Adriatico assalendo qualunque imbarcazione gli capitasse a tiro, si era scontrata con una nave veneziana, dotata di bocche di fuoco che le avevano assicurato un’immediata vittoria.
L’aveva tirato fuori dai “Piombi”e se l’era portato a casa, pensando fosse un pirata qualunque, ma il Moro non era un uomo della ciurma: era stato il braccio destro del comandate. Astuto, coraggioso, dotato di una forza straordinaria, grande conoscitore di uomini e navi, si era rivelato per Sigismondo, una delle poche scelte ben fatte della sua vita.
“ Sono riuscito a rubare una barca, la gondola avrebbe dato nell'occhio...E’ più prudente viaggiare di notte e riposare, nascosti, la barca tirata in secco, di giorno. Che si cada nelle mani dei veneziani, degli austriaci o degli spagnoli, se poi non finiamo in bocca a una nave pirata…” disse il servo.
“ Beh, in quel caso, ti manderei a parlamentare “ rispose ridendo Sigismondo.
“ Conoscete ben poco il mondo della pirateria” rispose l’altro.
“ Effettivamente, anche se so che, voi corsari, siete stati un bel problema per i nostri velieri…”
“ Corsari e pirati non sono la stessa cosa” rispose il Moro pensieroso.
“ Anche se legittimati da qualche scartoffia firmata da un re, imperatore o signore i corsari sempre ladri sono, esattamente come i pirati” e il volto del nobile, arrossato dal sole, s’indurì.
Mangiarono in silenzio, poi Sigismondo si sdraiò a pancia in su a guardare le nuvole. Era da anni che viveva di notte e dormiva di giorno, frequentando bische, feste e, naturalmente, teatri. Pensò, con una fitta di rimorso, a sua madre, conscio che il palazzo sarebbe finito nelle mani dei creditori e lei in qualche convento per la pietà di qualche marchesa con una figlia suora o badessa. Ormai era anziana, non sarebbe vissuta molto, piegata dalla vergogna oltre che dall’indigenza.
L’aria primaverile era già tiepida e il mare davanti a lui, appena mosso dalla brezza, riluceva sotto il sole. Il Moro raccoglieva piccoli granchi scuri che poi abbrustoliva. Si era allontanato tornando poco dopo con un pollo che gli penzolava dalla cintura e, seduto a gambe incrociate, dopo aver riscaldato dell’acqua – quell’uomo aveva pensato a tutto portando con sé anche una sorta di pignatta - aveva incominciato con gesti sicuri a spennarlo.

mercoledì 20 maggio 2009

I Dellapicca

Il Moro remava con movimenti regolari e misurati, lasciandosi la città, che si risvegliava, alle spalle.
Sigismondo si voltò per un istante, provando lo stupore che quella città incredibile suscitava in chiunque la vedesse, e non soltanto la prima volta. Nella nebbia leggera rilucevano gli ori, gli smalti e le cupole. Un rintocco di campane e il brusio dell’Arsenale, dove il lavoro riprendeva, arrivavano a tratti portati dalla brezza.
Due velieri, vele al vento, lasciavano la città.
Il Moro si avvolse nel mantello e si coprì il viso, mentre alle sue spalle il padrone si adagiava sul fondo della barca, mimetizzandosi sotto ai sacchi di cui si erano riforniti per far credere di essere in mare di primo mattino, come tante altre barche, a trasportare in città della merce. Dietro a loro si accodò una barca che, dalle parole pronunciate dall’uomo che si sporgeva agitando un braccio, risultò essere occupata da guitti.
“ Ehi, avete dell’acqua? Siamo partiti in fretta, dopo la recita di ieri sera.”
Sigismondo, che spiava tra i sacchi, sollevò la testa in tempo per vedere il veliero superarli e filare, vento in poppa, ormai in mare aperto. Rassicurato emerse dal suo nascondiglio allungando all’altra barca l’acqua che gli veniva chiesta. In condizioni normali non si sarebbe sognato di rivolgere loro la parola, ma non voleva insospettirli e, quindi, tentò di fingersi uomo del popolo.
“ Dove andate?” chiese uno degli attori.
“ Andiamo a prendere verdura e frutta in terraferma. Cosa avete recitato ieri sera?”
“ Goldoni”
“ Ah! Goldoni, conosco tutte le sue commedie” rispose Sigismondo
“ Con Arlecchino, servitore di due padroni abbiamo riempito il teatro, ma Venezia non è più quella di una volta” borbottò il capocomico, guardando Sigismondo con aria vagamente interrogativa e una punta di sospetto nello sguardo.
Il Moro si voltò e disse: “ E’ un gondoliere e può entrare gratuitamente perché s’impegna a applaudire o fischiare…”
L’uomo lo interruppe e, ridendo, disse” Spesso siete la nostra rovina”, quindi, dopo averli ringraziati, il capocomico si assestò alla meno peggio all’interno della barca che, con quattro persone ai remi, li distanziò nel giro di pochi minuti.
“ Padrone, non è prudente esporsi in questo modo. Vi stanno cercando. Riparatevi sotto ai sacchi e cercate di non dare nell’occhio.”
Sigismondo di malavoglia si allungò sul fondo della barca. Stavano cercando di raggiungere Trieste, la città che, proclamata porto franco dal padre di Maria Teresa d’Austria nel 1719, lui era ancora un bambino, ormai rivaleggiava con Venezia. Aveva avuto una grande espansione, ma non vantava la tradizione musicale, teatrale e culturale che avevano reso, a pieno diritto, la sua città una delle mete del “Grand Tour” , il viaggio iniziatico, di dovere per ogni gentiluomo. Frequentatore assiduo di case da gioco, di teatri, di caffè veneziani nonché galante cicisbeo di alcune tra le più fascinose dame patrizie, Sigismondo si chiedeva come avrebbe potuto sopravvivere lontano da Venezia.
La nostalgia per il suo mondo, raffinato e perduto, già gli mordeva l’anima, mentre i ricordi affioravano senza tregua, quasi un riepilogo finale prima del commiato definitivo, non soltanto da una città, ma da un modo di essere e di vivere. Poi, avrebbe dovuto affrontare l’ignoto.
Allungò la mano per assicurarsi che i gioielli di famiglia, che il Moro aveva nascosto cucendoli nel risvolto degli stivali, fossero ancora lì, quindi, esausto, la traccia scura della barba che gli illividiva il volto, piombò in un sonno senza sogni.(continua)

