giovedì 28 agosto 2008

Ancora sulla scrittura

La scrittura è un’avventura che mi svuota di tutto il ciarpame che la vita, quasi fossi una discarica a cielo aperto, mi ha scaraventato dentro, obbligandomi, novella abitante di una favela, a frugare, a passare e ripassare pezzo per pezzo, alla ricerca di qualcosa da salvare.
A volte, mi consente di scoprire anche tesori: la gente oltre a buttarsi via, elimina le cose più incredibili. E allora, ecco un ricordo, rimasto intatto, imprigionato nella memoria involontaria, una sensazione, un’emozione… Cristo, qui cosa c’è? Rabbia?
La rabbia, come tutti i rifiuto tossici, è pericolosissima. Per quanto imballata, contenuta e rimossa risulta indistruttibile: cola, invade, corrode contaminando tutto ciò che sfiora. Se non erutta subito, spegnendosi come un lapillo in mare, degenera in depressione, sfuma in tristezza, malinconia tenace che si attacca all’anima come un cane agli stinchi.
Per questo occorre snidarla, portarla in superficie scoprendone le motivazioni, i sussulti, individuandone l’anima segreta per poterla placare, ammansire. La dobbiamo trattare con i guanti, filtrandola attraverso la saggezza che l’età regala, piccolo modesto obolo lasciato nelle nostre mani dal tempo che ci deruba di tutto ciò che siamo stati, lasciandoci vuoti e raggrinziti ad attendere l’ultimo insulto.
I ricordi, ah i ricordi…Questi hanno profumi antichi, e la scrittura li ripulisce, li lustra ridando loro una vita, facendoli risplendere grevi di passato, ma capaci di anticipare un futuro, che, il tempo è solo una convenzione e alla scrittura basta togliere un “era” e tutto “sarà”.
Comincia come un gioco la scrittura...  poi, esaltandosi, può diventare passione, e come tutto ciò che eccessivo deborda può degenerare in ossessione.
E allora si fruga dentro di sé alla ricerca di qualcosa che non si sa nemmeno cosa sia, ma si spera possa esserci. Si scava fino a spezzarsi le unghie, rovistando nell’immondizia che contiene la parola che darà il giusto ritmo, la dovuta bellezza a ciò che scriviamo.
Se e quando si riuscirà a trovarla, si riaffiorerà increduli e per un istante, un istante soltanto, si dimenticherà di avere fame, di essere sporchi e stracciati.
Vestita, sfamata e gratificata dalla scrittura, anche se in mezzo al pattume, in quel momento, io mi sentirò una regina!

sabato 23 agosto 2008

E di nuovo sono donne a morire

Anche qui, dove tutti si conoscono, almeno di vista, dove ci si guarda, incontrandosi, in faccia e ci sono tempo e voglia per bere un caffè insieme al bar e fare quattro chiacchiere; anche qui una mattina qualcuno si è alzato e ...ha ucciso.
E, di nuovo, sono donne a morire: madre e figlia.
E, di nuovo, quel sostituto imperfetto della clava, che è il diritto, non serve. Come non sono serviti medici, psicologi, parenti, amici e preti.
Il lato oscuro che è in noi, in tutti noi, ha preso il sopravvento. Il senso del possesso, già foriero di inutili schiavitù quando si allunga sugli oggetti, ha inglobato le persone facendone cose, cose di cui si può disporre, come e quanto si vuole. Cose che non si possono ribellare in nome di un'autonomia che non riconosciamo loro - che non possono e non debbono avere - perchè, ripeto!, sono nostre.
E allora si ha la sensazione che la cosiddetta natura umana sia la peggiore all'interno del Creato e, soprattutto, che non esista nulla per modificarla, per correggerla, quando si flette, si accartoccia su se stessa in un monologo che diventa, deve diventare ossessivo, alimentandosi solo di pensieri che ruotano su se stessi e tarlano l'anima.
E noi, cosiddetti normali, per difenderci dall'orrore, parliamo di "raptus", ipotizzando un blackout della coscienza che giustifichi ciò che è ingiustificabile. Forse, mai come in certi momenti, emerge, in tutto il suo potenziale umano devastante, l'altra faccia di questo bipede intelligentissimo e micidiale che è l'uomo. Impastati in eguale misura di bene e di male, di vita e di morte, di ferocia e altruismo, possiamo fare una cosa soltanto addossandocene la responsabilità: scegliere.

martedì 19 agosto 2008

Nostalgia di Trieste o della giovinezza?

