martedì 19 agosto 2008

Nostalgia di Trieste o della giovinezza?

Perchè, fra le diverse città in cui sono vissuta, è Trieste che ho scelto per darmi un'appartenenza? " Da dove vieni?" mi chiedono e io, prima ancora di pensarci, me ne esco con quel "Sono triestina", pieno di orgoglio e di malinconia. Non vivo più da molti anni in quella città ma, quando mi alzo al mattino e sento soffiare il vento, che non è il mio vento, è solo uno stormir di fronde o una corrente d'aria che fa volare qualche calzino appeso ad asciugare, io chiudo gli occhi e mi sento a casa.

Rivedo il terrazzo dal quale lo sguardo spaziava sul mare, spalancandomi davanti un orizzonte azzurro solcato dalle sagome scure delle navi al largo, increspato di onde ricciolute, piatto come uno specchio a riflettere il cielo, spezzato e frantumato in blocchi d'acqua che si schiantavano in mille schizzi quando il mare urlava tutto il suo furore e il vento mi portava la sua voce fin lassù.

Erano le giornate in cui le favole che raccontavo ai bambini parlavano di naufragi, di abissi tenebrosi, di sirene impazzite d'amore, di balene a zonzo per gli oceani. Loro, i bambini, gli occhi spalancati per l'eccitazione, mi chiedevano " Il mare e il vento si scontravano in lotte all'ultimo sangue come oggi...mamma" e io assentivo, fingendo che il palazzo fosse sul punto di volar via, con le tapparelle che gemevano e soffi di vento che s'infilavano dappertutto animando la casa che sembrava resistere a fatica a quegli attacchi. I bambini non dormivano, i vecchi s'indispettivano e le giovani donne diventavano inquiete in quelle giornate in cui la gente si aggrappava ai sostegni infissi nei muri, lungo le strade che salivano sfidando le leggi di gravità, e il cielo si colorava di ombrelli rivoltati che volavano via, come aquiloni improvvisati, decisi a prendere la via del cielo.

E' il vento che dà "morbin" alle "mule" triestine e rende ironici i nostri uomini? Non lo so, ma penso che le città che s'affacciano sul mare, diano la sensazione di avere sempre una possiilità di fuga a quei topini di Laborit che siamo noi esseri umani.

Di Trieste ho amato il dialetto, lingua in cui ancora piango, impreco e canto, anche se mia madre, giudicandolo volgare, da bambina me lo proibiva, e io, ribelle per natura, lo usavo per scrivere i miei diari.

Ho amato i sentieri aspri del Carso che, tra vigneti contorti e stentati che sembravano crescere sulle rocce, salivano ampliando paesaggi fatti di mare, pietre bianche, pini marittimi, faggi, querce e cespugli di sommacco multicolori che sprofondavano nelle doline dove il vento s'accucciava, ansando come un cane stanco d'inseguire il padrone.

Forse, a voler essere sinceri, amo Trieste anche perchè s'intreccia, si aggroviglia, per me, a quell'età in cui tutto sembrava possibile, quell'età in cui si spaziava, si amava, si odiava con lo stupore attonito che accompagna ogni esperienza nuova. La Trieste di quegli anni, la fine degli anni Sessanta, fu il luogo fisico di questa scuola di vita. In quella città m'illusi di avere il mondo in mano e, come molti giovani di allora, pensai che avremmo potuto anche cambiarlo. In una chiesa battuta dal vento, con "cocai" istupiditi di sole mi sposai, convinta di aver trovato un compagno per la vita. Sotto quel cielo nacquero i miei figli...

Trieste è, per la sua storia, città che si volta indietro, che ricorda, che vive le illusioni come speranze, che rimane lì, immobile, tagliata fuori, orgogliosa di un passato che si vorrebbe trasformare in futuro. Città di anziani, ne ha assimilato le caratteristiche, tra cui quell'aria disincatata che la porta a considerare ogni novità come un "dejà vu ".

Egoisticamente, amo il suo immobilismo che me la fa ritrovare intatta, eguale a distanza di anni, ancorata ai suoi miti, con le sue "mule" così belle, così fiere e indipendenti, con quel gusto della battuta, del "vitz" e quella sapienza che il triestino ha nel privilegiare il vivere al costruire.


E, alla fine, potrei dimenticare la cucina triestina dove ogni piatto ha una storia e un profumo che evocano valzer viennesi, scimitarre turcomanne o violini tzigani, riportando alle linee di demarcazione che, alimentando rimpianti e malinconie senza fondo, incidono la terra e l'anima? Ed è così che mi piace pensare di essere fatta: di mare, di roccia e di vento mischiati tra loro, ma separati da un'anima- che nel mio caso non può che essere in tormento - non mediazione tra corpo e cervello, ma separazione tra razionalità e istinto che si contendono una impossibile unità.