I Dellapicca

“ Presto signore, dobbiamo andare…”
“ Sono qua, Moro “ e, così dicendo, l’uomo saltò sulla barca che oscillò vistosamente. Poi si udì soltanto il rumore cadenzato dei remi che sferzavano l’acqua.
I due uomini tacevano: assorti.
Incombeva, avara di stelle, la notte e la luna, ora nascosta da una nuvola passeggera, sembrava scrutare l' imbarcazione che, scivolando lungo l’intreccio dei canali, puntava in direzione del mare aperto.
Avvolto nel mantello l’uomo seduto dietro al rematore, lasciava scivolare lo sguardo sulle facciate dei palazzi. Conosceva ogni angolo di quella Venezia nella quale era nato e cresciuto. Erede di una nobile famiglia veneziana, i Dellapicca, ricchi commercianti di spezie e prodotti orientali che venivano trasportati con le navi di famiglia, era rimasto orfano di padre da bambino. Allevato dalla madre che ne aveva affidato l’educazione a istitutori compiacenti, che nulla avevano fatto per modificarne il carattere capriccioso e instabile, il giovane conte Sigismondo era cresciuto manifestando, oltre all’arroganza tipica del suo ambiente, due uniche passioni: le donne e il gioco.
Ospite onnipresente alle feste che animavano i palazzi sul Canal Grande, elegantissimo, di bella presenza, era sempre invischiato in storie di donne e la sua gondola, nera e lussuosa, con quel moro gigantesco che, docile come un cane, aspettava per ore il padrone, spesso era stata vista nei paraggi dei palazzi che custodivano, come valve le perle, le più belle dame veneziane.
Sigismondo aveva lasciato la sua casa in tutta fretta, senza nemmeno avvertire la madre, timoroso che lei potesse tentare di fermarlo, ma non aveva rinunciato a vedere per l’ultima volta Benedetta e ora anche lei, che gli danzava davanti agli occhi nella notte che schiariva, sarebbe stata soltanto un ricordo, come quell’odore di mare, lo splendore dei palazzi veneziani, la parlata strascicata, inconfondibile della sua gente. Si lasciava il suo mondo alle spalle, probabilmente per sempre, costretto a fuggire oberato dai debiti e ricercato dai creditori, dopo aver dato fondo, sui tavoli da gioco, a un patrimonio costruito da generazioni. Lui, l’imbelle erede dei Dellapicca, fuggiva nella notte come un volgare malfattore, per evitare la vergogna della galera a se stesso e l’onta dell’uomo che era diventato a sua madre.
Con sé portava soltanto i ricordi e il Moro, l’unica persona sulla quale potesse ancora contare.(continua)
Technorati Profile

martedì 19 maggio 2009

Amo la notte

Amo la notte. Da sempre. E' silenzio, quindi riflessione. E' tregua nel caos metropolitano, quindi pace. E' possibilità di nascondersi, quindi protezione. E' buio che tutto può contenere, quindi fantasia.
Per questo, forse, di notte io scrivo.

sabato 16 maggio 2009

Nudo re più non è

Il presidente del Consiglio, geniale venditore porta a porta di un'immagine di sè inventata di sana pianta, abilissimo inquilino di un Parlamento, degradato a casa del “ Grande Fratello” della politica per soddisfare la voglia di voyeurismo di un popolo, è stato, com’era logico, tradito da ciò che gli aveva assicurato il successo: lo show. Sotto le luci dei riflettori ha pianto, fatto gesti scaramantici, si è esibito in barzellette e ha accontentato la sua "bambina" festeggiandola da buon "papi", ma, come succede, uno spettatore non ha trovato di suo gusto lo spettacolo. Anzi una spettatrice: sua moglie.

Voi direte cos’è uno spettatore di fronte all’entusiasmo plateale di un paese?
Veronica Berlusconi, che irrompendo sulla scena ha detto:” E’ tutto finto: dal parrucchino, al fondotinta. Non è un tombeur de femmes. E’ un malato!”, gli ha rovinato lo spettacolo.
Ve lo immaginate Pinocchio senza le bugie? E il brutto anatroccolo presuntuoso e sicuro di sé?

Il pubblico a teatro esige la finzione, altrimenti si alza e se ne va.
Abbiamo aspettato tanto, aspettiamo che si vuoti la platea.

Le fotografie rubano l'anima?

Alle spalle delle due bambine s'intravede un Topolino: la guerra era finita da poco e il paese era impegnato nella ricostruzione. Papà, comunista, aveva fondato in Friuli il sindacato dei postelegrafonici e, tra il suo lavoro alla Telve (attuale Telecom) e gli impegni sindacali, non era mai a casa. Per mia madre, data la differenza d'età, era più padre che marito: malinconico, serio, sembrava portarsi addosso il peso del mondo.

Mia madre, giovane e bella, lo aspettava alla sera, percorrendo in lungo e in largo la nostra casa, furibonda per quella vita tra fornelli e giardinetti pubblici, sempre sola o, meglio, una figlia a destra e una a sinistra, "Come Cristo tra due ladroni", diceva... E, intanto lustrava: piastrelle e pavimenti. Non era pulizia, ma perfezionismo maniacal/ossessivo in cui sfogava il suo livore per una vita che le stava stretta.

