mercoledì 29 ottobre 2008

La casa dalle novantanove stanze

Era da molti anni che non tornava laggiù, nel paese a qualche chilometro da L'Aquila. La giornata autunnale incappucciava di nebbia grigia le montagne che, imponenti, si ergevano dando la scalata al cielo, dove nuvole temporalesche si stavano addensando. Qualche borbottio di tuono solcava l'aria, rimbalzando sulle pareti rocciose che ne restituivano l'eco amplificata, sotto quel cielo che si faceva sempre più basso e opprimente mentre la macchina saliva verso il paese che, quasi si trattasse di un'illusione ottica, appariva e scompariva nella nebbia che scivolava, sbavando, sulle case di pietra scura, le stalle, gli ovili, gli orti dove, stitica, cresceva l'ultima insalata.
Accese in macchina il condizionatore per difendersi da quel freddo umido, stagnante che la riportava, tornante dopo tornante, a quel paese aggrappato alla montagna, a quelle contadine nero vestite che si erano consumate nelle stalle e negli orti, borbottando preghiere, maldicenze e scongiuri.


Guidava, assorta nei suoi pensieri, lasciando scivolare lo sguardo sui prati umidi appena arati, interrotti da brevi filari di alberi che, invano, con le loro chiome ingiallite dall’autunno, cercavano di rompere la sequela ininterrotta dei grigi.
Qua e là, a casaccio, mandorli e qualche casolare isolato. Nell'aria, a tratti, l'abbaiare dei cani da pastore e un digrignare appena intravisto di zanne che aggredivano il nulla.
Cosa cercava in quei luoghi che la lunga lontananza le aveva reso estranei? Cosa c’era ancora da capire? Fino a quel momento aveva tentato soltanto di dimenticare, ma la telefonata del giorno prima, annunciandole la morte del marito, aveva dato la stura ai ricordi.

La macchina aveva ora imboccato una strada in salita che costeggiava altri prati brulli, altri terreni dai quali si levava, svaporando, un umidore lieve come un fiato a velare la geometria lineare disegnata dai vigneti ormai spogli.
Le prime case del paese emersero dal grigiore, obbligandola a rallentare. Se non ricordava male, la strada finiva nella piazza principale, racchiusa tra la chiesa barocca, la farmacia a sinistra, il bar dell'angolo con la striminzita tettoia che ne riparava i tavolini sbilenchi, il negozio di alimentari e la grande casa che, immobile e maestosa, delimitava la piazza nell'ultimo tratto. Tutto era come allora, nulla sembrava aver interrotto il letargo abituale del luogo.


I sette portoni in legno massiccio, dai battenti d'ottone finemente lavorati che terminavano in teste di leoni, consentivano ancora l'accesso alle varie parti dell’edificio, conferendo al palazzo, nonostante il suo aspetto polveroso e le chiazze scrostate dall'umidità che ne svilivano la facciata, un tratto d'indiscutibile bellezza ed eleganza.
Bussò.
Nessuno rispose.


Fece rimbombare nuovamente il battente: un calpestio ruppe il silenzio della piazza
confondendosi con il singhiozzo stizzito di un chiavistello poco oliato. Il portone si schiuse, cautamente, su un volto di donna dall'espressione diffidente. Si misurarono con lo sguardo; poi, su quella faccia da contadina scurita dal sole affiorò un ossequio cerimonioso. "Donna Chiara, mi scusi, non immaginavo fosse lei. Quanti anni, quanti anni..." esclamò la donna, facendosi da parte per farla entrare, e precedendola poi nell'ingresso fiocamente illuminato, nel salottino, nella stanza della televisione, per fermarsi, infine, cedendole il passo, davanti alla porta del "salotto buono ", sempre continuando a parlare e a scuotere la testa per evidenziare la sorpresa che la sua vista le aveva procurato.

Lei non la stava più ascoltando, troppo impegnata com’era a guardarsi intorno, stupita di ritrovare tutto come lo ricordavo: le grandi poltrone ricoperte di cretonne a fiori, il pianoforte nell'angolo, il caminetto - che era solita vedere acceso - e, perfino quella gigantografia di suo figlio bambino, ancora appesa nello stesso posto, con infilato nell'angolo il santino di santa Rita che sua suocera aveva fatto scivolare tra il vetro e la cornice, mormorando:"Se non ci riesce lei a cui ci si rivolge per i miracoli impossibili..."
Anche l'odore era lo stesso: di mobili vecchi, di pagine ingiallite di libri mai letti, di vite andate in fumo, ridotte, come legna troppo secca, in cenere. Sovrastante su tutto, il profumo della cera per pavimenti, che faceva brillare, oggi come allora, il parquet tirato a specchio.


E' aspro, tenace – pensò - l'odore dei ricordi, riconoscendo anche quella tonalità di luce che ancora, immodificabile, filtrava obliqua dagli scuri socchiusi, infilandosi tra i tendaggi tirati: la stessa luce che aveva visto impreziosire le cattedrali e che, con il silenzio, invitava al contegno, al controllo imposto dalla sacra maestosità del luogo. Come allora, disseminate per le stanze le fotografie, in camicia nera, del Grande Assente, il padre di suo marito, morto in Russia durante la Seconda guerra mondiale.
Sul pianoforte fotografie del Duce, una con dedica.


"Vuole un tè? Si vuole rinfrescare?" e, senza darle il tempo di rispondere "Non è cambiata sa..."
La guardò seccata, ritrovando il fastidio di sempre per quell' ipocrisia di facciata, ma non rispose, limitandosi ad un cenno d'assenso.
“ E’ stato un infarto: era seduto alla sua scrivania.. “ mormorò fissandola Palmina.
“Ma come è successo?” le chiese.
“ Non ho toccato nulla. Stava guardando delle carte. Aveva appena ricevuto una lettera. Il signorino Aldo come sta? Sarà, è un uomo, ormai, che Dio lo protegga”
Poi aggiunse, ma lei, di nuovo, non la stavo più ascoltando “ Per sua fortuna, donna Marias ci ha lasciati. Almeno questo dolore le è stato risparmiato: aveva già sofferto tanto per la morte del marito. E poi l’incidente del signorino Aldo…”
Pronunciando queste parole la domestica la guardò, insolente.
“ Quando lei… quando ritornò a vivere al Nord, donna Marias dovette affrontare lo scandalo, le chiacchiere del paese. Qui non è come da voi, le donne sopportano, fanno finta di non vedere “.
“ Lo so “ lei rispose.
“ Eh, gli uomini, maschi sono! Ma a lei voleva bene il dottore. Teneva la sua fotografia sul comodino, sa. C’è ancora. Venga a vedere, venga a vedere” aggiunse precedendola verso la camera da letto.


Passò nel salone, scivolando, come allora, sotto lo sguardo degli antenati immobili nelle loro cornici dorate: l'ammiraglio era ancora lì, il petto tronfio d'orgoglio e decorazioni, il prelato, il volto atteggiato ad una bonomia compunta, si accarezzava il ventre prominente, la zia Colomba la fissava con puntuti occhietti da falco - mai nome fu meno adatto -, non potè fare a meno di pensare, riconoscendo quegli stessi occhi che allora, tanto tempo fa, erano scivolati, colmi di disprezzo, sul suo viso intonso di ragazzina.
Era arrivata da una città del Nord del paese che vantava le donne più libere di tutto il Mediterraneo: donne abituate a reggere la famiglia in assenza degli uomini che andavano e venivano su navi cariche di ogni ben di Dio, restando giusto il tempo necessario per ingravidare le mogli, scaricare la mercanzia e andarsene in tutta fretta in uno sventolio di fazzoletti e lacrime, salate come il mare della sua infanzia.


La prima volta in cui aveva messo piede in quella casa, si ero ritrovata di colpo scaraventata fuori dal mondo: la famiglia del futuro marito era stata la più importante del paese e quella casa – la casa dalle cento stanze, come la chiamavano – ne era l’evidente dimostrazione. Nello studio, le librerie in mogano scuro racchiudevano ancora i libri di diritto del bisnonno avvocato e del nonno, che aveva gestito, fino alla sua morte in seguito ad un incidente di caccia, la banca del paese. La giovane, bellissima moglie, una contessa napoletana, gli era subentrata nella gestione della banca non dimostrandosi però all’altezza del marito e facendo fallire l’azienda nel giro di pochi anni.


La famiglia si era schierata con Mussolini fin dall’inizio. Una delle zie aveva sposato il podestà del paese, mentre il padre di suo marito, come ufficiale, partiva per andare a combattere in Albania, Spagna, Grecia, fino alla disastrosa campagna di Russia, collezionando medaglie, ferite ed encomi.
Dalla Spagna aveva fatto ritorno con nuove ferite e un’affascinante crocerossina, in attesa del suo primo figlio.
Suo marito aveva pochi mesi alla partenza del padre per la campagna di Russia.


Biancas, sua moglie, si era aggrappata alle sue lettere, pregando e accendendo candele nella chiesa del paese, fumigante d’incensi, e paura, e speranza, e rabbia, e dolore, via via che i mesi passavano e sempre più uomini morivano al fronte.
Poi, la guerra era finita e i reduci avevano cominciato a tornare.
Biancas per mesi, tutte le mattine appena il sole spuntava oltre le montagne sbiancando il cielo, era salita sulla punta più alta della collina da dove, alle spalle del paese, si poteva scorgere la strada a tornanti che scendeva alla pianura.
Lungo quella strada, ogni giorno, aveva visto arrancare uomini laceri, sconvolti, sopravvissuti a quell’inferno in cui avevano lasciato l’anima. E, ogni giorno, si era illusa di trovare tra loro il marito, e, ogni giorno, era tornata a casa sola e delusa.
Poi, una mattina, tra quegli uomini distrutti aveva scorto l’attendente di suo marito.
Le portava una sua lettera, l’ultima che avrebbe ricevuto, e la notizia che era stato costretto ad abbandonarlo, morente, in un ospedale da campo, in quell’inferno di neve e ghiaccio che, di uomini, ne aveva inghiottiti tanti.


La sua morte aveva reso inarrestabile la decadenza della famiglia e nel paese si favoleggiava di quella maledizione, quell’accanimento della sorte che lasciava in vita le donne, ma da generazioni massacrava il ramo maschile della famiglia con morti violente o in giovane età.
In quel paese, sperduto tra le montagne, dove il tempo aveva un’altra valenza e dove l’eco del mondo, almeno del suo mondo di giovane studentessa universitaria, se penetrava oltre i portoni in legno massiccio, si perdeva nel labirinto delle stanze tra i cimeli fascisti che la casa esibiva, nelle lacrime di sua suocera che continuava a portare il lutto per il marito, nell’arroganza delle zie che giravano ancora con le cappelliere e i guanti di pizzo, pretendendo di essere omaggiate come principesse, era arrivata lei a portare, di nuovo come già era avvenuto con Marias, la vita in quel luogo dove tutto parlava di passato e di morte.
Gli occhietti da falco di zia Colomba l’avevano soppesata come un tacchino per un pranzo natalizio, scivolando via delusi: troppo alta, troppo magra, troppo disinvolta - aveva subito pensato - troppo bionda, troppo tutto.


Il futuro marito nei pochi giorni passati in quella casa, aveva subito un'incredibile metamorfosi: parlava un incomprensibile dialetto, andava a caccia con i contadini, si rintanava nelle cantine del paese facendo onore a porchette arrostite e spiedini d'agnello; quando rientrava, a notte inoltrata, crollava russando sul letto al suo fianco, senza nemmeno una carezza.
Avevano tentato, in tutta fretta, di educarla: a non alzarsi quando un’ ospite anziana, ma socialmente a lei inferiore, veniva a conoscerla, a riporre i pantaloni, non adatti a una giovane signora, nell’armadio, ad andare a messa alla domenica, ad accettare quel “donna Chiara” che le faceva venire la ridarola ogni volta che lo sentiva.
Aveva sbuffato incredula, convinta che, a matrimonio avvenuto, avrebbe ripreso in mano la situazione.
E così aveva accettato di sposarlo, sopravvalutando sé stessa e sottovalutando tutto il resto.
Era seguito un matrimonio celebrato in tutta fretta per consentire la nascita di un "settimino", al quale era stata obbligata a dare il nome del nonno morto in Russia: Roboaldo, che subito si contrasse, dato che suscitava occhiate sconcertate, in Aldo.

