lunedì 27 ottobre 2008

Città da bere?

Giovanna, come quasi tutti in quella grande città, camminava velocemente diretta al suo posto di lavoro. Scesi i gradini che portavano alla metropolitana, s’infilò a fatica nel muro compatto di persone che stazionavano in attesa del convoglio sulla banchina e, dopo pochi minuti, si ritrovò strizzata tra alcuni ragazzini che le sbattevano addosso i loro zainetti e due impiegate che, dalla faccia, non avevano ancora smaltito la stanchezza del giorno prima. Ad eccezione dei ragazzini che urlavano, interpellandosi da un punto all’altro della carrozza in un lessico sgrammaticato, inframmezzato da grugniti e parolacce, gli altri viaggiatori, che sembravano impegnati solamente nella faticosa ricerca di un punto da fissare che escludesse la possibilità d’incrociare un qualsivoglia sguardo, tacevano.Qualcuno leggeva.

Quel vuoto di parole era però riempito, anzi totalmente annullato, dal boato rabbioso che accompagnava il viaggio del convoglio nel labirinto di gallerie sotterranee. Solo in prossimità delle singole stazioni dove, con un singhiozzo che sembrava quasi di rammarico, il convoglio frenava, il fracasso si smorzava sostituito dallo scalpiccio di chi usciva scontrandosi con la fiumana frettolosa dei nuovi arrivati.

In quella città la donna viveva da alcuni anni e non era ancora riuscita ad abituarsi a quel vuoto così rumoroso di parole tanto che, a volte, quando improvvisamente incrociava lo sguardo di qualcuno seduto davanti a lei, le capitava di sorridere. Lo fece anche quel giorno e il suo dirimpettaio le lasciò scivolare addosso un rapido sguardo prima di assumere, infastidito, quell’espressione assorta che ancora la lasciava piuttosto sconcertata. La donna, quando viaggiava sulla metropolitana, non guardava mai nel vuoto, divertendosi ad osservare con curiosità i viaggiatori e, più di una volta, qualcuno l’aveva apostrofata con un “embé? “ piuttosto seccato che, tuttavia, non le aveva fatto perdere l’ abitudine di fissare le persone.

Con un sobbalzo che la distolse dai suoi pensieri, il convoglio si fermò di nuovo: un viaggiatore entrò, si guardò attorno e, notando il posto libero accanto al suo, si avvicinò per sedersi. L’uomo, aria distinta, ben vestito, lieve profumo di acqua di colonia, dopo aver fissato per un secondo il sedile, si aggrappò, mentre il convoglio riprendeva la sua corsa, alla sbarra di sostegno, impegnandosi nell’apparente lettura di una pubblicità, appesa accanto alla porta d’ingresso.

- Perché non si era seduto? Forse aveva, di primo acchito, individuato in lei quell’attenzione curiosa nei confronti degli altri che sembrava tanto infastidire i viaggiatori metropolitani? - Mentre così pensava, lo sguardo le cadde sul sedile alla sua sinistra e un brivido di raccapriccio la percorse da capo a piedi: un orecchio mozzato e insanguinato era stato gettato o, forse, appoggiato sul sedile.
“ Ha visto? Ha visto cosa c’è …? “ Giovanna, trattenendo a stento il disgusto, si rivolse all’uomo davanti a lei, afferrandolo per la manica della giacca, ma non aveva ancora alzato la mano per indicare l’oggetto del suo raccapriccio che l’uomo, fissandola gelidamente, anzi conficcando lo sguardo sulla mano della donna aggrappata alla stoffa della sua giacca, le sibilò:
“ Ma come si permette? Mi lasci “.
“ Ma non vede? Non vede quel coso? “

Sollevò lo sguardo; davanti a lei nulla era cambiato: chi leggeva, chi fissava un punto sopra la sua testa, chi la sfiorava con lo sguardo, assumendo un’aria infastidita o vagamente ironica.
In quel momento, giunto a destinazione, il convoglio si fermò e le porte si spalancarono. Giovanna, sconvolta, si alzò, precipitandosi fuori dal vagone.- E se fosse stata una sua impressione? Nessuno accanto a lei aveva dato il minimo segno di stupore, disagio o, men che meno, raccapriccio -.

Nel giro di pochi minuti arrivò davanti al portone della scuola. La classe l’attendeva, vociante, al primo piano. Tra un cambio d’aula e l’altro, la mattinata passò rapidamente e il suono del campanello liberò lei e i suoi allievi dalla prigione scolastica.

La giornata autunnale era tiepida, gli alberi del parco, che abitualmente attraversava per tornare a casa, avevano cambiato colore e una luce dorata avvolgeva cose e persone impreziosendole. Giovanna s’incamminò lungo il vialetto ombroso, calpestando le foglie che, sotto ai suoi piedi, formavano un tappeto scricchiolante.

Un cane s’avventò scodinzolando su di lei; il padrone lo richiamò infastidito, ma l’animale non obbedì. Con il corpo immobile, improvvisamente irrigidito, alzò il muso annusando l’aria, allungò una zampa e afferrò qualcosa tra le foglie. Giovanna trattenne a stento un urlo di orrore, mentre il cane, tutto orgoglioso, esibiva davanti ai suoi occhi come un orrendo trofeo, una mano insanguinata.
“ Possibile che tu debba raccogliere tutte le schifezze che trovi? “ La voce del padrone, stizzita, infranse il silenzio del parco, mentre, misurandosi con l’animale, tentava di strappargli dalle fauci quel grumo di foglie, carne e sangue rappreso.
“ Avrebbe un fazzolettino? Macchia Bianca ingoia qualunque cosa e poi, a casa, mi vomita sul tappeto “

Tremante davanti a lui, la donna riuscì, a stento, a mormorare: “ Ma ha visto quello che ha raccolto? Dobbiamo andare al Commissariato di Polizia, questa mattina su un sedile della metropolitana c’era un orecchio mozzato. Apparterranno alla stessa persona? “
L’uomo, cambiando immediatamente atteggiamento, dopo aver richiamato il cane con un fischio e averla squadrata dall’alto in basso con uno sguardo di commiserazione mista a fastidio, si allontanò, incurante della richiesta di aiuto della donna che, quasi supplice, lo pregava di accompagnarla a denunciare quanto avevano visto.