Quei fiocchi, che sembrano sbocciare sulle trecce, venivano lavati e stirati ogni giorno. I colletti bianchi erano anche inamidati...

Chissà per quale motivo una casa disordinata, una camicia pulita ma spiegazzata, un vetro alla finestra che conservi la traccia dell'ultima pioggia, vengono considerati con un sorrisetto di compatimento, mentre due bambine senza un capello fuori posto, inamidate - anche nella smorfia che difficilmente si potrebbe considerare un sorriso - sedute sul bordo di una poltrona, in una casa lustra che sembra una sala operatoria, assicurano alla loro madre il plauso generalizzato del mondo?

Il perfezionismo è una delle gabbie in cui molte donne si autorinchiudono, gettandone alle ortiche la chiave. Il bisogno - perché di bisogno e non di desiderio si tratta - di essere sempre perfette, con figlie impeccabili sotto tutti i profli, in case dove tutto è lucido, profumato, impeccabile, è una dannazione. Mi sono sempre chiesta se sia un modo di tenere sotto controllo un disordine interno, un'insoddisfazione profonda, una paralisi dei sentimenti e credo sia legato a un bisogno di controllo sulla vita che, con la sua passionalità, i suoi eccessi, il suo grondare lacrime, sangue, polvere e sudore, insozza.

Se lo sguardo è la porta d'accesso all'anima, se il linguaggio è fatto anche di gestualità, queste due bambine, immobilizzate dallo scatto del fotografo, cosa comunicano?


La fotografie rubano l'anima?

mercoledì 13 maggio 2009

I giovani

Non guardava quasi più la televisione, ma la temperatura finalmente mite e le giornate interminabili, che precedono il solstizio d’estate, non invitavano al sonno. Così aveva visto un film; tutti giovani: attori, regista e autore del libro da cui il film era stato tratto.
La macchina da presa che inseguiva il protagonista nei suoi spostamenti mentre attraversava l'oceano per tornare a casa dagli Stati Uniti, o, angustiato dal desiderio di un corpo perfetto, sudava in palestra, o, burattinaio mosso da un puparo impazzito, si dimenavano nello spazio esasperato di luci e suoni delle discoteche. Le bustine di “roba” che passavano come zucchero per un caffé, l’amore che si faceva dove capitava: in un gabinetto, su una spiaggia, in camera sapendo che papà sarebbe potuto essere di ritorno a minuti... mentre, circondato da un mondo giovanile fatto in serie, saliva e scendeva da robanti bolidi a due ruote, dalla macchina (dei genitori)in mezzo a selezioni per veline, feste e sfide in moto, tutto di corsa, tutto “toccata e fuga”.
L’impressione che ne ricavava lo spettatore era che fosse bandito il pensiero come riflessione, come spazio di colloquio con se stessi per capire e capirsi, tramite un movimentismo frenetico, incapace però di contenere le paure, il dolore delle perdite, l’inutilità di alcune esperienze. Il tutto mentre mamma e papà coprivano le spalle, alzando un muro fin che fossero stati in grado di farlo, a difesa dei loro cuccioli, mossi dall’imperativo categorico che la vita, quella “vera”, non dovesse sfiorarli.
La realtà anche se esasperata e radicalizzata dalla finzione cinematografica le mostrava una gioventù incapace di sognare, di abbandonarsi ai sogni modesti come alle grandi speranze di cambiamento che avevano accompagnato la sua generazione. Un mondo brutto, sporco e cattivo: insolente nel mostrarsi - c’è sempre un monitor, enorme o minuscolo che sia, a inseguire e fotografare o mimare la realtà - assolutamente privo di pudore. La dimensione onirica e personale del sogno non aveva più senso. Volendo “evadere” avevano un mondo alternativo preconfezionato nel quale immergersi in qualunque momento.
Il film, nel suo mostrare stereotipi giovanili stantii, risultava banale anche se a lei qualche spunto per riflettere l'aveva dato, come la valenza assunta dallo "spettacolo", diventato così importante, e addirittura oggetto di desiderio per migliaia di ragazzi riuscire a entrare in quel mondo che gli ruotava intorno. Dalle maschere carnevalesche nelle calli di Venezia, allo sport, alla morte in diretta, al primo attacco che dava il via a una guerra: su due binari paralleli, che a volte paradossalmente sembravano sfiorarsi, scorrevano la vita vera, con la sua opacità, e la vita fasulla, scintillante di colori e di luci. In questo luna park i più fragili, storditi da imbonitori da strapazzo, destinati a perdere il senso della realtà, a cosa sarebbero andati incontro? I sogni preconfezionati si sarebbero tinti di nero, diventando incubo, strage del sabato sera o risveglio sulla barella di un Pronto Soccorso.
Non per tutti, che ben più variegata e complessa era la realtà del mondo giovanile che, al di là del ritrovarsi in palestra o in discoteca e vivere immersi in una una cultura dello "sballo", sapeva anche esprimere la speranza, la critica, l'umorismo e l'intelligenza dei giovani che contattava su internet e che si andavano differenziando in una diversità difficile da inquadrare in schemi rigidi. Forse c'era chi i giovani li avrebbe voluti così ma, nonostante tutto, si stavano difendendo bene e proprio tra loro in un campione magari non rappresentativo il cambiamento della società stava, probabilmente, già preparandosi, in barba agli stereotipi e al bisogno dominante di sicurezza che stava alla base delle generalizzazioni nonché ai sicuri guadagni che il filone a cui il film apparteneva poteva assicurare.
Chi sceglieva i film da programmare? E in base a quali criteri?
E sulla base di quali obiettivi da conseguire? Epater les bourgeois? Mettere una contro l'altra le generazioni? Queste sarebbero state alcune delle domande corrette da porsi, ma certamente le risposte non avrebbe potuto trovarle lì.