Ero affogata tra pannolini e biberon, tra quelle montagne aspre, grigie di sassi e avare di sole, e quei contadini di cui non capivo il dialetto, in quella casa, grande come una piazza d'armi, che nessun camino riusciva a riscaldare, in quel paese dove - come diceva zio Turi, marito di zia Colomba - c'erano "dieci mesi di freddu e due di frische", mentre l’umidità che liquefaceva il paesaggio le penetrava dentro, ammuffendole l’anima.

Suo marito, che commerciava in bestiame, aveva ripreso ad andare a cavallo come un signorotto d’altri tempi, continuando a frequentare le cantine, dove lei non si era più azzardata a entrare. Non parlavano più. Aveva imparato a tacere: taceva in casa, alle cene di rappresentanza dove si limitava ad annoiarsi e a sorridere melensa, taceva con le donne di famiglia, ignorando le loro frecciate.
Seguendo Palmarina si ritrovò, quasi senza accorgersene, nella camera da letto che avevo condiviso con il marito. Sul comodino una fotografia, scattata durante una gita sul Gran Sasso.
Nel prato fitto di ranuncoli gialli, seduta sull’erba con suo figlio tra le braccia, rideva,
orgogliosa del bambino, che aveva invece un’aria seria, lo sguardo che sembrava presagire il dramma che si stava preparando.
Allungò una mano a sfiorare quel sorriso infantile, mentre i ricordi si affollavano scombinati, come nei sogni.

Stava guidando accecata dalle lacrime, il bambino dormiva dietro. Il camion l'aveva visto
troppo tardi. Era rimasta praticamente illesa, ma il bambino all'ospedale era arrivato in coma.
Non ricordava molto di quei giorni: una sequela ininterrotta di albe e tramonti, all’ospedale ai piedi del suo letto, sbocconcellando qualcosa, appisolandosi per pochi minuti, lo sguardo fisso sul volto minuto, muto e immobile del figlio, cercando un tremolio, un brivido, un accenno di sorriso che lo riportassero in vita. E il senso di colpa che la divorava dentro, svuotandola, mentre la sua vita le passava davanti senza più finzioni. Biancas, sua suocera, aveva cercato l'intercessione di santa Rita, tutto il paese aveva pregato e suo figlio aveva ripreso conoscenza.
Per quella volta la maledizione che gravava sul ramo maschile della famiglia era stata sventata.
Suo marito passava alla sera, restava pochi minuti ignorandola, poi spariva, silenzioso.
Andava da lei.
C'era stata una grande festa per la guarigione di Roboaldo e la casa aveva ritrovato per un giorno lo splendore del passato. Tavole imbandite di specialità fatte giungere da Roma, vini scelti a profusione, camerieri inappuntabili come cerimonieri di corte e musica e danze che si erano protratte per buona parte della notte.
Lei aveva indossato un abito che era stato confezionato per la nonna di suo marito e che, strano ma vero, aveva la sua stessa taglia. L’aveva ritrovato in un vecchio baule. Era di velluto di seta cremisi con intarsi in pizzo, scollato a punta sulla schiena, aderente sui fianchi strizzati dal bustino e impreziosito da un piccolo strascico che dava ulteriore slancio alla figura. Al collo aveva i gioielli di famiglia. Al suo ingresso nel salone era serpeggiato un fremito di ammirazione appena contenuto. La festa aveva avuto anche lo scopo di porre fine alle chiacchiere che, nel paese, avevano cominciato a circolare.
La sua rivale, che era tra gli invitati, aveva avuto il coraggio di venire alla festa accompagnata dal marito, un commerciante arricchito, evidentemente all’oscuro della situazione. Ma alla festa era presente anche un uomo che, nell’impaccio delle mani ruvide e callose, nel disagio che lo induceva a detergersi un’abbondante sudorazione, tradiva la sua umile estrazione sociale di contadino.


Le zie e sua suocera, che conversavano compunte, vedendolo entrare erano sbiancate. L’uomo si era avvicinato a lei e, togliendosi il cappello, le aveva sussurrato: “ E’ stata fortunata: suo figlio si è salvato, ma la vita è lunga, le colpe dei padri ricadranno sui figli e sui nipoti…prima o poi “.
Aveva sentito un lungo brivido accapponarle la pelle, ma era rimasta muta fissandolo, mentre con gli occhi cercava il marito, notando la sua rabbia, a stento contenuta, che le nocche della mano, sbiancata nel pugno, tradivano.
Intorno, i partecipanti alla festa sembravano non aver notato nulla.
Il marito aveva aperto le danze con lei.


“ Chi è quell’uomo, era sempre all’ospedale davanti alla stanza di Aldo…Lo ricordo, adesso lo ricordo. Era in chiesa, confuso tra la gente, anche il giorno del nostro matrimonio”.
“ E’ un contadino, un ignorante. Suo padre era un nostro bracciante. Aizzava i compagni….Una sera non tornò a casa dal lavoro. Scomparve, non se ne seppe più nulla ”.
“ …? “
“ Le chiacchiere di paese attribuirono la sua scomparsa ai fascisti, ma il corpo non venne mai trovato. Quest’uomo è il figlio di quel contadino” aveva concluso, guardandola.
“ Ma chi era tuo padre? “ lei gli aveva chiesto, aggiungendo a voce bassissima:“ E chi sei tu? “
Lui aveva sbuffato. Infastidito.


Gli specchi del salone la riflettevano, un vortichio d’oro insanguinato, moltiplicato a dismisura, come se gli specchi e la casa grondassero sangue. Aveva avvertito una sensazione di nausea incontrollabile. Certe frasi smozzicate, che il dialetto stretto della gente del paese le avevano reso di difficile comprensione, le tornavano alla mente. Allusioni ad un passato che non era possibile dimenticare, che aveva lasciato strascichi di dolore e rancore di cui anche lei ero stata fatta oggetto. Ombre sinistre che tornavano, allungandosi anche su suo figlio, per far quadrare conti in sospeso di cui ero stata tenuta all’oscuro.
" Come ha avuto il coraggio, quell’uomo se ne deve andare..”


Lo ricordava pallido, il marito, livido nel giorno che, fuori, si tingeva di violetto, mentre le ombre della sera si allungavano a ingoiare, voraci, i vicoli e le case, invadendo la piazza come una marea nera che salisse inarrestabile, sull’onda dei ricordi.
“ Ora lo sbatto fuori “ aveva aggiunto.
" Te lo proibisco " gli avevo sussurrato, decisa, ma, a suo modo, anche implorante.
" Tu non puoi permetterti di proibire nulla, né oggi, né mai" le aveva risposto, mentre i suoi occhi si facevano freddi, freddi come la sua voce che stava salendo di tono.
L’uomo, appoggiato alla parete, li fissava, alzando il bicchiere, ogni volta che il cameriere glielo riempiva, in un brindisi solitario e beffardo alla loro salute.


Le zie e la madre, vestite a festa, elegantissime e altezzose, lo ignoravano. Qualcuno cominciava a notare il comportamento dell’uomo e il pallore cadaverico di suo marito.
“ Ora lo butto fuori e se non vuole andarsene…”
“ Lascia perdere, ti prego “ e la sua voce era stata insolitamente ferma, senza più traccia, neanche minima, di stridulità femminile. Ma lui non l’ascoltava più. Si era staccato bruscamente da lei, mentre la musica saliva d’intensità, e si era diretto verso l’uomo, che sembrava avesse atteso proprio questo per tutta la durata della festa.
Sulla sala era calato di colpo, interrompendosi poi del tutto, il cicaleccio degli ospiti.
Soltanto le note del valzer, assurdamente festose, avevano continuato a risuonare, mentre gli sguardi dei presenti si inchiodavano sui due uomini.
Suo marito, elegantissimo nell’abito da sera di ottimo taglio, avanzava verso l’uomo, il passo sicuro e la mano in tasca. Lo sguardo, sotto il sopracciglio alzato, sprezzante.


Ora i due uomini si fronteggiavano: gli occhi del contadino contratti, quasi l’odio che contenevano avesse pudore a mostrarsi.
“ Non credo di averla invitata. La sua presenza qui… “ e la voce del padrone di casa si era alzata nella sala, sferzante.
“ La mia presenza qui è un mio diritto “ aveva risposto l’altro, a voce bassissima, senza staccargli di dosso quegli occhi in cui l’odio si mescolava ora al sarcasmo e al disprezzo, rendendolo stranamente simile all’uomo che lo fronteggiava.
“ La invito a uscire da casa mia “ aveva continuato suo marito calcando la voce sull’ultima parola.
“ E’ anche casa mia “ aveva risposto l’altro.
“ Lei è ubriaco “ e con la mano già, imperioso, faceva cenno ad un cameriere di avvicinarsi
L’altro, deposto il bicchiere, aveva sputato per terra, poi, asciugandosi la bocca: “ Non è necessario. Me ne vado da solo “ aveva detto, uscendo dal salone dove gli ospiti gli avevano fatto ala in un silenzio ingigantito dal silenzio dell’orchestra che aveva smesso di suonare.




Con le guance dello stesso colore dell'abito, in fiamme, lei era rimasta in attesa, le frasi, pronunciate dall’uomo appena uscito dal salone, che le rimbombavano nel cervello, mentre l’orchestra, obbedendo all’ordine stizzito del padrone di casa, riprendeva a suonare e le coppie a volteggiare.
Il marito aveva invitato a ballare la sua rivale che, provocante, ora rideva tra le sue braccia, controllando di sottecchi la sua reazione. Ma lei si era resa conto, in quel momento, di quanto profondamente l’avessero cambiata le lunghe ore passate all’ospedale, il rischio fatto correre al figlio con la sua leggerezza, l’analisi spietata di sé e delle sue scelte. Ora sapeva che non sarebbe rimasta a consentire inutili finzioni, a reggere un rapporto di coppia fasullo, a crescere suo figlio nell’ipocrisia. Aveva il dovere di allontanarlo da quel posto, da quella vita ripiegata su un passato del quale ci si sarebbe dovuti soltanto vergognare.


Non aveva aperto bocca, ignorando gli sguardi sempre più eloquenti e inquieti delle donne di casa di fronte al suo silenzio. Era partita il giorno successivo con suo figlio e una valigia, lasciandosi alle spalle il pattume della festa e il pattume di una vita.
Il marito le aveva sguinzagliato dietro un esercito di avvocati, ma lei aveva trovato dentro di sé un coraggio inimmaginabile e, lottando come una leonessa per ottenere l’affidamento del figlio, aveva vinto.
Non era più tornata in Abruzzo, nemmeno per la morte delle zie e della suocera.
Suo figlio sarebbe arrivato dalla Francia, dove viveva, prima di sera.

Aprì con la chiave, che il marito portava sempre con sé, il cassetto della scrivania. Una lettera ingiallita cominciava con : “ Cara Biancas, sono stato gravemente ferito. Troppo tardi ho capito, ma non posso più tornare indietro…Il figlio che Ninuzzo non ha potuto vedere è mio figlio, il fratello ….”
Chi aveva scritto quella lettera non aveva avuto la forza di andare avanti


Dalla finestra spalancata, nella camera da letto entrò una ventata d'aria fresca. Una brezza leggera aveva allontanato le nuvole. Sulla valle brillava ora un pallido sole autunnale. L'autunno avrebbe presto ceduto il posto all'inverno.
Sentì bussare discretamente alla porta della camera da letto.
Palmarina entrò.
" Ha intenzione di fermarsi, ehm…, dopo il funerale” le chiese.
Assentì, chiedendole notizie di Ninuzzo.
“ E’ invecchiato, ma lavora ancora la sua vigna e…”
“ Abita sempre nella casa sul colle, dietro al cimitero? “ chiese, infilando la lettera nella borsetta.
“ Sì, ma perché me lo chiede? “
“ Perché è arrivato il momento che conosca suo nipote e viva nella sua casa e “ aggiunse “ spalanchi le imposte: questa casa ha bisogno di luce. Sono i misteri e le bugie che si alimentano di ombre “.


