giovedì 9 ottobre 2008

Res derelicta

Una trentenne laureata - giovanissima - con ottimi voti, master, primo inserimento nel mondo del lavoro, acquisizione di una professionalità operativa...
Poi, una mattina come le altre, la sua vita deraglia, arenandosi su un binario morto.
Come una balena suicida.
Il mercato l'ha marchiata: esubero.
No, non è, come sarebbe suo diritto, una scatenata ragazza; è un'escrescenza, un tumore nuovo che dilaga e che deve essere eliminato, messo ai margini. Il mercato non ne ha bisogno.
E lei, lei che cosa fa?
Incomincia a mandare curricula in giro. Si presenta a colloqui di lavoro.
Ma deve anche mangiare e vestirsi e...vivere.
Dalle finestre della sua casa - ora può permettersi il lusso di passarci le ore alla finestra -, quando l'oscurità tinge di nero le strade, vede ombre furtive intorno ai cassonetti dell'immondizia. Qualcosa scompare in un sacchetto di plastica.
Incuriosita, si mette di vedetta anche la sera successiva.
Stessa scena.
Il giorno dopo fa un giretto e butta l'occhio.
La domenica, al mercatino delle pulci, stende una vecchia tovaglia appoggiandoci sopra una brocca scheggiata, tre bicchieri spaiati,
un ventaglio senza una stecca e una giacca "Anni'80". Come lei, res derelicta.
Da Santoro, a "Annozero", una ragazza ha raccontato ieri sera la sua storia.
Storia di ordinaria emarginazione.
Storia che si andrà ripetendo, di città in città, di paese in paese.
Quante persone scaricherà, come rifiuti maleodoranti lasciati a marcire nelle strade, l'attuale gravisssima crisi finanziaria?
Si parla di milioni di euro bruciati in una sola giornata nei mercati borsistici di tutto il mondo, ma del futuro di una intera generazione, di cui si sta facendo scempio, non parla nessuno? Questa giovane donna tremante, intimidita dalle telecamere, strozzata dalla disperazione e dalla rabbia, è l'immagine speculare dei rampanti che hanno giocato con i nostri soldi, ma, soprattutto, con la vita, nostra e dei nostri figli.
Impunemente?

PER CAPIRE E CAPIRMI?