martedì 12 maggio 2009

Sogno o son desta

Aveva cominciato per gioco, o forse per disperazione, picchiando incerta sui tasti del computer, con forza, come le avevano insegnato anni – o erano secoli? – prima, quando ancora le donne facevano le dattilografe e stenografavano compunte con il notes sulle ginocchia.
Aveva cominciato così e, soltanto in seguito, si era resa conto delle potenzialità dello strumento.
In un’età in cui anche le passioni di una vita si spengono, in lei erano esplose, ancora più esaltanti perché impreviste e vissute come un ultimo frutto caduto da un ramo finito per errore nel suo giardino. Aveva aperto un blog e ancora quando lo comunicava coglieva vaghe occhiate di scherno o di sincera meraviglia.
E l’uncinetto?
L’aveva riposto in un cassetto con i ferri da calza e i gomitoli, e di fare la calzetta proprio non le sarebbe mai passato per la testa.
Era sempre stata una persona curiosa e ora la sua curiosità trovava nuovi modi per essere soddisfatta, ficcando il naso nei blog altrui, leggendo i commenti, aggiungendone di propri. Conosceva gente nuova: alcuni si limitava a sfiorarli, come quando si sale su un bus gremito e si tenta di raggiungere la macchinetta obliteratrice, altri li contattava in modo più serio. Di qualcuno era diventata amica ed erano amicizie vere, importanti.
Si era ritagliata spazi minuscoli nel web, coltivandoli come sua nonna aveva coltivato il suo orto di guerra, con passione molto più che con competenza.
Ormai il suo mondo aveva rotto gli argini.
Nella sua stanza, in quell’interminabile inverno, se i suoi occhi non erano andati oltre il davanzale della finestra su cui dava la sua scrivania, rimbalzando sulla nebbia che innalzava muri impalabili ma impenetrabili allo sguardo, gli occhi del computer l’avevano portata in giro per il mondo, quel mondo in cui lei aveva dimore che erano sempre pronte a accoglierla.
Era su My space, Face book, Miglior Blog, Technorati dove bastava scegliere un tag e come da una slot machine scendevano tintinnando commenti, racconti, informazioni…
Una mattina di primavera inoltrata, faceva caldo, la nebbia era stata riposta con i cappotti in naftalina, controllando la mail notò che non c’erano messaggi. Strano! Beh, potevea succedere. Il giorno precedente, una giornata piena di sole, la gente l’aveva passata passeggiando e nei bar all’aperto, non accartocciata sulle tastiere dei pc a scrivere.
Passò a My space. Apparve una videata che la invitava a digitare la password.
Diligente digitò.
Password sconosciuta. Come? Avete dimenticato la password? Comunicate il vostro indirizzo e-mail. Ve ne spediremo una nuova. E vabbé.
Con pazienza, anche se avvertiva una vaga sensazione di malessere, digitò il suo indirizzo e-mail.
User name e e-mail non sono corretti. Come non sono corretti? Irritata passò a Technorati L’avevano inserito il suo ultimo racconto? Blog sconosciuto. Si cercò si Face book: Non esisteva.
Andò su Anobii dove venne messa in strada da un cybor –buttafuori.
Ormai sgomenta digitò l’indirizzo del suo blog.
Mai esistito.
Il suo alter ego, il suo doppio idealizzato e costruito a tavolino, perfetto e servile non esisteva più.
C’era soltanto lei: una banale Laura senza l’ombra rassicurante e intrigante dell’onomatopeica Falilulela.
Cercò per giorni, in quel mare di ombre, la sua ombra.
Il medico da cui andò, esaurita, a farsi visitare, le consigliò un antidepressivo e una visita da un neurologo. Le amiche le regalarono l’abbonamento a Rakam- le più belle maglie dell’estate. Il suo blog, la sua creatura, naufragò , senza guida, nella notte senza tempo del web. Pian, piano si convinse di averla sognata quell’esaltante stagione, di averla intravista nella smania di una notte di febbre e delirio.
L’autunno la sorprese a sferruzzare, il computer con un centrino sopra e la gatta che si faceva le unghie sul monitor, grigio e spento come la nebbia che bussava alla finestra.

venerdì 8 maggio 2009

Il re è nudo

Che
patetico vecchietto,
neanche laido,
solo spento
che davanti a un monumento,
culo e tette da portento
neanche frigna di sgomento
troppo tutto
ormai
è lento,
come il resto tutto tace
che dei sensi ora è la pace.
Che vergogna,
che sgomento
era,
non è più portento.
A Veronica con grazia
Ci inchiniamo,
ringraziamo
e il Re Nudo,
finalmente,
con sollievo
mentre
vergognoso arranca,
con la mano,
piano,
piano,
salutiamo...