Passando sotto il ritratto di zia Colomba, raddrizzò le spalle.
Senti un fruscio, ma non si voltò: aveva combattuto troppo con i vivi per spaventarsi per quattro fantasmi, pensò, mentre Palmarina tirava di lato le tende e l’oro pallido della luce autunnale invadeva, una dopo l’altra, le novantanove stanze del vecchio palazzo.

lunedì 27 ottobre 2008

Città da bere?

Giovanna, come quasi tutti in quella grande città, camminava velocemente diretta al suo posto di lavoro. Scesi i gradini che portavano alla metropolitana, s’infilò a fatica nel muro compatto di persone che stazionavano in attesa del convoglio sulla banchina e, dopo pochi minuti, si ritrovò strizzata tra alcuni ragazzini che le sbattevano addosso i loro zainetti e due impiegate che, dalla faccia, non avevano ancora smaltito la stanchezza del giorno prima. Ad eccezione dei ragazzini che urlavano, interpellandosi da un punto all’altro della carrozza in un lessico sgrammaticato, inframmezzato da grugniti e parolacce, gli altri viaggiatori, che sembravano impegnati solamente nella faticosa ricerca di un punto da fissare che escludesse la possibilità d’incrociare un qualsivoglia sguardo, tacevano.Qualcuno leggeva.

Quel vuoto di parole era però riempito, anzi totalmente annullato, dal boato rabbioso che accompagnava il viaggio del convoglio nel labirinto di gallerie sotterranee. Solo in prossimità delle singole stazioni dove, con un singhiozzo che sembrava quasi di rammarico, il convoglio frenava, il fracasso si smorzava sostituito dallo scalpiccio di chi usciva scontrandosi con la fiumana frettolosa dei nuovi arrivati.

In quella città la donna viveva da alcuni anni e non era ancora riuscita ad abituarsi a quel vuoto così rumoroso di parole tanto che, a volte, quando improvvisamente incrociava lo sguardo di qualcuno seduto davanti a lei, le capitava di sorridere. Lo fece anche quel giorno e il suo dirimpettaio le lasciò scivolare addosso un rapido sguardo prima di assumere, infastidito, quell’espressione assorta che ancora la lasciava piuttosto sconcertata. La donna, quando viaggiava sulla metropolitana, non guardava mai nel vuoto, divertendosi ad osservare con curiosità i viaggiatori e, più di una volta, qualcuno l’aveva apostrofata con un “embé? “ piuttosto seccato che, tuttavia, non le aveva fatto perdere l’ abitudine di fissare le persone.

Con un sobbalzo che la distolse dai suoi pensieri, il convoglio si fermò di nuovo: un viaggiatore entrò, si guardò attorno e, notando il posto libero accanto al suo, si avvicinò per sedersi. L’uomo, aria distinta, ben vestito, lieve profumo di acqua di colonia, dopo aver fissato per un secondo il sedile, si aggrappò, mentre il convoglio riprendeva la sua corsa, alla sbarra di sostegno, impegnandosi nell’apparente lettura di una pubblicità, appesa accanto alla porta d’ingresso.

- Perché non si era seduto? Forse aveva, di primo acchito, individuato in lei quell’attenzione curiosa nei confronti degli altri che sembrava tanto infastidire i viaggiatori metropolitani? - Mentre così pensava, lo sguardo le cadde sul sedile alla sua sinistra e un brivido di raccapriccio la percorse da capo a piedi: un orecchio mozzato e insanguinato era stato gettato o, forse, appoggiato sul sedile.
“ Ha visto? Ha visto cosa c’è …? “ Giovanna, trattenendo a stento il disgusto, si rivolse all’uomo davanti a lei, afferrandolo per la manica della giacca, ma non aveva ancora alzato la mano per indicare l’oggetto del suo raccapriccio che l’uomo, fissandola gelidamente, anzi conficcando lo sguardo sulla mano della donna aggrappata alla stoffa della sua giacca, le sibilò:
“ Ma come si permette? Mi lasci “.
“ Ma non vede? Non vede quel coso? “

Sollevò lo sguardo; davanti a lei nulla era cambiato: chi leggeva, chi fissava un punto sopra la sua testa, chi la sfiorava con lo sguardo, assumendo un’aria infastidita o vagamente ironica.
In quel momento, giunto a destinazione, il convoglio si fermò e le porte si spalancarono. Giovanna, sconvolta, si alzò, precipitandosi fuori dal vagone.- E se fosse stata una sua impressione? Nessuno accanto a lei aveva dato il minimo segno di stupore, disagio o, men che meno, raccapriccio -.

Nel giro di pochi minuti arrivò davanti al portone della scuola. La classe l’attendeva, vociante, al primo piano. Tra un cambio d’aula e l’altro, la mattinata passò rapidamente e il suono del campanello liberò lei e i suoi allievi dalla prigione scolastica.

La giornata autunnale era tiepida, gli alberi del parco, che abitualmente attraversava per tornare a casa, avevano cambiato colore e una luce dorata avvolgeva cose e persone impreziosendole. Giovanna s’incamminò lungo il vialetto ombroso, calpestando le foglie che, sotto ai suoi piedi, formavano un tappeto scricchiolante.

Un cane s’avventò scodinzolando su di lei; il padrone lo richiamò infastidito, ma l’animale non obbedì. Con il corpo immobile, improvvisamente irrigidito, alzò il muso annusando l’aria, allungò una zampa e afferrò qualcosa tra le foglie. Giovanna trattenne a stento un urlo di orrore, mentre il cane, tutto orgoglioso, esibiva davanti ai suoi occhi come un orrendo trofeo, una mano insanguinata.
“ Possibile che tu debba raccogliere tutte le schifezze che trovi? “ La voce del padrone, stizzita, infranse il silenzio del parco, mentre, misurandosi con l’animale, tentava di strappargli dalle fauci quel grumo di foglie, carne e sangue rappreso.
“ Avrebbe un fazzolettino? Macchia Bianca ingoia qualunque cosa e poi, a casa, mi vomita sul tappeto “

Tremante davanti a lui, la donna riuscì, a stento, a mormorare: “ Ma ha visto quello che ha raccolto? Dobbiamo andare al Commissariato di Polizia, questa mattina su un sedile della metropolitana c’era un orecchio mozzato. Apparterranno alla stessa persona? “
L’uomo, cambiando immediatamente atteggiamento, dopo aver richiamato il cane con un fischio e averla squadrata dall’alto in basso con uno sguardo di commiserazione mista a fastidio, si allontanò, incurante della richiesta di aiuto della donna che, quasi supplice, lo pregava di accompagnarla a denunciare quanto avevano visto.

A questo punto Giovanna si decise e, camminando con passo concitato, raggiunse il Commissariato di Polizia che si trovava accanto alla sua scuola. Si avvicinò al poliziotto di guardia che smistava i nuovi arrivati e, con un tono di voce che, mentre parlava, saliva d’intensità facendosi stridulo, gli raccontò ciò che aveva visto. L’uomo la guardò incredulo, per un momento quasi disorientato, ma, afferrandola per un gomito e sorridendole con dolcezza, la sospinse, subito dopo, verso la porta d’ingresso di una saletta appartata, facendola sedere e dicendole, con voce suadente:
“ Non si preoccupi, signora, e si accomodi qui “.

Giovanna lo vide parlottare, indicandola con un cenno del capo, con un collega che, dopo aver annuito, si allontanò in fretta, scomparendo dietro alla porta di un ufficio.
Il Commissariato era una vera e propria bolgia: gente che usciva e entrava in continuazione: molti che, in preda all’agitazione, alzavano la voce, alcuni che imprecavano tra i denti appena i poliziotti voltavano loro le spalle, e qualche anziano, seduto con aria rassegnata, che attendeva paziente in quel vocio che sembrava di minuto in minuto aumentare d’intensità.

In quella grande città, che ancora ci si ostinava a considerare la capitale economica del Paese, i ritmi lavorativi erano diventati forsennati: tutti correvano. Velocità era diventato sinonimo di efficienza. Gli anziani e i bambini erano guardati con dispetto: lenti e indecisi rallentavano la grande corsa verso il profitto, perché, ormai, il denaro, solo il denaro contava e in suo nome tutto era concesso. A questo pensava Giovanna in paziente attesa, sottratta, per un attimo, al vortice rumoroso di attività che si agitava dentro e fuori dalla questura.

“ E’ lei la signora che non sta bene? “ La voce del medico che, accompagnato da un infermiere, era entrato nella stanza e le si era avvicinato, la distolse dai suoi pensieri.
Giovanna si agitò, tentò di parlare, di spiegare, ma venne afferrata e caricata di prepotenza su una autoambulanza che partì a sirene spiegate.

Il medico, seduto davanti a lei, aveva un’aria rassicurante, ma la giornata era stata densa di emozioni. Inoltre, al suo arrivo al pronto soccorso dell’ospedale, quando lei aveva dato quasi in escandescenze urlando che non era pazza, l’avevano imbottita di calmanti, con il risultato che, ora, si sentiva piuttosto confusa.
“ Nome? “ chiese il medico.
“ Giovanna Visani “ rispose la donna.
“ Professione? “ aggiunse l’uomo seduto davanti a lei.
“ Insegnante “ rispose con voce stanca, agitandosi sulla seggiola e lasciando scivolare tutto intorno uno sguardo inquieto.
“ E’ un lavoro molto stressante, soprattutto oggi con la demotivazione allo studio degli allievi, le riforme in atto, l’ostilità dei genitori, l’esiguità degli stipendi…”
La voce del medico era calma, quasi suadente, ma la donna taceva, fissando ostinatamente un punto sulla parete.
“ Dunque , lei avrebbe avuto delle allucinazioni visive, o sbaglio? “
“ Non ho avuto allucinazioni, io ho visto, ho visto…” e la donna tacque, portandosi una mano alla fronte che le si stava imperlando di sudore.
“ Non si preoccupi, signora, è in buona compagnia; ho avuto altri casi come il suo, in questo periodo. La vita in città è diventata particolarmente stressante, ma basteranno delle cure adeguate e la faremo tornare come nuova “.

Il medico scrisse qualcosa sul suo ricettario, poi, stizzito, strappò il foglietto riducendolo in pezzi. Si alzò e, facendo leva con il piede sul pulsante, sollevò il coperchio della pattumiera. Giovanna, che seguiva i suoi gesti, vide sporgere dal bidone un piede rattrappito e contorto. Il medico sobbalzò, volgendo lo sguardo verso la donna per accertarsi che non avesse visto il contenuto del bidone, ma l’orrore stampato sul viso della paziente lo convinse immediatamente del contrario.

Allora si voltò e, sorridendo sornione, le disse:
“ Stia tranquilla, dalla sua espressione suppongo che le si sia ripresentato il problema…Si rassicuri, un paio di pillole e queste allucinazioni scompariranno. Mi raccomando signora, segua il mio consiglio: lei ha una laurea: la sfrutti meglio e si trovi un lavoro che la gratifichi di più “:
Mentre l’accompagnava alla porta un raggio di sole illuminò la stanza, dando contorni precisi agli oggetti. Solo allora Giovanna notò il suo orecchio mozzo e la piega avida delle sue labbra.
Uscì con un profondo senso di sollievo, stracciò in mille pezzi le ricette ricevute e le guardò roteare, come coriandolo colorati, nella luce chiara della sera che avanzava.

sabato 25 ottobre 2008

Chi ha paura del lupo cattivo?