Perchè, fra le diverse città in cui sono vissuta, è Trieste che ho scelto per darmi un'appartenenza? " Da dove vieni?" mi chiedono e io, prima ancora di pensarci, me ne esco con quel "Sono triestina", pieno di orgoglio e di malinconia. Non vivo più da molti anni in quella città ma, quando mi alzo al mattino e sento soffiare il vento, che non è il mio vento, è solo uno stormir di fronde o una corrente d'aria che fa volare qualche calzino appeso ad asciugare, io chiudo gli occhi e mi sento a casa.

Rivedo il terrazzo dal quale lo sguardo spaziava sul mare, spalancandomi davanti un orizzonte azzurro solcato dalle sagome scure delle navi al largo, increspato di onde ricciolute, piatto come uno specchio a riflettere il cielo, spezzato e frantumato in blocchi d'acqua che si schiantavano in mille schizzi quando il mare urlava tutto il suo furore e il vento mi portava la sua voce fin lassù.

Erano le giornate in cui le favole che raccontavo ai bambini parlavano di naufragi, di abissi tenebrosi, di sirene impazzite d'amore, di balene a zonzo per gli oceani. Loro, i bambini, gli occhi spalancati per l'eccitazione, mi chiedevano " Il mare e il vento si scontravano in lotte all'ultimo sangue come oggi...mamma" e io assentivo, fingendo che il palazzo fosse sul punto di volar via, con le tapparelle che gemevano e soffi di vento che s'infilavano dappertutto animando la casa che sembrava resistere a fatica a quegli attacchi. I bambini non dormivano, i vecchi s'indispettivano e le giovani donne diventavano inquiete in quelle giornate in cui la gente si aggrappava ai sostegni infissi nei muri, lungo le strade che salivano sfidando le leggi di gravità, e il cielo si colorava di ombrelli rivoltati che volavano via, come aquiloni improvvisati, decisi a prendere la via del cielo.

E' il vento che dà "morbin" alle "mule" triestine e rende ironici i nostri uomini? Non lo so, ma penso che le città che s'affacciano sul mare, diano la sensazione di avere sempre una possiilità di fuga a quei topini di Laborit che siamo noi esseri umani.

Di Trieste ho amato il dialetto, lingua in cui ancora piango, impreco e canto, anche se mia madre, giudicandolo volgare, da bambina me lo proibiva, e io, ribelle per natura, lo usavo per scrivere i miei diari.

Ho amato i sentieri aspri del Carso che, tra vigneti contorti e stentati che sembravano crescere sulle rocce, salivano ampliando paesaggi fatti di mare, pietre bianche, pini marittimi, faggi, querce e cespugli di sommacco multicolori che sprofondavano nelle doline dove il vento s'accucciava, ansando come un cane stanco d'inseguire il padrone.

Forse, a voler essere sinceri, amo Trieste anche perchè s'intreccia, si aggroviglia, per me, a quell'età in cui tutto sembrava possibile, quell'età in cui si spaziava, si amava, si odiava con lo stupore attonito che accompagna ogni esperienza nuova. La Trieste di quegli anni, la fine degli anni Sessanta, fu il luogo fisico di questa scuola di vita. In quella città m'illusi di avere il mondo in mano e, come molti giovani di allora, pensai che avremmo potuto anche cambiarlo. In una chiesa battuta dal vento, con "cocai" istupiditi di sole mi sposai, convinta di aver trovato un compagno per la vita. Sotto quel cielo nacquero i miei figli...

Trieste è, per la sua storia, città che si volta indietro, che ricorda, che vive le illusioni come speranze, che rimane lì, immobile, tagliata fuori, orgogliosa di un passato che si vorrebbe trasformare in futuro. Città di anziani, ne ha assimilato le caratteristiche, tra cui quell'aria disincatata che la porta a considerare ogni novità come un "dejà vu ".