giovedì 7 maggio 2009

C'era una volta una principessa

C’era una volta una principessa che regnava su un palcoscenico polveroso separato dal mondo da un sipario di velluto rosso. Anche se minuscolo, quel regno le permetteva ogni sera di mostrarsi ai suoi sudditi, di essere acclamata, di ricevere mazzi di fiori, applausi e complimenti.
Era un tributo più alla sua bellezza che alla sua bravura, ma a lei bastava, e il futuro si presentava roseo di promesse.
Ma una sera d’inverno, il teatro era caldo e le luci basse, Beronica splendente di bellezza e giovinezza come una torcia accesa nel buio di una caverna, quando, tra gli spettatori in fila davanti al botteghino, si fece largo un uomo. Troppo sorridente, troppo prepotente ( tentò di non rispettare la fila), troppo alla moda, entrò per assistere allo spettacolo, attratto dalle forme giunoniche di Beronica che giganteggiavano invitanti dai manifesti che tappezzavano la città.
Tilvio, questo era il suo nome, era il reuccio di Milano, oh, non la grande città del Nord capitale morale del Paese, una Milano in miniatura, fatta su misura per l’unica categoria di persone da lui considerata: i ricchi. Piccolo sì, il suo regno, ma multiplo. Milano: Uno, Due, Tre…
Il nostro Tilvio aveva molte doti, una passione per il denaro ed era un prestigiatore nato. Fulmineo,in un gioco di specchi, faceva apparire e scomparire le sue mini città davanti agli occhi attoniti dei direttori di banca che, quasi più nulla capivano, anche perché il Tilvio, che era un simpaticone portato allo scherzo anche se un po’ pesante, era diventato amico di gente importante e tra i suoi giochi di prestigio, la presentazione degli amici, i debiti che diventavano crediti - una di e una bi di differenza, ma vogliamo sottilizzare direttore? Mi lasci lavorare che i ‘diné’ non aspettano - le banche l’avevano finanziato senza battere ciglio. Al Tilvio.
La nostra principessa recitò meglio del solito e, a fine spettacolo, sommersa dagli applausi e dai fiori, incrociò lo sguardo del Tilvio. Un brivido la scosse mentre una vocina le sussurrava:”Attenta ragazza mia, attenta…l’incantesimo durerà trent’anni, e liberartene sarà durissimo. Fuggi principessa, fuggi”. Ma quando entrò nel camerino nella corbeille di fiori c’era una collana di oro bianco con uno smeraldo. Ebbe l’impressione che un’ombra alle sue spalle l’aggredisse, salendo come una marea nera. Solo lo smeraldo riluceva nell’oscurità.
Alle sue spalle il Tilvio, grazie ai tacchi e alle spalle imbottite, giganteggiava nel riquadro della porta.

mercoledì 6 maggio 2009

" In bocca al lupo" Veronica

Cara Veronica, non vorrei trovarmi al tuo posto. Mi tremerebbero le vene ai polsi se dovessi duellare contro un uomo come il tuo, colpevole di tradimento coniugale. Almeno questa è la punta dell'iceberg che sembrerebbe aver dato un colpo, come quello che fece inabissare il Titanic, al vostro matrimonio. In un monologo parossistico presumo che riuscirebbe a convincere - l'ha già fatto con milioni di elettori - qualsiasi avvocato o giudice della sua assoluta innocenza. Lo hanno trovato a letto con una minorenn? Le insegnava il sudoku. Che male c'é? Si sussurra - anzi si urla - che sia un incredibile tombeur de femmes? Beh, è colpa sua se piace? Che, non ti sei innamorata di lui pure tu e gli hai scodellato tre figli? Ma dimmi Veronica, chi è che ti ha soffiato qualcosa all'orecchio? I comunisti? Ammettilo dai, quel comunistello veneziano, che un po' ti è sempre piaciuto, di tuo marito non ha mai parlato bene. Ma lo lasci proprio adesso, ora che è sulla cresta dell'onda?
Non ti fidare Veronica, accetta un consiglio da un'amica. Te la farà pagare carissima. A parte il fatto che ben pochi uomini accettano di essere piantati, sarà proprio difficile che questo nipote di Dio, dall'alto della sua bassezza o dal basso della sua altezza, non te la faccia pagare. Però tu ti sarai messa da parte un gruzzoletto. Spero per te sia cospicuo perché avrai bisogno di una schiera di avvocati. L'uomo in questione non teme la giustizia, ha notevole dimestichezza con le aule giudiziarie e... male che gli vada, potrebbe sempre ricorrere a una proposta di legge 'ad personam' che consideri la richiesta di divorzio di una moglie,il cui marito risultasse essere persona nota nonché detentore di redditi superiori a 3ooo milioni di euro di patrimonio, reato di lesa maestà.
A quel punto, cara Veronica, cosa potresti fare? Raccontare qualche segreto di famiglia? A chi?
Beh, avresti solo l'imbarazzo della scelta, ma, ripeto, l'uomo, di cui nessuno quanto te conosce la doppia, tripla ecc. faccia/feccia è abile.
Non sottovalutarlo Veronica e "in bocca al lupo!"

martedì 5 maggio 2009

La stanza di nonno Alfonso

L’ultima volta in cui venne zio Checco gli chiesi di farmi vedere lo studio di nonno Alfonso. Io ero la più piccola dei cugini ed ero anche piuttosto timida, poco spericolata. Dire che avevo visto lo studio del nonno, sorvolando sul fatto di essere accompagnato da un adulto, avrebbe fatto schizzare alle stelle le mie quotazioni e tutti mi avrebbero riservato un trattamento ben diverso. Chi si sarebbe azzardato più a chiamarmi chiocciolina? Ma lo zio, dopo avermi guardato per un istante senza parlare, mi disse: ”Mi dispiace Roberta, io in quella stanza non ci metterò mai più piede. Lo sai cos’è successo?” “ Lì è morto nonno Alfonso” risposi un po’ impacciata.
Lui sembrò guardarmi, ma c’era nei suoi occhi una vacuità che mi spaventò. Lentamente, quasi parlasse tra sé e sé disse: “Lì è stato ucciso il nonno” Io lo guardai sconvolta senza avere il coraggio di porre ulteriori domande e, approfittando del passaggio di Nunziatina, mi attaccai alla sua gonna e la seguii, allontanandomi dallo zio.
Non vidi mai più lo zio Checco: non era trascorso nemmeno un mese dalla sua partenza, quando un funzionario dell’ambasciata italiana ci comunicò che era morto in Egitto ucciso in una rissa. Mio padre partì per andare a riprenderlo e tornò dopo una settimana. Il funerale al paese fu grandioso.
Perdere lo zio Checco fu il dolore più grande della mia infanzia che in parte superai quando nacque mio fratello, con un parto che per puro miracolo non uccise mia madre. Mio fratello era il ritratto dello zio, di cui portò il nome, per volontà di mia madre.
Un giorno, mentre lei lo fasciava notai che aveva una voglia a forma di cuore sul pisellino.
Mentre se lo prendeva tra le braccia, glielo feci notare e lei sorridendo distratta mi rispose: “L’avevano anche zio Checco e nonno Alfonso”. Poi arrossì. Violentemente.
Non le chiesi, né in quel momento né in seguito, come mai lo sapesse.
Nonna Clotilde che cambiava la versione dei fatti a ogni stormir di fronda non smise mai di dirmi, fino alla sua morte:” E tu chi sei, nessuno di noi è biondo…povero figlio mio”
La stanza dove mia madre la segregò nei suoi ultimi anni di vita venne chiamata “La stanza della pazza” ma io la chiamai sempre “La stanza di nonna Clotilde”.