Hanno commesso l'errore determinante: li hanno messi nella condizione di non avere più nulla da perdere. Eh sì, se li sbatteranno in galera, i nostri ragazzi, che molto bamboccioni ora non sembrano, non faranno una piega, tanto alla coabitazione selvaggia ci sono abituati. E' da tempo che non hanno sicurezze, galleggiano facendo sera, tanto il lavoro sicuro è una chimera.
Perché essere bravi se basta essere furbi? E quelli che furbi non sono? Non hanno lasciato loro spazio, né per fare, né per essere. Sull'avere, poi, da tempo per loro è calato il sole.
Ora, derubandoli degli ultimi spiccioli, hanno aggiunto la beffa al danno.

Ma è probabile che siano sufficientemente furbi per non farsi incastrare. Hanno fantasia, intelligenza, astuzia e cultura. Sono il sangue giovane, la speranza e il futuro di questa nostra sclerotizzata società. Alla loro età non si ha paura, sentimento che tormenta noi vecchi, arroccati nelle nostre abitudini, abbarbicati alle nostre, presunte, sicurezze.

Cresciuti sapendo di doversi inventare un lavoro, un futuro, non mancano certo di immaginazione, come dimostra la loro imprevedibile protesta, a fronte di una risposta stantia. Cresciuti a nutella e televisione, razza mutante dotata di prolungamenti informatici con cui convivono in simbiosi mutualistica, sono impermeabili a slogan e specchietti per le allodole che captano prima ancora di vederli.

Una generazione scippata del futuro si sta dimostrando ben decisa a riprenderselo.
Non lo avremmo fatto anche noi al loro posto?

La passione - dicono i friulani - no l'è brod de fasoi.

Ben più di un hobby, che è soltanto un modo di riempire il tempo facendo qualcosa di divertente, la passione, ben lungi dall'essere divertente, è esaltante.
E' fatta di cervello, di anima, di budella? Soltanto? Oh no!, lei ti divora la pelle, come una lebbra ti addenta, ti succhia, ti smangia.
Invadente, pervasiva di ogni spazio - come un'orda di barbari destinata a travolgere una civiltà decrepita, molle, esausta, convinta di essere battuta prima ancora di essere vinta - ti travolge e ti schianta.
Gelosa di tutto ciò che, anche per un solo istante, la sbiadisca sfumandone i contorni, ti avvolge in una ragnatela di malie, promettendoti la luna, la più bella, quella che riluce nei pozzi e rimbalza, lieve, sulle onde.
Fa volare il tempo, irrompendo nelle tue notti che illumina di stelle, a manciate, a sacchi, a pugni, perché la passione è insonne, inesausta. Chiude gli occhi per spiarti di soppiatto, per controllarti e...rimirarti. Compare a tradimento negli occhi di un uomo, nella magia delle parole o esplode nei colori e anima il marmo.
Si nutre di fantasia e partorisce l'arte.
Viverla è arrendersi, consegnando le armi e giurandole - per sempre - fedeltà.

giovedì 23 ottobre 2008

ISA/ISO

Sentì il trillo della sveglia e, ancora assonnata, socchiuse gli occhi. Dalla finestra filtrava un chiarore soffuso che disegnava figure in movimento sulla parete davanti a lei. Qualcuno, nel palazzo di fronte, accese una luce. Una radio cominciò ad eruttare parole in libertà
Allungò un piede fuori dal letto e, a tastoni, cercò le ciabatte.
Intorno a lei, fastidiosi e rassicuranti, i rumori di sempre. Imprecò mentalmente contro Giovanni, il figlio unico della coppia che occupava l’appartamento posto sopra al suo, che, come da copione, aveva ricominciato a litigare con la madre. Al piano terra, la custode iniziò a cantare, trascinando i bidoni dei rifiuti lungo l’androne.

Isa si passò una mano sul collo ancora irrigidito dal sonno, ed ebbe la sensazione di non trovare i capelli. “ Non sono ancora sveglia del tutto “ pensò, stropicciandosi gli occhi. “ Mi occorre un buon caffè per iniziare la giornata “, concluse sollevando la gamba sinistra per fare il primo passo, ma una sensazione strana, mai avvertita prima, nel muoversi attraverso la stanza, la bloccò: no, non era una sensazione di debolezza, il problema era eventualmente l’opposto: il suo corpo agile e sottile si era - oh, mio Dio! – si era allargato e allungato!
Rimase immobile, paralizzata dalla meraviglia per un lunghissimo istante; poi, lo sguardo le cadde sul braccio che sporgeva nudo dalla manica del pigiama e, per un attimo, ebbe l’impressione di scorgervi una fitta peluria. “ Ipertricosi “ pensò “ una reazione allergica a qualcosa che aveva mangiato, a meno che non dipendesse da quei maledetti ogm – o come diavolo si chiamavano –sì!, organismi geneticamente modificati capaci, evidentemente, di farti svegliare una mattina pelosa come una scimmia”.

Cercò di calmarsi, facendo appello alla propria razionalità.
Non osava aprire gli occhi e, tanto meno, fare un gesto, un solo gesto per accendere la luce e guardarsi. La sua mano, che in un moto istintivo d’angoscia aveva portato al mento, tastò una pelle rasposa come quella di un uomo mal rasato. Un uomo mal rasato? Un uomo!
Ma Isa dov’era finita?
Chi era quell’essere peloso, sgraziato e rasposo che i suoi occhi, ormai abituati al chiarore lattiginoso del giorno appena iniziato, andavano individuando?

Sopraffatta non più solo dal terrore, ma anche dalla percezione che qualcosa di mostruoso fosse avvenuto in lei, rimase immobile per alcuni minuti, poi, stancamente, sollevata una mano, accese la luce che disvelò una stanza arredata con gusto: tende azzurre che ondeggiavano leggere mosse appena da un alito di vento, cuscini a fiori al loro posto, esattamente dove li aveva posati la sera prima.

Guardinga, mosse qualche passo per consentire allo specchio del suo armadio di inquadrarla; poi, ormai rassegnata al peggio, sollevò lo sguardo e…scoppiò in una risata isterica.
Iso! la osservava ridendo, i corti capelli ricciuti scomposti dal sonno, il segno violaceo della barba non rasata che sottolineava la mascelle quadrata. Il pigiama bianco, ornato di pizzi valenciennes, che tratteneva a stento un solido corpo maschile, muscoloso e scattante come quello di una fiera in agguato. Si passò la lingua sulle labbra, inaridite dall’emozione, avvertendo il sapore dei baffi.
I baffi!

“ Non è possibile, queste cose succedono nei libri, non sono un personaggio uscito dalla penna di Kafka “ e, dal riso, senza quasi rendersene conto, passò al pianto. Un pensiero molesto, ma imperioso “ Un uomo non piange “gli attraversò la mente, obbligandolo a recuperare il controllo di sé. “ Chi lo ha detto? Chi mai ha stabilito che un uomo non piange? Se la natura ci ha dato le lacrime, non sarà un caso; e poi, che battaglia abbiamo fatto per uscire dagli stereotipi, per liberare entrambi i sessi dai cliché? “.

Si pizzicò con forza le braccia, sperando di svegliarsi da un brutto sogno, anzi da un incubo; poi, con un violento gesto di rabbia colpì lo specchio con un pugno. Il cristallo si frantumò in mille schegge, ferendolo. Guardando il sangue gocciolare dalle nocche, si rese conto che la sua rabbia impotente assumeva una connotazione, una modalità di espressione, diversa da quella che aveva connotato Isa.
Beh, certamente Isa non era Iso, avrebbe dovuto fare attenzione. Si prese la testa tra le mani, cercando di calmarsi, mentre un pensiero gli attraversava la mente “ Un medico, sì! é forse questa la cosa migliore da fare “.

Si diresse rapidamente verso l’armadio, si tolse il pigiama, e rimase lì, nudo come un verme, contemplando il suo gingillo per qualche secondo prima di annaspare tra gli abiti dell’armadio alla disperata ricerca di qualcosa di unisex da indossare. Optò per una camicia sportiva, jeans, giacca a vento e scarponcini di camoscio che artigliarono in una morsa senza scampo i suoi piedi larghi e nodosi. Per completare l’opera e mimetizzarsi – o perlomeno tentare di farlo – s’infilò in testa un berretto da montagna – per fortuna si era in pieno inverno – avvolgendosi la parte inferiore del volto in una sciarpa.

Furtivamente, sbirciando intorno a sé come un ladro, uscì dall’appartamento scendendo rapidamente lungo la scala che portava all’androne, ma stava per varcare con un sospiro di sollievo il portone d’ingresso del palazzo, quando avvertì una presenza alle sue spalle. “ Buongiorno signorina Isa, ha visto che tempo orribile? L’inverno quest’anno non finisce più. A proposito, dimenticavo di chiederle una cosa importante: parteciperà alla riunione condominiale di martedì pomeriggio o ha intenzione di rilasciare una delega a qualcuno? “ Iso, senza voltarsi, sussurrò:” Non si preoccupi perché.. “, ma il suono baritonale della sua voce, così diversa dalla abituale, squillante tonalità femminile, lo convinse a tacere. “ Mio Dio signorina Isa, che voce! Si copra, si copra bene e prenda anche un buon latte caldo con il miele. Ha del miele a casa?, altrimenti le porterò un po’ del mio. Sa, me lo manda… “ , ma le ultime parole della custode si persero nel rumore del traffico, perché Iso si era precipitato fuori, quasi di corsa, deciso a recarsi nello studio del proprio medico.

Angosciatissimo, percorse in tutta fretta la strada che separava la sua casa dallo studio del dottore, piombando nella sala d’attesa e infilandosi, indifferente di fronte alle proteste dell’infermiera, direttamente, senza nemmeno bussare, nella stanza dove, seduto dietro alla scrivania, lo accolse con un’espressione piuttosto seccata il suo medico di famiglia.

Iso, che si era fermato ansante, si tolse lentamente il berretto e la sciarpa, fissando il medico negli occhi. L’uomo seduto davanti a lui, assumendo un’aria vagamente sorpresa gli chiese : “ Ma lei chi é? Come si permette di entrare in questo modo? “ In risposta, Iso balbettò: “ Come chi sono? Dottore, non mi riconosce?“. Il medico, con aria ancora più meravigliata, scosse la testa e, quando declinò il suo nome, assunse un’aria tra il divertito e il seccato.

Iso si lasciò cadere sulla seggiola posta di fronte alla scrivania del medico mormorando: “ Mi sono svegliata, svegliato così questa mattina “. Il medico, aggiustandosi gli occhiali sul naso, disse: “ Così come? “ “ Così… uomo! “ e Iso sottolineò le parole pronunciate con un gesto sconsolato della mano per riportare l’attenzione dl medico sui segni più evidenti della sua mascolinità: la barba, i baffi e il gingillo.

“ Beh, non è il caso di agitarsi in questo modo, è normale dopo un intervento come quello che ha subito lei; non sapevo avesse questo problema, non me ne aveva mai parlato “ mormorò il medico.
Iso, passando dalla disperazione alla rabbia, esclamò: “ Ma che intervento del c…o, oh mi scusi, non è da me esprimermi in questo modo. Mi lasci spiegare dottore: io non ho subito alcun intervento e non ho mai avuto problemi d’identità sessuale, ma questa mattina mi sono svegliato così, in queste condizioni”.

Per alcuni interminabili minuti nessuno aprì bocca, poi il silenzio fu rotto dal ticchettio molesto della tastiera del computer. Gli occhi del medico, attenti e vagamente inquisitori, lo osservarono per un istante, poi le sue mani incominciarono a battere sulla tastiera, rileggendo la sua cartella clinica.