Avevo preso appuntamento con un impiegato del “ Libraccio “ e, tra poco, i ragazzi mandati a imballare e caricare i libri, che avevo venduto al negozio, sarebbero arrivati: li stavo aspettando.
Seduta su una poltrona, mi guardavo attorno, lasciando scivolare lo sguardo sulla vecchia scrivania ingombra, come sempre, di carte, sul divano un po’ logoro, che ultimamente era diventato la mia cuccia, e sulla grande libreria che, fino a quel momento, avevo evitato di guardare.
Ormai, la decisione di sbarazzarmi di tutti quei libri era stata presa. Potevo concedermi il lusso di prenderli in mano e dare la stura ai ricordi. Ogni libro di quegli scaffali aveva sottolineato un momento della mia vita: una scelta, un’emozione, una scoperta, un regalo di compleanno, un pomeriggio d’inverno accucciata sotto una coperta a leggere, o la luce liquida, snervante, di quelle giornate estive che non ne vogliono sapere di arrendersi alla notte.
I libri: la mia passione e il mio orgoglio.
Quando avevo scoperto la lettura? Qual era stato il libro che mi aveva aperto le porte di un mondo alternativo, l’isola ignorata dalle mappe, il luogo dove poter fuggire senza rischiare di essere riacchiappati?
Quale fu il primo libro che lessi? Lo possedevo ancora oppure l’avevo perduto in uno dei tanti traslochi fatti? Frugai nella memoria, rivedendomi nella casa della mia infanzia, nella camera da letto dei miei genitori, accovacciata sul pavimento a leggere, in fretta, divorata dall’ansia, dopo essere riuscita con fortunose ricerche a trovare il regalo che mia madre aveva acquistato per il mio compleanno. Nel pacchetto, che avevo aperto, un libro: Hans Christian Andersen, Il brutto anatroccolo. L’avevo divorato con quella curiosità davanti alla parola scritta che mai più mi avrebbe abbandonata.
Chiedendomi dove fosse finito, cominciai a cercarlo con ansia.
Eccolo: era nell’ultimo ripiano in alto, dove non riuscivo mai a spolverare. Lo conserverò per leggerlo a un mio eventuale nipote, pensai. Non si può crescere ignorando le favole di Andersen.
Non essendo riuscita a soddisfare le mie aspettativa con i figli, mi sentivo pronta a ritentare con i nipoti. E’ proprio vero che capire non significa cambiare. Che ne sapevo di ciò che un bambino del Duemila avrebbe dovuto conoscere o non conoscere?
Io, ad esempio, non avendo ricevuto un’educazione letteraria avevo letto di tutto. Addirittura, da bambina, aspettavo sempre ansiosamente il ritorno di mia madre, per gettarmi sui fogli di giornale in cui veniva avvolta la spesa. Toglievo l’insalata, scartavo le arance, spianavo il foglio con cura e… leggevo!
A scuola, negli ultimi anni, mi ero sottratta alla noia di interminabili lezioni di ragioneria isolandomi nella lettura, di nascosto sotto al banco, dei romanzi di Wilde, Hemingway e Steinbek.
Eccoli, nel ripiano in basso, accanto ai libri di cucina, di macrobiotica e medicina orientale, mescolati con alcuni volumi che trattano argomenti di femminismo. Mi soffermai, con le mani diventate di colpo fredde e sudate, su uno in particolare. Era partita da lì, dalla lettura di quel libro, la mia presa di coscienza femminista? No, prima c’erano stati lo sconcerto e la rabbia.
Mio figlio aveva pochi mesi. Non dormiva di notte e io con lui. Mi era stato diagnosticato un “ esaurimento nervoso” . Il mio medico mi aveva indirizzata da un neurologo. Ricordavo bene le sue parole, a conclusione della visita:
“ Signora, lei è diventata madre, ora i suoi progetti di lavoro dovranno essere accantonati. Il suo compito, da questo momento, sarà quello di occuparsi di suo figlio“.
“ Anche mio marito è diventato padre e ha appena accettato un’offerta di lavoro che lo obbligherà a lunghi soggiorni all’estero “ avevo risposto, un po’ incerta, sentendomi avvolgere da una lunga occhiata densa di malcelato disprezzo, come se non capissi o, peggio ancora, fingessi di non capire. Io non mi ero data per vinta e, pur sentendomi molto a disagio, avevo ribattuto:
“ Io mi sono appena laureata, mentre mio marito ha interrotto gli studi. Vorrei tentare di conciliare la famiglia con il lavoro e mio marito potrebbe o, meglio, dovrebbe aiutarmi. Mio figlio dorme poco ed io sono stanchissima, ma voglio lavorare come sta facendo lui. Questo bambino abbiamo deciso insieme di averlo. Amo mio figlio e mio marito, ma non voglio essere soltanto una madre e una moglie “.
Finalmente ero riuscita a dire ciò che pensavo, a sintetizzare in quella frase il valore dei miei affetti, ma anche il mio valore, che intendevo mettere in gioco.
La voce dell’uomo, seduto davanti a me, aveva tagliato l’aria , azzerandomi:
“ La sua angoscia dipende dalla sua immaturità. Cominci con tre pillole al giorno, poi aumenteremo la dose. Vedrà che l’aiuteranno a crescere ”.
“ Le pillole deve prenderle anche mio marito? “avevo chiesto, prima di essere sbattuta fuori con malagrazia. Mi ero ritrovata, tra le mani la boccetta delle pillole, confusa e avvilita, nell’anticamera dello studio, pensando, mio marito lontano e la mia famiglia in un’altra città, che sarei stata sola, sola con quel bambino spaventato come me, sola ad affrontare un’altra notte, nell’attesa delle prime luci dell’alba, passeggiando lungo il corridoio.
Il libro che tenevo fra le dita lo lessi anni dopo, qualche mese dopo il mio divorzio.
L’ondata femminista, partendo dall’America, aveva investito il nostro Paese e, leggendo quel libro, ebbi la conferma che, di tutto, avrei avuto bisogno nei primi mesi della mia maternità, ma, certamente, non di pillole, che mi erano state prescritte soltanto per “ Tenere calmi gli indigeni “ come avrebbe esclamato il personaggio femminile di uno dei romanzi che più avevo amato.