lunedì 4 maggio 2009

La stanza del nonno Alfonso

I Morabito erano la famiglia più ricca del paese. Erano di loro proprietà le greggi che, riempendo l’aria di belati e digrignar di zanne dei cani da pastore, in autunno scendevano dai pascoli sul Gran Sasso chiazzando di bianco la montagna. Erano padroni delle terre a valle, abitate e coltivate dai mezzadri, dei vigneti che si arrampicavano sulle colline, dei frutteti e delle porcilaie. L’intero paese apparteneva ai Morabito e più precisamente a mio padre e a suo fratello, lo zio Checco.
Beh, lo zio Checco era una persona straordinaria e in lui tutto era insolito, originale: dal modo di vestire alle scelte di vita che l’avevano portato in giro per il mondo. Era bellissimo, nero di occhi e capelli, come diceva sua madre, e quando ritornava dai suoi viaggi in terra d’Africa, bruciato dal sole, vestito di bianco, il sorriso da eterno ragazzo sulle labbra, le donne impazzivano per lui.
Le notti estive si animavano allora nella vecchia casa di fruscii inconsueti. Nel corridoio che portava alla sua stanza scivolavano, impalpabili come ombre soltanto immaginate, figure femminili.
Girava il mondo, questo zingaro di lusso, coltissimo e curioso, mandandomi cartoline illustrate dai posti più strani dai quali faceva ritorno carico di regali dal tocco esotico. Una volta mi regalò una scimmia impagliata e dalla Cina arrivò con uno splendido aquilone di seta rossa, dalla testa di tigre che fluttuando nell’aria sembrava spalancasse la bocca per azzannare il vento.
Per noi bambini, quando sentivamo la sua voce gridare “ Ehi di casa, è così che si accoglie il figliol prodigo”, rimbombando nell’atrio in penombra che consentiva l’accesso al corridoio che portava alla cucina, era una vera e propria festa.
“ E’ un incantatore di serpenti” esclamava mia madre, aggiungendo “ li rincretinisce di fole” , ma dopo avere servito aranciata ghiacciata e dolci, si sedeva anche lei ad ascoltare assorta, mentre il sole corteggiava i picchi bianchi di neve delle montagne e le valli si riempivano d’ombra.
Quando le prime luci si accendevano nelle case, che dal terrazzo di casa nostra si dominavano con lo sguardo, la cameriera veniva ad avvertire che era pronta la cena. Arrivava anche mio padre, il panciotto di seta che s’intravvedeva sotto la giacca e l’orologio a cipolla che apriva con uno scatto metallico, borbottando: “Quando arrivi tu Checco, porti l’anarchia. Siamo in ritardo di mezz’ora sul nostro abituale orario di cena. E come se non bastasse ecciti i bambini a tal punto, con le tue storie, da far loro perdere l’appetito…” e si vedeva che era un po’ invidioso di quella vita libera che il fratello si era scelto, mentre lui si dannava con i mezzadri a controllare che non rubassero sull’olio o il vino e non facessero sparire qualche sacco di mandorle, ché lui nemmeno del suo fattore si fidava.(continua)

Finito

Ho finito ieri il mio secondo libro. Si è staccato, forse sarebbe meglio dire che me lo sono strappato di dosso, come un maglione bagnato di pioggia. Cosa mettiamo, in un libro, di noi che lo scriviamo? Le nostre emozioni e una storia che è, o era la nostra storia, ma che ora non lo è più.
Perché il potere della scrittura, uno dei tanti, è anche quello di cambiarla la storia, piegarla a un destino diverso. Si arriva a un bivio e invece di svoltare a destra, si prende la strada a sinistra, oppure ci si ferma. Era inverno?, e noi cambiamo il colore del cielo, e spruzziamo di margherite il bordo del fosso. E ci sediamo a riflettere, mettendo in bocca al personaggio scaturito dalla nostra penna, un monologo, una riflessione articolata, consequenziale, lucida che mai la nostra personale impulsività ci avrebbe consentito. E lo seguiamo, questo personaggio che è un nostro doppio dai contorni ancora non definiti, con la sollecitudine e lo stupore di una madre. Come madri vorremmo vederlo crescere e andarsene, indipendente e autonomo, come madri veniamo lacerate dal distacco.
Ora è lì, imprigionato in quel pacco di fogli che, stranamente, non vagano più per tutta la casa, ma sono ben impilati uno sopra l’altro, occupano così poco spazio, e sono costati tanto lavoro, tanta fatica.
Costruire un romanzo non è facile, anche se, paradossalmente lo abbiamo già tutto scritto dentro. Dentro dove? Nel cervello, nella pelle, nell’anima. Nelle decine di osservazioni appuntate in giro per la casa: sul libro delle ricette, sulla prescrizione medica, ma anche nelle rabbie, nella leggerezza di certi momenti, nello struggimento dei rimpianti, nei ricordi che ci sorprendono o ci hanno sorpreso a tradimento Lui, il romanzo, con la sua storia, è fatto di noi, delle nostre parole, idee, speranze, tic, sogni, paure e illusioni e da noi è completamente diverso.
Come un figlio.
E come un figlio che se ne fosse andato, a conquistare il suo posto nel mondo, questa mia storia parallela che ha riempito di sé tanta parte delle mie giornate, oggi, mi manca.