“ Vediamo un po’, aggiorniamo i suoi dati “.
“ Ma sta scherzando? mentre il mondo mi crolla addosso, lei non trova niente di meglio da fare che scrivere Iso al posto di Isa e depennare dai farmaci che uso la pillola antifecondativa? “
“ Si spogli, vediamo un po’ cos’è successo “ disse il medico, alzandosi
Cominciava ad averne abbastanza delle domande idiote del medico e, soprattutto, di quell’aria di sufficienza e di quei controlli manuali, in merito alla sua appena acquisita mascolinità, che lo mettevano piuttosto a disagio. “ E’ proprio un maschio, non c’è ombra di dubbio “ affermò, pensoso, il dottore prima di aggiungere:
“ Lei è proprio sicuro di essere la signorina Isa Bazzocchi? So che la signorina aveva un fratello… “
“ Anche un cugini, anzi due “ ironizzò acidamente Iso e, con un salto, sceso dal lettino, si rivestì rapidamente prima di uscire dallo studio, ignorando le ultime parole del medico che gli consigliava di fare degli esami. Una signora gli si parò davanti , lamentandosi per il mancato rispetto delle priorità imposte dalla lunga fila di pazienti che, nel frattempo si agitava davanti ai suoi occhi. Ma quando lo sguardo di Iso, furente di rabbia, le si posò addosso, si rintanò spaventata sul divanetto. Solo un uomo si avvicinò con aria vagamente minacciosa, ma, anche lui, quando Iso alzò un braccio con la mano stretta a pugno verso di lui, preferì farsi da parte senza aggiungere altro.
Scese le scale dell’edificio come una furia.

La rabbia stava prendendo il sopravvento sulla disperazione, ma anche la sorpresa faceva capolino riportandogli alla memoria quanto era avvenuto le poche volte in cui si era arrabbiata. Nessuno si era spaventati, anzi, quando sopraffatta dall’emozione e strozzata dalla rabbia si era messa a piangere, le avevano dato dell’isterica. Per la prima volta in vita sua si sentì forte di una forza che le/gli derivava da quei muscoli che si contraevano sotto la sua pelle, quei muscoli che davano al suo corpo una marcia in più, una superiorità fisica che lo lasciava interdetto, ma anche orgoglioso. Ora, pensò sorridendo, Francesco, il suo ragazzo, non lo avrebbe più battuto a braccio di ferro.

Sobbalzò atterrito. Nella confusione concitata di quelle poche ore non aveva pensato a Francesco. Camminando era arrivato in prossimità del parco, dove, nell’intervallo del pranzo s’incontrava con il suo ragazzo. Mangiavano un panino al bar dell’angolo, bevevano un caffè e poi si concedevano una passeggiata nel parco. Quel luogo lo ricordava in tutte le stagioni: gonfio di pioggia, i contorni degli alberi resi incerti dalla nebbia, giallo di sole a picco sui prati bianchi di margherite. Le impronte nere dei loro piedi sulla neve e i baci sotto un cielo di panna...

Iso capì che mai più i progetti fatti, baciandosi sulle panchine del parco, avrebbero potuto realizzarsi. Isa voleva dei figli, Francesco, più che di maternità, sembrava desideroso di Isa, del suo bianco, morbido corpo che le sue mani non si stancavano di accarezzare, di toccare e di baciare.

Si sedette, anzi si accasciò sulla seggiola di un bar.
Doveva esserci una spiegazione. In fondo, a ben pensarci aveva spesso provato un senso d’invidia nei confronti dei maschi. Ma che stupidaggine, non era certamente stata l’invidia del pene di freudiana memoria che aveva provato, bensì la rabbia legata ai loro privilegi, ai vantaggi che una società maschilista riconosceva agli uomini.
Quante volte si era resa conto dei privilegi maschili e di quanto penalizzassero l’altra metà del cielo. Ma era stata dunque una persona invidiosa che aveva covato rabbia e livore? E se anche questa ipotesi fosse stata reale, beh si sarebbe trattato solo di un desiderio irrealizzabile, un sogno, per intenderci. Soltanto che, nel suo caso quel desiderio si era realizzato. Ma perché proprio a lei? E il giorno successivo si sarebbe svegliata ancora uomo o nuovamente donna? La trasformazione che stava vivendo era reversibile oppure no?

Pensò a Isa e, con occhi maschili: il suo ventre tenero, nascosto gli risvegliò un desiderio che Isa non aveva mai provato o, forse, sì? In quel modo intenso, invasivo, bruciante aveva desiderato un figlio da Francesco, ma non aveva mai desiderato Francesco. La disperazione si alternò al desiderio: Francesco non l’avrebbe più voluta, non avrebbero più passeggiato nel parco. Nei suoi occhi avrebbe visto lo sconcerto, il rifiuto. Avrebbe desiderato le donne, lui!, ma Iso non era più una donna.

Si sentì perso, smarrito in quel corpo che, pur essendo il suo, non gli apparteneva, in quegli istinti maschili che non poteva non vivere, ma che si accompagnavano ad emozioni che sempre per lui avrebbero avuto un retroterra femminile.
Il mondo per lui, almeno il mondo della comunicazione tra uomo e donna, non sarebbe più stato un mistero sul quale confrontarsi, litigare, ironizzare. Lui sapeva tutto e, perlomeno, avrebbe provato tutto racchiudendo in sé l’unità, il più e il meno, il bianco e il nero…
Perché invece di provare un senso di completezza si sentiva smarrito, incerto e, dentro di lui si stava insinuando una sensazione profonda di solitudine?
Non avrebbe non solo avuto più nulla da scoprire, ma nemmeno nessuno con cui parlare.
Sarebbe stato unico, ma solo.

mercoledì 22 ottobre 2008

Giovani

A Milano, un monolocale in affitto costa, ora, sei/settecento euro al mese.
Lo stipendio di chi si districa tra co.co.co, lavori a progetto e altre simili amenità non supera, mediamente, gli ottocento euro mensili.
E' d'obbligo essere sani e, se possibile, senza carichi familiari, ché - si sa - i figli, soprattutto piccoli, si possono ammalare.

La sana e robusta costituzione unita alla flessibilità è auspicabile. Le mansioni cambiano in itinere e, se va bene, per qualche mese si fa lo stesso lavoro ma, appena si acquisiscono competenze, si cambia.
Il lavoro se non c'è s'inventa, e quando c'è s'improvvisa.
La fantasia è d'obbligo.

Si vive con mamma e papà: di alternativo c'è il monolocale di cui sopra, da dividere con gli amici, o, nel peggiore dei casi, la panchina dei giardinetti.
E' inutile essere bravi, competenti e preparati. Rettifico: è dannoso perché, quando s'impongono le prevalenti leggi del mercato e li buttano fuori, i migliori - professionalmente parlando - cadono in depressione.
Sono banditi i progetti. Perché? No work, no party, pardon: progetti.

I temerari che hanno stipulato un contratto di mutuo, ora, rischiano di perdere la casa. Loro.
Perché dovranno (e dovremo) sostenere le banche che, per eccesso di cupidigia, sono in difficoltà. Come aiutare un boia ubriaco a calarci la mannaia sulla testa.

E, ora, comunichiamo loro con nonchalance che è in arrivo una recessione economica durissima che li vedrà coinvolti in prima persona?
E ci aspettiamo che rinuncino! A cosa? Ancora a cosa?
Se qualcuno sta esagerando non sono certamente i giovani

martedì 21 ottobre 2008

AUTUNNO

Arriva strisciando incerto, quasi esitante, come un figlio non desiderato, non voluto. Circonda di nebbia le mie colline e allunga ombre furtive sulle facciate delle case. Le giornate si accorciano arrendendosi alla notte che si stende come un gatto sazio sulle mie ginocchia.
Tolgo il cappotto dall'armadio, metto all'aria i maglioni.
Quando esco dalla doccia rabbrividisco.
Da bambina l'odore dell'autunno era odore di libri, di quaderni nuovi. Era odore di scuola. Ricordo che amavo di questa stagione la luce chiara, raccolta, che, filtrando dalle imposte, scivolava sulle pareti della mia stanza mentre, accoccolata sulla poltrona, divoravo mele rugginose e pagine di libri.
Maturavano i cachi nell'orto di mia nonna...
Si accendevano le stufe e venivo mandata in cantina a prendere la legna. Temevo il buio del locale e il suono dei miei passi che, come un nemico emerso dal buio in una notte senza luna, mi seguiva. Con il cuore che batteva impazzito, risalivo e mia nonna mi chiedeva: "Sei stata attenta a chiudere bene la porta".
"Perché?" le domandavo.
"Perché ci teniamo dentro, prigioniero, l'inverno", rispondeva abbassando la voce fino a renderla un sussurro .
"Davvero?"
"Non hai sentito il suo alito freddo sul collo?", e così dicendo si chinava su di me soffiando lentamente.
"Sì!sì..." mormoravo, battendo i denti.
"Soltanto le bambine speciali hanno il privilegio di sentire il respiro dell'inverno".
Io annuivo, rassicurata e orgogliosa.
Ora l'autunno non sa più di scuola.
Nella mia cantina non ci sono fantasmi, né legna. Soltanto qualche scatolone di vecchi giornali che mi ostino a conservare.
Mia nonna non c'è più.
Nemmeno mia madre.
Ora, l'autunno sa soltanto di nebbia e... di ricordi.

lunedì 20 ottobre 2008

Amicizia

Erano diventate amiche notandosi a quella riunione di genitori: madri, con la messa in piega appena fatta a incorniciare solidi volti di donna, che tradivano origini contadine.
Corpi un po’ inquartati, abiti spazzolati e stirati, troppo alla moda per essere di gusto.
Lei aveva un maglioncino azzurro con disegnato, cucito o stampato?, un Topolino in braghette corte dai colori accesi.
Era evidentemente annoiata.
Si agitava sulla seggiola sbuffando, una cascata di riccioli scuri, spettinati, che le danzava intorno al viso.
“ Non ti ho mai vista...”
“ Abito qui da poco… “
L’altra la squadrò, una punta di diffidenza superata dalla curiosità.
“ Da dove vieni? “
“ Sono triestina “ e il sorriso le faceva affiorare piccole rughe intorno agli occhi chiari
che la osservavano curiosi.
“ Cosa fai? Lavori? “
“ Insegno alla Scuola alberghiera…”
“ Perché non ci prendiamo un caffè? “ e poi, in fretta, “ O, tuo marito ti aspetta per la cena? Sono quasi le otto “
“ Sono separata “ e anche la voce dell’altra sembrò spezzarsi.
Tutti si stavano alzando rumorosamente, le sedie stridevano sul pavimento, qualcuno si fermava a scambiare due parole con il vicino. Qualche bibiglio veniva sussurrato, seguito subito dopo da sorrisini compiaciuti e espressioni di meraviglia.
Le due donne venivano tacitamente isolate ed evitate dal gruppetto che guadagnava l’uscita, scivolando loro intorno.
“ Andiamo…Come ti chiami? “
“ Lodovica. Tu? “
“ Giuliana “
Scesero le scale e uscirono nel cortile.
“ Come ti trovi qui? “ chiese Giuliana
L’altra rise, facendo un gesto eloquente con la mano per indicare lo spazio intorno a sé.
“ Brume, neve…”
“ Brume dentro e fuori “ e sospirò.
“ Sono vedova “ mormorò l’altra.
“ Ah “
Si strinsero nelle giacche.
L’aria intorno a loro esalava afrori stantii di umidità.
Un lampione accese d’oro la notte.
Non sapevano che il destino aveva in serbo per loro altri dolori.
Erano ancora giovani.
Speranzose.
Camminavano insieme, riscaldandosi una della presenza dell’altra.
Amiche in quella notte senza stelle.
Amiche davanti a quel beffardo destino che la vita aveva e avrebbe loro assegnato.

domenica 19 ottobre 2008

DUE PIU' DUE FA DI NUOVO QUATTRO

Tanti anni fa, aveva litigato con il marito, sventolandogli sotto al naso la bolletta telefonica appena ricevuta. Lui, seccato, lasciando scivolare lo sguardo sull'importo in fondo, in evidenza, le aveva risposto:"Non ce la facciamo con i soldi? Benissimo, è arrivato il momento di guadagnare di più". Lei aveva replicato, rossa di rabbia: "Dobbiamo spendere meno".