A questo punto Giovanna si decise e, camminando con passo concitato, raggiunse il Commissariato di Polizia che si trovava accanto alla sua scuola. Si avvicinò al poliziotto di guardia che smistava i nuovi arrivati e, con un tono di voce che, mentre parlava, saliva d’intensità facendosi stridulo, gli raccontò ciò che aveva visto. L’uomo la guardò incredulo, per un momento quasi disorientato, ma, afferrandola per un gomito e sorridendole con dolcezza, la sospinse, subito dopo, verso la porta d’ingresso di una saletta appartata, facendola sedere e dicendole, con voce suadente:
“ Non si preoccupi, signora, e si accomodi qui “.

Giovanna lo vide parlottare, indicandola con un cenno del capo, con un collega che, dopo aver annuito, si allontanò in fretta, scomparendo dietro alla porta di un ufficio.
Il Commissariato era una vera e propria bolgia: gente che usciva e entrava in continuazione: molti che, in preda all’agitazione, alzavano la voce, alcuni che imprecavano tra i denti appena i poliziotti voltavano loro le spalle, e qualche anziano, seduto con aria rassegnata, che attendeva paziente in quel vocio che sembrava di minuto in minuto aumentare d’intensità.

In quella grande città, che ancora ci si ostinava a considerare la capitale economica del Paese, i ritmi lavorativi erano diventati forsennati: tutti correvano. Velocità era diventato sinonimo di efficienza. Gli anziani e i bambini erano guardati con dispetto: lenti e indecisi rallentavano la grande corsa verso il profitto, perché, ormai, il denaro, solo il denaro contava e in suo nome tutto era concesso. A questo pensava Giovanna in paziente attesa, sottratta, per un attimo, al vortice rumoroso di attività che si agitava dentro e fuori dalla questura.

“ E’ lei la signora che non sta bene? “ La voce del medico che, accompagnato da un infermiere, era entrato nella stanza e le si era avvicinato, la distolse dai suoi pensieri.
Giovanna si agitò, tentò di parlare, di spiegare, ma venne afferrata e caricata di prepotenza su una autoambulanza che partì a sirene spiegate.

Il medico, seduto davanti a lei, aveva un’aria rassicurante, ma la giornata era stata densa di emozioni. Inoltre, al suo arrivo al pronto soccorso dell’ospedale, quando lei aveva dato quasi in escandescenze urlando che non era pazza, l’avevano imbottita di calmanti, con il risultato che, ora, si sentiva piuttosto confusa.
“ Nome? “ chiese il medico.
“ Giovanna Visani “ rispose la donna.
“ Professione? “ aggiunse l’uomo seduto davanti a lei.
“ Insegnante “ rispose con voce stanca, agitandosi sulla seggiola e lasciando scivolare tutto intorno uno sguardo inquieto.
“ E’ un lavoro molto stressante, soprattutto oggi con la demotivazione allo studio degli allievi, le riforme in atto, l’ostilità dei genitori, l’esiguità degli stipendi…”
La voce del medico era calma, quasi suadente, ma la donna taceva, fissando ostinatamente un punto sulla parete.
“ Dunque , lei avrebbe avuto delle allucinazioni visive, o sbaglio? “
“ Non ho avuto allucinazioni, io ho visto, ho visto…” e la donna tacque, portandosi una mano alla fronte che le si stava imperlando di sudore.
“ Non si preoccupi, signora, è in buona compagnia; ho avuto altri casi come il suo, in questo periodo. La vita in città è diventata particolarmente stressante, ma basteranno delle cure adeguate e la faremo tornare come nuova “.

Il medico scrisse qualcosa sul suo ricettario, poi, stizzito, strappò il foglietto riducendolo in pezzi. Si alzò e, facendo leva con il piede sul pulsante, sollevò il coperchio della pattumiera. Giovanna, che seguiva i suoi gesti, vide sporgere dal bidone un piede rattrappito e contorto. Il medico sobbalzò, volgendo lo sguardo verso la donna per accertarsi che non avesse visto il contenuto del bidone, ma l’orrore stampato sul viso della paziente lo convinse immediatamente del contrario.

Allora si voltò e, sorridendo sornione, le disse:
“ Stia tranquilla, dalla sua espressione suppongo che le si sia ripresentato il problema…Si rassicuri, un paio di pillole e queste allucinazioni scompariranno. Mi raccomando signora, segua il mio consiglio: lei ha una laurea: la sfrutti meglio e si trovi un lavoro che la gratifichi di più “:
Mentre l’accompagnava alla porta un raggio di sole illuminò la stanza, dando contorni precisi agli oggetti. Solo allora Giovanna notò il suo orecchio mozzo e la piega avida delle sue labbra.
Uscì con un profondo senso di sollievo, stracciò in mille pezzi le ricette ricevute e le guardò roteare, come coriandolo colorati, nella luce chiara della sera che avanzava.