La stanza di nonno Alfonso

Quell’anno l’autunno fu più piovoso del solito e il freddo in quel paesino di montagna alle pendici del Gran Sasso si fece sentire presto. Alla fine di settembre caminetti e stufe già ardevano nella casa, e nei letti, alla sera, le domestiche mettevano il “prete”. Non maturarono i cachi nell’orto e l’uva, pallida e acquosa, dette un vino cattivo che, per anni, fece dire a mio padre, se c’erano ospiti a tavola:” Non prendete il vino del Cinquantadue.” fino a quando mia madre si decise e, di nascosto, fece svuotare tutte le bottiglie nel lavello. Operazione alla quale io presi parte con grande divertimento. Alla fine, vuoi per le esalazioni del vino, vuoi per qualche sorsata, Nunzietta e io ci ubriacammo e quella fu la mia prima sbornia. Mia madre, che era incinta, aveva una gravidanza difficile e si lamentava sempre per la nausea e il mal di stomaco. Era cambiata, le sue risate di gola non risuonavano più nelle stanze. Tetra, mentre lo sguardo le si incupiva, diceva che quel bambino nel suo ventre la stava facendo impazzire, che era troppo grosso, senza ombra di dubbio maschio e, inoltre, che aveva deciso di farla dannare prima ancora di nascere. E concludeva, rivolgendosi alla domestica, con quel sussurro” Nunziatì io morirò di parto” che terrorizzava la ragazza.
Poco più di una bambina, presa a servizio a dieci anni, Nunzietta sentendo le parole di mia madre si metteva le mani nei capelli e, facendo gli scongiuri, diceva“ No è issa c’ ha da murì, no è issa…” e poi si tappava la bocca con le mani, mentre io pregavo Santa Rita, che mia cugina mi aveva assicurato essere la Santa dei miracoli impossibili, di far sopravvivere al parto mia madre e di prendersi, se proprio qualcuno doveva morire, nonna Clotilde che non riconosceva nessuno e mi diceva, quando e se notava la mia presenza nella stanza “ E tu chi sei? Nessuno di noi è biondo, siamo tutti neri, di occhi e di capelli.” E scuotendo il capo concludeva: “ Con chi ti fece, con chi ti fece? Ah povero figlio mio!Non ne risparmiò nessuno ”
Io correvo da mia madre che mi rassicurava dicendo: “ E’ pazza. Quando ha smesso di essere fertile, il sangue, non trovando sfogo, le è andato al cervello” e mi accarezzava, ma sottovoce, facendosi sentire soltanto da me, aggiungeva:” Ma anche cattiva è, e non mi ha mai potuta soffrire. Tu hai i miei capelli e i miei occhi e nelle vene ti scorre il sangue dei Morabito. Sei bellissima figlia mia, vieni qui e fatti baciare “.(continua)

domenica 3 maggio 2009

La stanza di nonno Alfonso

Ci sono case che sono palcoscenici teatrali perché per le luci, le dimensioni, gli arredi, sono state i fondali perfetti di quella recita senza soluzione di continuità che è la storia di una famiglia. A cosa si ridurrebbero nascite, morti, matrimoni e delitti privati di quella cornice? A semplici annotazioni sul Registro dello Stato Civile, perdendo parte del loro mistero. In queste case le camere, che hanno nomi che evocano fatti, sembrano vivere di vita propria. La camera di zia Rosetta era quella in cui la zia in questione era morta, mentre lo studio di nonno Alfonso, in cui nessuno entrava – a eccezione delle domestiche per spolverare – era la stanza nella quale era stato rinvenuto, riverso sulla scrivania, il foro all’altezza della gola provocato dalla pallottola partita dalla pistola che ancora stringeva tra le mani. Accidentale quella morte? Non si era mai saputo con precisione, ma in paese si mormorava che il nome e soprattutto il patrimonio della famiglia, avessero indotto chi avrebbe dovuto indagare a stendere un velo di silenzio sull’intera vicenda, avvalorando la tesi dell’incidente. Dal giorno della morte di nonno Alfonso, nessuno aveva più voluto entrare nello studio e c’era chi, in paese era disposto a giurare e spergiurare che nelle notti di luna la finestra dello studio, che dava sulla piazza del paese, lasciasse filtrare un filo di luce, sufficiente a lasciare intravedere un’ombra in movimento dietro alle tende.
A noi bambini era stato vietato, ma senza fornirci la ben che minima spiegazione, di entrarci, con il risultato di scatenare in noi una morbosa curiosità e la tentazione, vivissima, d’infrangere il divieto.
Ne parlavamo tra cugini, spessissimo e a voce bassa, usando una sorta di linguaggio cifrato: era la camera ics che sorvegliavamo istituendo turni di guardia per dimostrare il nostro coraggio. Era infatti ubicata in fondo a uno stretto corridoio, illuminato debolmente da un lume che pendeva dal soffitto e sul quale erano state svitate tutte le lampadine, a eccezione di quella centrale che mandava una fioca luce la quale sembrava più alimentare ombre paurose sulle pareti che fugare le tenebre.
Rimaneva accesa tutta la notte perché accanto allo studio c’era uno dei bagni di servizio e le domestiche lo usavano per vuotarci il pitale di nonna Clotilde, che stava su una sedia a rotelle e che, spesso, di notte con voce aspra, gridava: “ Nunziatì, Nunziatì…a piscia!”
E, subito dopo, si udiva ciabattare Nunzietta, mentre con voce spazientita diceva” Arrivo signo' ,arrivo”.(continua)