Su quel contrasto il loro matrimonio si era incagliato, come un asino inestardito a non proseguire la sua marcia nemmeno sotto un diluvio di bastonate. Portatori di ideologie inconciliabili, si sarebbero separati...

Guadagnare di più, mettere il denaro al primo posto, subordinargli tempo libero, affetti, principi e valori...Quante altre volte e, sempre più spesso, le sarebbe successo, facendola sentire isolata e detentrice di valori superati. Era rimasta indietro, ai blocchi di partenza, con i suoi acquisti ben ponderati, i vecchi mobili ai quali era affezionata, l'utilitaria un po' ammaccata e una professione difficile e faticosa che la faceva annoverare tra i morti di fame, ma che a lei piaceva.

Una ex alunna glielo aveva sibilato tra i denti:"Dovrei studiare per diventare come lei? Una perdente?" Era rimasta sorpresa. Non si considerava tale. Aveva un compagno, figli, alunni che aveva visto crescere, fisicamente e culturalmente. Ma quella parola, perdente, le era rimasta appiccicata addosso, come una zecca presa in campagna. Tanti cambiamenti, nella realtà che la circondava, avevano cominciato a inquietarla.

Il padre dei suoi figli aveva il portafogli pieno, come l'agenda dei suoi impegni, e, quando veniva, anche se sporadicamente, non era mai a mani vuote. Non avendo il tempo per educare i figli si era limitato a viziarli. I rimproveri, i "no" decisi erano stati compito suo...

Intanto il mondo correva su binari che non erano i suoi.

Aveva una laurea in scienze economiche e quello che stava succedendo le sembrava follia allo stato puro. Leggeva articoli sui giornali, seguiva dibattiti televisivi che la lasciavano sempre più incerta e dubbiosa: il mondo la pensava come il suo ex marito. L'imperativo categorico era uno solo: spendere, spendere e ancora spendere. E i soldi? Le banche cosa ci stavano a fare? le rispondevano. E lei, cocciuta:"Ma prima o poi si dovrà pure restituire il denaro prestato?" La guardavano con sorisetti di compatimento. Poi, con la pazienza che si usa con i bambini e i vecchi, le spiegavano cosa fossero leasing, anticipi su fatture, scoperti di conto, crediti al consumo, carte di credito, mutui. Lei li ascoltava, attenta.

E i debiti salivano, una montagna di debiti come nel paese di Bengodi, dove tutto si pagava con la carta di credito, dove i ragazzini compravano titoli in borsa e li rivendevano in giornata facendoci il guadagno di un mese di stipendio. Come il suo. Anche le casalinghe avevano cominciato a comprare titoli e sui giornali femminili, accanto alla "Posta del cuore", l'esperto di borsa elargiva consigli sui migliori investimenti da effettuare.

Lei aveva finito per non parlare più. Si era resa conto dell'inutilità delle parole.
Era andata in pensione e coltivava gerani sul terrazzo. Cambiava canale, ma continuava a pensarla allo stesso modo. Cavolo, i principi contabili non li aveva inventati lei, quel treno su cui si trovava, suo malgrado, era destinato a deragliare...

Non sentì il botto. Per un secondo pensò si trattasse soltanto di un temporale di fine estate.
Dallo schermo del televisore, i politici di turno cercavano, ora, di rassicurare i risparmiatori, affannandosi a snocciolare dati che il giorno successivo venivano smentiti.
Le grandi istituzioni finanziarie crollavano come birilli centrati da un giocatore esperto.

L'inflessibile legge dei numeri mostrava i denti. Con un breve sospiro di sollievo, bagnando i gerani ancora fiammeggianti sul suo terrazzo e allungando una carezza alla gatta che le si strofinava sulle gambe, pensò che, finalmente, due più due avrebbe fatto di nuovo quattro.

venerdì 17 ottobre 2008

Che Paese è?

Se ne andarono, abbandonando il loro Paese, prima le "braccia", a spalare carbone nelle miniere del Nord Europa.
Partirono per fame.
Poi, alla chetichella, cominciarono a partire i "cervelli": emigrarono negli Usa, in Inghilterra, in Olanda...
Per fare ricerca.
Ora partono le "coscienze".
Per sopravvivere.

Tradimenti

Cosa succederebbe se avessimo il coraggio di dire ciò che pensiamo?
Al nostro uomo che sussurra, con voce troppo dolce; - Non posso venire, ho un impegno imprevisto.. - e noi, aiutandolo a mentirci: - Di lavoro? ... Possibile che non colga l’ironia sulle nostre labbra? Non la coglie, abbocca all’amo e conferma, sicuro: - Sì di lavoro - aggiungendo - una seccatura, una vera e propria scocciatura.
Forse si aspetta una nostra partecipazione, almeno verbale, del tipo - Mi dispiace, ma non preoccuparti: ci vedremo un’altra volta; fa’ lo stesso ?
Se invece gli dicessimo: - Un impegno di lavoro alla domenica? Altamente improbabile - che è il linguaggio statistico usato per definire un evento impossibile.
Se dicessimo - Non mi bastano più le briciole del tuo tempo, sai che ti dico: voglio un uomo che stia con me perché io gli piaccio, perché si diverte, perché ama sentirmi ridere e il tempo, quando stiamo insieme, gli vola, gli vola via così rapidamente da fargli scoprire una ruga o un capello grigio ogni volta che mi lascia.
Tu, invece, quando siamo insieme, sbirci l’orologio di sfuggita con occhi colpevoli, gli stessi occhi che hai quando il telefonino suona e, sbuffando, ti alzi e ti allontani.
E non ti rendi conto che hai continuato a sorridere ininterrottamente mentre parlavi, quasi baciavi il telefonino, ed è un po’ strano che tu mi dica, di nuovo ( sta diventando un’abitudine? ) - che scocciatura, un collega.. -
Se ti dicessi: - Avevi lo stesso sguardo che, tanto tempo fa, incrociò il mio lungo il corridoio della scuola, quando ci presentarono e tu sembrasti avere occhi solo per me, per il mio volto giovane, intatto, per la mia bocca che eruttava parole in libertà che, allora, tanto tempo fa, ti facevano ridere .
Se ti dicessi - Avevi lo stesso sorriso, quello che ti increspa la pelle intorno agli occhi, rendendoti interessante perché le rughe su voi uomini non disturbano. Danno al vostro sguardo un’aria vissuta, al nostro, di noi donne intendo, solo un’aria pesta, stropicciata.
E invece ti dico: - Un collega o una collega? - , ma cambio subito discorso per non metterti a disagio o, più probabilmente, per non farti venire la tentazione di dirmi quello che non voglio, non posso sentirmi dire.
A volte stai lì muto, l’aria svagata, lo sguardo assente e io ti chiedo : - Sei stanco ? -
e tu mi rispondi:- Sì! - e poi, tra noi il silenzio, che nemmeno il gracchiare rumoroso del televisore riesce a superare del tutto, un silenzio che ci penetra nelle ossa come il freddo, un silenzio che ci portiamo dentro, ormai, come un compagno indisponente che ci siamo imposti di tollerare. Un silenzio strano soprattutto per me, che amo le parole, le colleziono quasi, le scelgo con cura, le colleziono e catalogo come reperti preziosi.
Se io avessi il coraggio di aggiungere a quelle parole - Sei stanco? - un - Di me?- e se tu avessi l’onestà di rispondermi: - Sì! - , forse, entrambi potremmo smettere di ingannare noi stessi e l’altro e la vita ci potrebbe ancora sorprendere.

domenica 12 ottobre 2008

Monsieur le Président

Monsieur le Président, contano soltanto i soldi? Non c'è da preoccuparsi?
La giustizia è quella del più forte? Onesto deve essere quello che imbrogliamo, altrimenti non potremmo spennarlo come un pollo?

Da un breve sondaggio, fatto nelle mie classi negli ultimi (disperati) anni in cui ho insegnato, era risultato sempre lei, le Président, l'uomo più ammirato, più amato dai miei studenti. Il modello da seguire, il vincente per eccellenza.
Ancora non sapevo che sarebbe diventato l'idolo anche della maggioranza del Paese. Nella complessa e delicata stanza dei bottoni sono entrati uomini come lei: arroganti, privi di scrupoli, di cultura e di valori, a meno che non si consideri valore il denaro. Uomini totalmente privi di etica. Si sa, la morale ingabbia, e "gli uomini della libertà" non sopportano limiti, norme, regolamenti. Per fare razzia si deve andare a briglia sciolta.


Mi conforta, in questo difficilissimo momento che stiamo vivendo, una speranza: che si faccia piazza pulita delle società che hanno legalizzato il furto all'ombra di politici inetti. Che vengano defenestrati i politici in questione. Che gli economisti si tappino la bocca. Che il berlusconismo arrogante e becero venga ,finalmente, come sistema di valori (sic), messo in stato d'accusa per tutti i guai che ha causato.

Se la ricorda l'esortazione rivolta al Paese e all'opposizione? Quel suo "Lasciatemi lavorare" mi ronza ancora, molesto, nelle orecchie. Per chi ha lavorato monsieur le Président? A pochi anni dalla sua comparsa sulla scena politica, lei & conpagni siete diventati straricchi alle spalle della maggioranza del Paese che, domani mattina, non sarà nemmeno sicura di poter ritirare i propri soldi dal conto corrente.


I suoi valori si sono propagata nel mondo a velocità supersonica, anche grazie alla globalizzazione, quella stessa globalizzazione da lei osannata, che avrebbe dovuto portare ricchezza, benessere e stabilità della moneta e che, per il momento, si sta rivelando un'autentica iattura.

Ebbene, monsieur le Président, tanto di cappello. Nella mia stanzetta ho atteso, non posso dire con pazienza, ma con fiducia sì. Ho atteso che gli stolti, perchè tali si sono rivelati, "lavorassero", con la solerzia che contraddistingue chi molto fa e poco pensa.
Ho pazientato aspettando che si rovinassero con le loro stesse mani. E' avvenuto!
Mi auguro che chi l'ha votata, cominci a riflettere e... a dubitare delle sue parole.

A quale prezzo, monsieur le Président, a quale prezzo!

giovedì 9 ottobre 2008

Res derelicta

Una trentenne laureata - giovanissima - con ottimi voti, master, primo inserimento nel mondo del lavoro, acquisizione di una professionalità operativa...
Poi, una mattina come le altre, la sua vita deraglia, arenandosi su un binario morto.
Come una balena suicida.
Il mercato l'ha marchiata: esubero.
No, non è, come sarebbe suo diritto, una scatenata ragazza; è un'escrescenza, un tumore nuovo che dilaga e che deve essere eliminato, messo ai margini. Il mercato non ne ha bisogno.
E lei, lei che cosa fa?
Incomincia a mandare curricula in giro. Si presenta a colloqui di lavoro.
Ma deve anche mangiare e vestirsi e...vivere.
Dalle finestre della sua casa - ora può permettersi il lusso di passarci le ore alla finestra -, quando l'oscurità tinge di nero le strade, vede ombre furtive intorno ai cassonetti dell'immondizia. Qualcosa scompare in un sacchetto di plastica.
Incuriosita, si mette di vedetta anche la sera successiva.
Stessa scena.
Il giorno dopo fa un giretto e butta l'occhio.
La domenica, al mercatino delle pulci, stende una vecchia tovaglia appoggiandoci sopra una brocca scheggiata, tre bicchieri spaiati,
un ventaglio senza una stecca e una giacca "Anni'80". Come lei, res derelicta.
Da Santoro, a "Annozero", una ragazza ha raccontato ieri sera la sua storia.
Storia di ordinaria emarginazione.
Storia che si andrà ripetendo, di città in città, di paese in paese.
Quante persone scaricherà, come rifiuti maleodoranti lasciati a marcire nelle strade, l'attuale gravisssima crisi finanziaria?
Si parla di milioni di euro bruciati in una sola giornata nei mercati borsistici di tutto il mondo, ma del futuro di una intera generazione, di cui si sta facendo scempio, non parla nessuno? Questa giovane donna tremante, intimidita dalle telecamere, strozzata dalla disperazione e dalla rabbia, è l'immagine speculare dei rampanti che hanno giocato con i nostri soldi, ma, soprattutto, con la vita, nostra e dei nostri figli.
Impunemente?