Egoisticamente, amo il suo immobilismo che me la fa ritrovare intatta, eguale a distanza di anni, ancorata ai suoi miti, con le sue "mule" così belle, così fiere e indipendenti, con quel gusto della battuta, del "vitz" e quella sapienza che il triestino ha nel privilegiare il vivere al costruire.


E, alla fine, potrei dimenticare la cucina triestina dove ogni piatto ha una storia e un profumo che evocano valzer viennesi, scimitarre turcomanne o violini tzigani, riportando alle linee di demarcazione che, alimentando rimpianti e malinconie senza fondo, incidono la terra e l'anima? Ed è così che mi piace pensare di essere fatta: di mare, di roccia e di vento mischiati tra loro, ma separati da un'anima- che nel mio caso non può che essere in tormento - non mediazione tra corpo e cervello, ma separazione tra razionalità e istinto che si contendono una impossibile unità.

giovedì 7 agosto 2008

TRIESTE E JOSEPH ROTH

Roth è un cognome ebraico che sembrerebbe inchiodare chi lo porta alla scrittura.
Joseph, tra i Roth scrittori, è il mio preferito, e come potrebbe essere diversamente? In lui ritrovo il rimpianto di un mondo perduto, quello stesso mondo che, nel 1918, pochi giorni dopo la sconfitta, si riversò sulle bancarelle del ghetto ebraico della mia città: Trieste.
E allora i magazzini traboccarono di mobili biedermeier, cristalli di Boemia, porcellane tedesche, mentre intere biblioteche venivano messe in vendita, denunciando la cultura raffinata dei funzionari austriaci, mandati da Vienna, previa un’accurata selezione, a reggere una delle più turbolente province dell’impero. In quella Trieste dove i morti riposano in sette diversi cimiteri e molte, troppe bandiere differenti avrebbero nei trent’anni successivi sfidato il vento a braccio di ferro, l’identità è sì una scelta d’appartenenza, ma legata a cosa? Al profumo di una fetta di presniz, a un nonno austriaco o croato o sloveno che aiutava a fare i compiti o raccontava favole nel suo dialetto, a una gita in barca, a una passeggiata sul Carso quando il sommacco cambia colore o fioriscono le ginestre e, in quella terra di confine che separa l’Occidente dall’Oriente, si mangiano dolci dai nomi aspri come la crudeltà che secoli di dominio turco ha inciso nei tratti e nell’anima della gente slava che vive a cavallo del confine.
Troppe chiese per pregare, troppi rancori non dichiarati, troppi dialetti, e cibi che hanno nomi impronunciabili, e donne che sono le più libere e fiere del Mediterraneo, troppo vento, troppo azzurro in quel mare che si fonde con il cielo. Ma Trieste non amalgama, non fonde, non è certo crogiuolo ( come affermava anche uno dei suoi figli più raffinati, quel Bazlen che ne traccia un ritratto fedele e accorato) di razze né culture.
Permangono antichi e nuovi rancori, la sensibilità della decadenza, il ricordo del passato in cui ci si rifugia per non affrontare un presente ma, soprattutto, un futuro che fa paura, che potrebbe non esserci.
“Viva là e po’ bon” affermano i triestini, riassumendo in questa frase il loro particolare senso del presente come unica realtà vivibile
Alla nascita ti hanno dato in dono catenine d'oro e malinconia slava, superstizioni e proverbi, che sono la filosofia di chi non ha avuto tempo o soldi per andare a scuola.
La sensazione di precarietà e l'ansia che ne consegue affinano l'orecchio a cogliere i segnali del crollo definitivo. Il bisogno di ordine cozza contro il desiderio di anarchia, ci si rifugia nelle certezze per poterle sbriciolare. I figli dell'Impero, che ne hanno succhiato gli umori, si sono intossicati dei suoi miasmi.
In Roth affiora il senso costante della perdita di un mondo e dell'acquisizione forzata, meccanica di un altro, dove colori, suoni e umori sembrano sempre fondali di cartapesta allestiti alla meno peggio per uno spettacolo in parrocchia.
Per questo Roth mi è fratello e padre.