nostalgia

Sigillò con cura la scatolone: l’ultimo. Finalmente. Controllò l’ora: l’impresa di trasporti sarebbe arrivata tra poco. Si affacciò sul terrazzò , lasciando vagare lo sguardo sul condominio di fronte prima di soffermarsi sulla finestra del quinto piano. Il proprietario dell’appartamento era già uscito per recarsi al lavoro. Al suo ritorno a casa avrebbe fatto un gesto, un saluto, una comunicazione cameratesca tra “single”, un invito non privo di sottintesi fatto da un uomo a una donna ...chissà? affacciandosi al balcone alle otto in punto. Avrebbe scrutato incerto i riquadri scuri delle sue finestre. Sarebbe rientrato, sarebbe uscito di nuovo: incerto, stupito. Poi, anche sulle sue finestre sarebbe calata la notte. Forse si sarebbe dimenticato di annaffiare i gerani o forse no.
Il suono del campanello lacerò il silenzio. Chiuse la porta sul terrazzo sigillando l’ultimo scatolone, il più fragile, quello dei ricordi.

sabato 2 maggio 2009

Scrittura femminile

C’è una scrittura femminile? Da contrapporre a una maschile? Chi scrive si travasa nella scrittura calandosi in qualunque personaggio: donna , uomo, assassino o folle, per coglierne tutte le peculiarità. Sto pensando a un personaggio letterario come quello di Anna Karenina di cui Tolstoy traccia un ritratto minuzioso e impeccabile sotto tutti i profili. Come ci sarà riuscito? Studiando, osservando la realtà femminile, ma è probabile si sia confrontato anche con la moglie. Le emozioni non hanno genere: il dolore o la rabbia sono eguali per uomini e donne. Diverso profondamente è l’approccio alla sessualità, nonostante siano crollati certi tabù, e la pillola renda sicuri i rapporti sessuali. La valenza che la donna attribuisce alla sessualità prevede un maggior coinvolgimento emotivo e affettivo, portandosi dietro aspettative di maternità, fantasticherie che per il maschio o non esistono o sono più sfumate. E questa differenza credo emerga nella scrittura. Più facilmente un uomo descriverà una scena di sesso, e nel farlo non penso possa essere più di tanto turbato all’idea che il suoi figli potrebbero leggerla. Diversa ritengo sia la posizione di una scrittrice perché, se la paternità è conseguenza logica della sessualità, la maternità è qualcosa che alla sessualità si contrappone, almeno nell’immaginario femminile che sussurra o madre o donna rendendo i due ruoli non facilmente conciliabili. La paternità arricchisce l’uomo senza distoglierlo dl lavoro, anzi spronandolo a conseguire maggiore sicurezza economica per il figlio. La donna vive prima di tutto un cambiamento fisico, un coinvolgimento di pelle e anima che la costringe a fare i conti con la malinconia del dopo parto, il senso di colpa che si accompagna alla ripresa del lavoro, l’attentato alla propria seduttività che l’allattamento, le nausee, il vomito in gravidanza non possono non costituire. La donna per questi motivi è meno aggressiva nei confronti della professione, perciò la maternità entra in rotta di collisione con la carriera, soprattutto in un paese come il nostro, inzuppato di mammismo e nella fase attuale del ciclo economico, caratterizzato da elevata disoccupazione.
La scrittura femminile tende a privilegiare il vissuto intimo che fa da contraltare alle vicende della Storia, la donna generalmente combatte su altri fronti, senza il fucile o le bombe a mano, combatte per salvare un figlio dalla droga, per tirare avanti la famiglia se rimane vedova, scannandosi a curare i propri vecchi, facendo l’equilibrista su quel filo senza rete che è il suo tempo quando lavora e si occupa della famiglia, tutta, gatto compreso. E di questo, spesso, scrive: con passione, in tono minore o urlando tutta la sua rabbia.
Personalmente non privilegio una scrittura rispetto all’altra: privilegio la bravura, la sensibilità di coloro che scrivono, perché l’arte non ha genere.

Nous

Era morta il giorno prima: una morte da stronzi, anzi da stronza Dopo un volo dal motorino uno splash sull’asfalto e il sangue aveva incorniciato come un passepartout prezioso il suo volto di porcellana. Si era vista portar via, ma l’immagine le era apparsa sfocata anche se non aveva potuto fare a meno di notare che il tizio che si era chinato su di lei, chiamando il 118, le aveva sfilato il portafogli dalla borsa. ‘Sto bastardo!
Disancorata dal corpo, lei – cioè tutto ciò che era stata ad eccezione dei suoi cinquanta chilogrammi di carne - osservava stupita quel groviglio di interconnessioni che come tentacoli si diramavano in tutte le direzioni in una notte buia alla quale improvvise luci davano l’irreale sensazione di una volta celeste dove, al calare della sera, si fossero accese le stelle.
Lei era stata selezionata per un progetto di downloading della mente il cui obiettivo era quello di copiare e scaricare la mente individuale nella memoria di un computer. Poi, salva con nome. XY11111111111, O32, era diventata e quello che la circondava sarebbe stato il suo mondo.
Virus informatici e guasti tecnici permettendo, sarebbe vissuta in eterno perché lei era solo Informazione che, attraverso il filtro della coscienza, aveva avuto accesso alla mente e quella mente ora avrebbe potuto placare le polemiche tra filosofi, religiosi e scienziati perché in quel pugno di dati lei conservava il ricordo delle emozioni, la possibilità di elaborazione consequenziale, l’Io, il Super io e il vergognoso Ego. Era cioè anima, mente, coscienza. Rise, virtualmente s’intende!
Nous in greco significa anima, mente coscienza. L’avevano già intuito:
tanta strada lastricata di lutti e fatiche, per ritrovarsi al punto di partenza.