PER CAPIRE E CAPIRMI?

Avevo preso appuntamento con un impiegato del “ Libraccio “ e, tra poco, i ragazzi mandati a imballare e caricare i libri, che avevo venduto al negozio, sarebbero arrivati: li stavo aspettando.
Seduta su una poltrona, mi guardavo attorno, lasciando scivolare lo sguardo sulla vecchia scrivania ingombra, come sempre, di carte, sul divano un po’ logoro, che ultimamente era diventato la mia cuccia, e sulla grande libreria che, fino a quel momento, avevo evitato di guardare.
Ormai, la decisione di sbarazzarmi di tutti quei libri era stata presa. Potevo concedermi il lusso di prenderli in mano e dare la stura ai ricordi. Ogni libro di quegli scaffali aveva sottolineato un momento della mia vita: una scelta, un’emozione, una scoperta, un regalo di compleanno, un pomeriggio d’inverno accucciata sotto una coperta a leggere, o la luce liquida, snervante, di quelle giornate estive che non ne vogliono sapere di arrendersi alla notte.
I libri: la mia passione e il mio orgoglio.
Quando avevo scoperto la lettura? Qual era stato il libro che mi aveva aperto le porte di un mondo alternativo, l’isola ignorata dalle mappe, il luogo dove poter fuggire senza rischiare di essere riacchiappati?
Quale fu il primo libro che lessi? Lo possedevo ancora oppure l’avevo perduto in uno dei tanti traslochi fatti? Frugai nella memoria, rivedendomi nella casa della mia infanzia, nella camera da letto dei miei genitori, accovacciata sul pavimento a leggere, in fretta, divorata dall’ansia, dopo essere riuscita con fortunose ricerche a trovare il regalo che mia madre aveva acquistato per il mio compleanno. Nel pacchetto, che avevo aperto, un libro: Hans Christian Andersen, Il brutto anatroccolo. L’avevo divorato con quella curiosità davanti alla parola scritta che mai più mi avrebbe abbandonata.
Chiedendomi dove fosse finito, cominciai a cercarlo con ansia.
Eccolo: era nell’ultimo ripiano in alto, dove non riuscivo mai a spolverare. Lo conserverò per leggerlo a un mio eventuale nipote, pensai. Non si può crescere ignorando le favole di Andersen.
Non essendo riuscita a soddisfare le mie aspettativa con i figli, mi sentivo pronta a ritentare con i nipoti. E’ proprio vero che capire non significa cambiare. Che ne sapevo di ciò che un bambino del Duemila avrebbe dovuto conoscere o non conoscere?
Io, ad esempio, non avendo ricevuto un’educazione letteraria avevo letto di tutto. Addirittura, da bambina, aspettavo sempre ansiosamente il ritorno di mia madre, per gettarmi sui fogli di giornale in cui veniva avvolta la spesa. Toglievo l’insalata, scartavo le arance, spianavo il foglio con cura e… leggevo!
A scuola, negli ultimi anni, mi ero sottratta alla noia di interminabili lezioni di ragioneria isolandomi nella lettura, di nascosto sotto al banco, dei romanzi di Wilde, Hemingway e Steinbek.
Eccoli, nel ripiano in basso, accanto ai libri di cucina, di macrobiotica e medicina orientale, mescolati con alcuni volumi che trattano argomenti di femminismo. Mi soffermai, con le mani diventate di colpo fredde e sudate, su uno in particolare. Era partita da lì, dalla lettura di quel libro, la mia presa di coscienza femminista? No, prima c’erano stati lo sconcerto e la rabbia.
Mio figlio aveva pochi mesi. Non dormiva di notte e io con lui. Mi era stato diagnosticato un “ esaurimento nervoso” . Il mio medico mi aveva indirizzata da un neurologo. Ricordavo bene le sue parole, a conclusione della visita:
“ Signora, lei è diventata madre, ora i suoi progetti di lavoro dovranno essere accantonati. Il suo compito, da questo momento, sarà quello di occuparsi di suo figlio“.
“ Anche mio marito è diventato padre e ha appena accettato un’offerta di lavoro che lo obbligherà a lunghi soggiorni all’estero “ avevo risposto, un po’ incerta, sentendomi avvolgere da una lunga occhiata densa di malcelato disprezzo, come se non capissi o, peggio ancora, fingessi di non capire. Io non mi ero data per vinta e, pur sentendomi molto a disagio, avevo ribattuto:
“ Io mi sono appena laureata, mentre mio marito ha interrotto gli studi. Vorrei tentare di conciliare la famiglia con il lavoro e mio marito potrebbe o, meglio, dovrebbe aiutarmi. Mio figlio dorme poco ed io sono stanchissima, ma voglio lavorare come sta facendo lui. Questo bambino abbiamo deciso insieme di averlo. Amo mio figlio e mio marito, ma non voglio essere soltanto una madre e una moglie “.
Finalmente ero riuscita a dire ciò che pensavo, a sintetizzare in quella frase il valore dei miei affetti, ma anche il mio valore, che intendevo mettere in gioco.
La voce dell’uomo, seduto davanti a me, aveva tagliato l’aria , azzerandomi:
“ La sua angoscia dipende dalla sua immaturità. Cominci con tre pillole al giorno, poi aumenteremo la dose. Vedrà che l’aiuteranno a crescere ”.
“ Le pillole deve prenderle anche mio marito? “avevo chiesto, prima di essere sbattuta fuori con malagrazia. Mi ero ritrovata, tra le mani la boccetta delle pillole, confusa e avvilita, nell’anticamera dello studio, pensando, mio marito lontano e la mia famiglia in un’altra città, che sarei stata sola, sola con quel bambino spaventato come me, sola ad affrontare un’altra notte, nell’attesa delle prime luci dell’alba, passeggiando lungo il corridoio.
Il libro che tenevo fra le dita lo lessi anni dopo, qualche mese dopo il mio divorzio.
L’ondata femminista, partendo dall’America, aveva investito il nostro Paese e, leggendo quel libro, ebbi la conferma che, di tutto, avrei avuto bisogno nei primi mesi della mia maternità, ma, certamente, non di pillole, che mi erano state prescritte soltanto per “ Tenere calmi gli indigeni “ come avrebbe esclamato il personaggio femminile di uno dei romanzi che più avevo amato.
Ma il femminismo fino a che punto mi aveva cambiata? Fino a che punto, come nel caso della macrobiotica o della medicina alternativa, mi aveva fornito solo un alibi per evitare di affrontare, in modo diretto, il mio profondo malessere?
Era stata comunque una stagione esaltante, necessaria per arrivare almeno alla consapevolezza, un momento nel quale ogni domanda sembrava, improvvisamente e miracolosamente, avere trovato una risposta. Quanto avevo letto in quegli anni: Marie Cardinal, Anna Del Bo Boffino, e, lasciando scorrere il dito sul dorso dei libri: Bellotti , Dowling, e… Friedan la grande Friedan: Mistica della femminilità!
Per quanto tempo mi cullai nell’illusione che, per essere felice, sarebbe stato sufficiente non mangiare carne, ingurgitare riso e pane integrale e pensare che gli uomini, tutti, fossero sciovinisti e maschilisti?
Il tempo passava, mentre io giravo e rigiravo tra le mani libri di narrativa, poesia, saggi, sistemandoli negli scatoloni per poi riprenderli e ricollocarli negli scaffali, al loro posto, in un andirivieni senza sosta e senza senso. Ero ormai all’apice della confusione quando lo sguardo mi cadde sullo scaffale dei libri per bambini.
I miei figli non erano più bambini, almeno a livello di età anagrafica. Due di loro erano già usciti di casa, senza avanzare pretese su quei vecchi libri. La più piccola, ancora con me, si era addormentata, annoiata, persino su Topolino.
E qui cosa c’era? I libri che avevo letto per il mio lavoro. Ah, questi li avrei gettati via tutti, e subito! Ero stanca di fare l’insegnante, non sapevo più cosa fosse giusto insegnare né ai miei figli, né a quelli degli altri.
Non avevo più certezze, ma soltanto paura e…rabbia. Sì! rabbia nei confronti di coloro i cui nomi ritrovavo stampati sulle copertine dei miei libri. Eccolo!, l’autore americano che pontificava sull’educazione dei bambini; recentemente si era scusato con i lettori.
“ Forse ho sbagliato “ aveva ammesso.
Perché non mi ero fidata del mio istinto, del buonsenso di mia madre che, dubbiosa, mi guardava scuotendo la testa? Perché non avevo trovato dentro, nel profondo, quel filo rosso che lega senza soluzione di continuità, le figlie alle madri, alle nonne, alle bisnonne, dando vita a un sapere femminile che, se facciamo attenzione, sussurra e canta dentro di noi, indicandoci la strada?
Questi libri li scaraventai con violenza nel sacco ai miei piedi.
“ I libri leggili pure, solo ricorda che un libro è un libro e che devi pensare con il tuo cervello “ Gorkj scrisse in uno dei suoi racconti.
L’avevo dimenticato?
Ancora uno scaffale da controllare ed, eventualmente, vuotare: ancora narrativa e poesia. Ecco Neruda, Montale, Ungaretti, Quasimodo…
Quante ore passate su questi libri. Quale il motivo o i motivi di questa passione? Per anni, mi sembrò sufficiente rispondermi “ Per capire e per capirmi “.
Davanti alla mia scelta di liberarmi dei miei amati libri questa risposta, ora, mi appariva falsa. Magari avessi valutato criticamente! I libri erano stati la mia droga, il mio modo di scappare dal mondo. Forse, e non paradossalmente, avevo letto proprio per evitare di capire.
Era arrivato il momento di farlo? Di togliermi di dosso tutti gli alibi che quei libri mi avevano aiutata a costruire? Era arrivato il momento di affrontare i fantasmi, di snidare i segreti dagli angoli bui nei quali li avevo relegati? Prendere per mano mia figlia e, insieme a lei, guardare in faccia il mostro, quel mostro che aveva spento i suoi colori, si era succhiato la sua allegria, la sua giovinezza e ora, ora voleva anche il suo futuro. Non c’era libro al mondo che avrebbe potuto darmi il coraggio di farlo. Ormai l’avevo capito.
Il suono del campanello interruppe le mie riflessioni. I ragazzi del LIBRACCIO erano entrati, iniziando subito a imballare gli scatoloni. Erano tutti studenti universitari. Scherzavano con mia figlia, alla quale non avevo confidato nulla di ciò che mi passava per la mente, giustificando la vendita dei libri con motivazioni economiche legate alla malattia della sorella. Lei, che aveva intuito qualcosa, mi guardava dubbiosa, anche se fingeva di scherzare per alleggerire l’atmosfera.
Quando i primi scatoloni, gonfi di volumi, imboccarono la porta di casa, incominciai a singhiozzare senza ritegno. Incurante dell’imbarazzo di mia figlia, pensavo che non li avrei mai più ritrovati, che si sarebbero persi nei meandri di questa grande città, che stavo soltanto aggiungendo un altro dolore a quelli che già mi dilaniavano. I ragazzi mi guardavano un po’ imbarazzati, ma io ero disperata. Si stavano portando via la mia isola che non c’è, il mio ultimo frammento d’infanzia, le mille vite di cui mi ero nutrita per non pensare alla mia, le storie e le fole che mi avevano fornito incrollabili alibi.
Ora la libreria era quasi vuota, ridotta all’osso, come la mia anima.
Nella foga, uno degli studenti, ridacchiando e guardando Afra, la mia ragazza, con occhi golosi, aveva distrattamente imballato anche “ Anna Karenina “.