Ma il femminismo fino a che punto mi aveva cambiata? Fino a che punto, come nel caso della macrobiotica o della medicina alternativa, mi aveva fornito solo un alibi per evitare di affrontare, in modo diretto, il mio profondo malessere?
Era stata comunque una stagione esaltante, necessaria per arrivare almeno alla consapevolezza, un momento nel quale ogni domanda sembrava, improvvisamente e miracolosamente, avere trovato una risposta. Quanto avevo letto in quegli anni: Marie Cardinal, Anna Del Bo Boffino, e, lasciando scorrere il dito sul dorso dei libri: Bellotti , Dowling, e… Friedan la grande Friedan: Mistica della femminilità!
Per quanto tempo mi cullai nell’illusione che, per essere felice, sarebbe stato sufficiente non mangiare carne, ingurgitare riso e pane integrale e pensare che gli uomini, tutti, fossero sciovinisti e maschilisti?
Il tempo passava, mentre io giravo e rigiravo tra le mani libri di narrativa, poesia, saggi, sistemandoli negli scatoloni per poi riprenderli e ricollocarli negli scaffali, al loro posto, in un andirivieni senza sosta e senza senso. Ero ormai all’apice della confusione quando lo sguardo mi cadde sullo scaffale dei libri per bambini.
I miei figli non erano più bambini, almeno a livello di età anagrafica. Due di loro erano già usciti di casa, senza avanzare pretese su quei vecchi libri. La più piccola, ancora con me, si era addormentata, annoiata, persino su Topolino.
E qui cosa c’era? I libri che avevo letto per il mio lavoro. Ah, questi li avrei gettati via tutti, e subito! Ero stanca di fare l’insegnante, non sapevo più cosa fosse giusto insegnare né ai miei figli, né a quelli degli altri.
Non avevo più certezze, ma soltanto paura e…rabbia. Sì! rabbia nei confronti di coloro i cui nomi ritrovavo stampati sulle copertine dei miei libri. Eccolo!, l’autore americano che pontificava sull’educazione dei bambini; recentemente si era scusato con i lettori.
“ Forse ho sbagliato “ aveva ammesso.
Perché non mi ero fidata del mio istinto, del buonsenso di mia madre che, dubbiosa, mi guardava scuotendo la testa? Perché non avevo trovato dentro, nel profondo, quel filo rosso che lega senza soluzione di continuità, le figlie alle madri, alle nonne, alle bisnonne, dando vita a un sapere femminile che, se facciamo attenzione, sussurra e canta dentro di noi, indicandoci la strada?
Questi libri li scaraventai con violenza nel sacco ai miei piedi.
“ I libri leggili pure, solo ricorda che un libro è un libro e che devi pensare con il tuo cervello “ Gorkj scrisse in uno dei suoi racconti.
L’avevo dimenticato?
Ancora uno scaffale da controllare ed, eventualmente, vuotare: ancora narrativa e poesia. Ecco Neruda, Montale, Ungaretti, Quasimodo…
Quante ore passate su questi libri. Quale il motivo o i motivi di questa passione? Per anni, mi sembrò sufficiente rispondermi “ Per capire e per capirmi “.
Davanti alla mia scelta di liberarmi dei miei amati libri questa risposta, ora, mi appariva falsa. Magari avessi valutato criticamente! I libri erano stati la mia droga, il mio modo di scappare dal mondo. Forse, e non paradossalmente, avevo letto proprio per evitare di capire.
Era arrivato il momento di farlo? Di togliermi di dosso tutti gli alibi che quei libri mi avevano aiutata a costruire? Era arrivato il momento di affrontare i fantasmi, di snidare i segreti dagli angoli bui nei quali li avevo relegati? Prendere per mano mia figlia e, insieme a lei, guardare in faccia il mostro, quel mostro che aveva spento i suoi colori, si era succhiato la sua allegria, la sua giovinezza e ora, ora voleva anche il suo futuro. Non c’era libro al mondo che avrebbe potuto darmi il coraggio di farlo. Ormai l’avevo capito.
Il suono del campanello interruppe le mie riflessioni. I ragazzi del LIBRACCIO erano entrati, iniziando subito a imballare gli scatoloni. Erano tutti studenti universitari. Scherzavano con mia figlia, alla quale non avevo confidato nulla di ciò che mi passava per la mente, giustificando la vendita dei libri con motivazioni economiche legate alla malattia della sorella. Lei, che aveva intuito qualcosa, mi guardava dubbiosa, anche se fingeva di scherzare per alleggerire l’atmosfera.
Quando i primi scatoloni, gonfi di volumi, imboccarono la porta di casa, incominciai a singhiozzare senza ritegno. Incurante dell’imbarazzo di mia figlia, pensavo che non li avrei mai più ritrovati, che si sarebbero persi nei meandri di questa grande città, che stavo soltanto aggiungendo un altro dolore a quelli che già mi dilaniavano. I ragazzi mi guardavano un po’ imbarazzati, ma io ero disperata. Si stavano portando via la mia isola che non c’è, il mio ultimo frammento d’infanzia, le mille vite di cui mi ero nutrita per non pensare alla mia, le storie e le fole che mi avevano fornito incrollabili alibi.
Ora la libreria era quasi vuota, ridotta all’osso, come la mia anima.
Nella foga, uno degli studenti, ridacchiando e guardando Afra, la mia ragazza, con occhi golosi, aveva distrattamente imballato anche “ Anna Karenina “.


Questo libro l'avrei ritrovato, miracolosamente restituitomi dal destino che, per cambiare la nostra storia, segue strani e imperscrutabili sentieri, alcuni anni dopo, su una bancarella di libri usati.
Sulla prima pagina, con la grafia tonda e infantile di mia figlia, una dedica “ A mia madre, perché ricordi, come scrive Tolstoj, che tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo “.
La brezza soffiava leggera sulla darsena, zeppa di bancarelle colorate.
“ Ci facciamo una pizza? “ e poi, a bassa voce: “ Ricordi mamma? “
Tra le braccia stringe sua figlia, mia nipote.
E come potrei non ricordare?