Questo libro l'avrei ritrovato, miracolosamente restituitomi dal destino che, per cambiare la nostra storia, segue strani e imperscrutabili sentieri, alcuni anni dopo, su una bancarella di libri usati.
Sulla prima pagina, con la grafia tonda e infantile di mia figlia, una dedica “ A mia madre, perché ricordi, come scrive Tolstoj, che tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo “.
La brezza soffiava leggera sulla darsena, zeppa di bancarelle colorate.
“ Ci facciamo una pizza? “ e poi, a bassa voce: “ Ricordi mamma? “
Tra le braccia stringe sua figlia, mia nipote.
E come potrei non ricordare?

martedì 7 ottobre 2008

Barbara, nomen omen

Cara Barbara Berlusconi, mi permetto, solo perchè potrei, per età, esserti madre, di darti alcuni consigli.
Hai avuto la fortuna, tale considerata dai più, di nascere in una famiglia tra le più ricche del reame. Nata da un padre potente e una madre bella e dedita ai figli, attorniata da fratelli e sorelle titolari di incarichi prestigiosi nella galassia di società che fanno capo a tuo padre, hai avuto in dono, da madre natura, come se tutto questo non bastasse, un fisico più che accettabile e una graziosa testolina. La mamma, saggiamente, ti ha tenuta lontana dagli schermi televisivi che hanno fatto la fortuna di papà, facendoti crescere in scuole prestigiose, sconfinati parchi verdi che, nella magione di papà, hanno accolto i tuoi giochi infantili, sorvegliata da guardie del corpo, allietata dalla compagnia di cani di razza e amichetti della tua stessa estrazione sociale. Ti sei iscritta alla facoltà di Filosofia: eh già, hai privilegiato il mondo dei valori, chè, a te, i mezzi non sono mai mancati.
Sei anche diventata madre...


E allora, cara Barbara, un po' di discrezione!
La morale, eh, la morale...
Personalmente mi ha distrutto la vita.
Convenienza e morale non vanno d'accordo.
Affari e morale, ancora meno.
Denaro e morale, poi, fanno a cazzotti.


E tu, Barbara Berlusconi, abituata fin da piccola, all'odore dei soldi ci hai fatto il naso?
Il denaro si spende, non si annusa, presumo mi ricorderesti, perchè, se lo facessimo, potremmo cadere secchi al suolo, come nello spot che pubblicizza calzature che fanno respirare il piede. E, inoltre, il denaro quanto più si accumula, tanto più puzza.


Finchè si tratta di giocare alla signora impegnata,nell'associazione di cui sei presidente, vicepresidente(?), tra i figli di papà che vi hanno aderito, beh, te lo concediamo.
Però, cerca di non esagerare! Suvvia,ti ripeto, un po' di discrezione. Mamma Veronica se la merita per tutto il tempo e il denaro profusi nel tentativo di darti un'educazione.


Sai, Barbara, affari e morale,come ti ho già detto, mal si conciliano. Un fra' Francesco, quando decise di criticare i principi su cui si reggeva il mondo dal quale proveniva, per prima cosa si spogliò. Di tutto, compreso l'abito che indossava. E si era in pieno inverno.
Ti ripeto, Barbara Berlusconi, lascia perdere i discorsi sulla morale, chè, questa parola sulle labbra di una Berlusconi suona, a dir poco, stridente e, come ti direbbe quella buon'anima di mia nonna, "non sputare nel piatto in cui mangi".


Non è chic!

venerdì 3 ottobre 2008

Cambiamenti

" Alla tua età è difficile, quasi impossibile entrare nella logica del computer " mi dicevano, eppure io ci mettevo un'ostinazione difficile da capire anche per me che la vivevo. Sentivo, captavo l'esistenza di un collegamento tra la mia passione per la scrittura e l'uso del pc.
Chi scrive è curioso: di vite da tradurre in storie, di sentimenti da descrivere. La sua curiosità lo induce a ficcare il naso dappertutto, a frugare nelle pieghe del mondo, a origliare non visto, a osservare con grande attenzione la realtà che lo circonda per consentirgli di creare un fantastico verosimile. E' quindi normale che colga con maggiore immediatezza e acutezza i segnali di cambiamento della società in cui vive, ai quali la sua fantasia potrà dare sbocchi mutevoli. Non a caso chi scrive sembra, a volte, essere dotato di capacità divinatorie, ma, in realtà, è la sua abitudine a creare il verosimile che può farlo credere.


Ignorare l'uso del computer, oggi, equivarrebbe, a non avere mai visto una trasmissione televisiva quarant'anni fa. Si può fare, ma isola in un mondo che appartiene al passato, e di cui si conservano i moduli comunicativi e le caratteristiche. La mia curiosità si è soddisfatta sui libri, che mi hanno dato cultura e divertimento. Altre contaminazioni non riuscirei a cogliere.



Il computer che cosa mi sta dando?
Al'inizio, e parlo di mesi, angoscia, il senso frustrante della mia stupidità, una logica che sentivo estranea, in aperto conflitto con tutto ciò che aveva caratterizzato, fino a quel momento, la mia vita. L'istruzione, che serve a ridurre il numero di passaggi logici che possono essere dati per scontati in una discussione, diventava barriera e limite alla comprensione di fronte alla "bestia", solida e stolida, con la quale non si può dare nulla per scontato, ma che, come uno stambecco di montagna, è in grado di andare avanti,instancabile, balzando velocissimo di roccia in roccia, sciorinandoti di fronte il mondo. Il computer, assolutamente consequenziale, mai casuale.


Coglievo in chi mi stava accanto, in primis due dei miei figli, una diversità, rispetto alla terza figlia che si rifiutava di usare il pc, che si manifestava in tanti particolari.
Il computer era cultura, divertimento, informazione, comunicazione, scambio, fruibili in contemporanea, velocemente e facilmente. Un minuto qui e un minuto lì, mentre canta Gianna Nannini, si accende l'icona di skipe e un'immagine invade lo schermo.
Tutto corre, scorre mischiandosi in una realtà che non è reale ne immaginifica: è virtuale.
E' il vero in versione informatica, collocato in un tempo... oh, il tempo non si sa quale sia, ma si sa che è veloce. Non ci si sofferma se non un istante, perchè si deve cogliere una tendenza, come si estrapolasse una curva da una serie di dati e questi presi uno a uno non avessero significato.


Cambia il linguaggio: diventa incisivo: si scrive soltanto quello che ai miei tempi si sottolineava. Frasi lunghe: bandite! Descrizioni: condensate in un aggettivo, perchè qualcosa ti alita sul collo, ti spinge. Perché descrivere ciò che si può far vedere? Il mondo è grande e vogliamo vederlo tutto.
E gustare un tramonto o il sapore di una pioggia d'agosto?
Un lampo di montagne e mare e cielo, e via.... Per animarli, che deriva da anima - non dimentichiamocelo - un video. Per me il video muove, ma non anima. E chi lo dice che l'anima non si stia cercando un altro habitat? Un luogo diverso per un'anima differente.
Un non luogo che, nell'immagine, nel movimento, in una musicalità che il metodico urto della musica da discoteca ingabbia in marcia cadenzata, sia capace di annullare i confini.
Intravedo un mondo da spettatrice su un otto volante. Se chiudo gli occhi potrebbe sembrare una visione onirica. Sogni virtuali e sogni reali. L'ultima contaminazione? Il confine, come concetto si fa labile... Cristo ma è questo il traguardo di chi scrive! La tecnologia lo consente. Abbiamo trovato un habitat nuovo per l'anima tecnologica?

mercoledì 1 ottobre 2008

Ancora sul blog.

Ragazzi, oggi ho scrittto il mio centesimo post.
La mia grafomania deborda, ma il web è un mare, anzi un oceano pronto ad accogliere tra i suoi flutti, anche le mie parole. In un bla bla assordate cosa fanno 100 miserabili post? Un sussurro, un alito di vento. Altro che lifting! Altro che antidepressivi: aprite un blog! che, oltre tutto, è privo di effetti collaterali. Invece di non farti pensare, imbambolato e emotivamente sedato, aggredendoti sui tuoi pensieri fissi maniacal/ossessivi, ti stuzzica, ti sollecita, ti risveglia, ti spedisce fuori, letteralmente, nel mondo, a chiacchierare di ciò che ti è più congeniale.

Nessuno ti ascolta? Perchè a 80 euro per venticinque minuti di supporto psicologico, disteso su un lettino, voltando le spalle all'analista - geniale Freud, non c'è che dire, anche nella scelta dell'ambiente e del posizionamento - ti ascolta qualcuno? E se sbirciando alle tue spalle cogli lo psicanalista a palpebre abbassate? E' per concentrarsi su ciò che emerge dai tuoi monologhi? No, è per farsi un bel sonno, tanto sei tu, paziente, che devi, raccontando, cogliere le contraddizioni, calarti nel pozzo senza fondo dei ricordi a recuparare brandelli di vissuto da incastrare uno accanto all'altro per farne un bel puzzle.
Prezzo, a lavoro finito, ammesso e non concesso che si finisca? Sorvoliamo!


Il blog è il regno, incontrastato, della parola: si nutre, si alimenta, s'ingozza di parole.
Ecco, il problema forse è proprio questo: non c'è un filtro. Ma dove c'è, è valido? Il bla, bla televisivo chi lo filtra? E soprattutto in funzione di quali obiettivi si effettua la cernita? Idem per i giornali. Qui è come sui banchi dei mercati di strada: hai davanti un'accozzaglia di robaccia, dentro la quale devi mettere le mani e cercare. E spesso, io sono una patita dei mercatini, puoi trovare qualcosa di bello, strano, originale. Costo: di un caffè al bar. Quindi dal blog, se uno aguzza l'orecchio, sale un mormorio, confuso nel bla, bla,una musica nuova che potrebbe diventare canto, che - chissà! - potrebbe essere diversa e... spontanea, non orchestrata dall'alto.
Vi sembra poco?


Il blog è libero, ancora libero in una società astuta che ha sostituito la libertà con la sua rappresentazione. Essendo libero è creativo. Nel mio primo e esitante post ho parlato di una stanza virtuale, facendo mio il bisogno di uno spazio che mi appartenesse, perchè più si riduce la spazio fisico più la fantasia ha bisogno di prendere il volo.
E se a qualcuno il tuo blog non andasse a genio? Clicca e passa oltre. Non ti legge. Viceversa ti lascia un commento, si presenta, ti comunica il suo indirizzo. E' un blablagare molto più gratificante, vitalizzante e tonico. In fondo, anche se dici delle cavolate, ti tollerano, ti consentono ( anche quelli che non sopportano Berlusconi) di esprimere il tuo parere. Spesso non lo condividono, ma te lo spiegano, dedicandoti un'attenzione che in famiglia te la raccomando.
Se grugniscono - i figli - è già molto, uno scambio di opinioni te lo concedono a Natale, quando sanno che sotto l'albero c'è il regalo.


Quando si discute, qualche volta succede, essendo tutto scritto - carta canta e villan dorme, non ti possono dare della visionaria, accusandoti di esserti inventato una certa frase. E' un po' come in un commissariato di polizia: " la qui presente a domanda risponde..." e ciò che dici assume una valenza, un'importanza che ti gratifica. Il concetto della traccia, sia pur lieve come bava di lumaca, riscalda il cuore di noi poveri e polverosi mortali destinati alla dissoluzione.

Quasi, quasi lo suggerisco al mio analista che ho incontrato, in metrò, che fissava muto, tetro, il viaggiatore accanto a lui. Quando gli ha chiesto:" Che ne pensa della crisi finanzia.. " quello, scocciato, ha fatto un passo avanti e si è messo a fissare il vuoto, fuori dal finestrino, quasi sperasse in una materializzazione, nel buio, di Valeria Marini. A furia di bla, bla, anche se percepiti soltanto come rumore di fondo, è andato un po' fuori di testa anche lui. Gli ho infilato in tasca l'indirizzo del mio blog e, muta, gli ho fatto un cenno di saluto con la manina. Era conciato proprio male!