domenica 25 maggio 2008

Babsi Jones e Doris Lessing

" Il sogno più dolce " di Doris Lessing è stato il libro che ho letto dopo " Sappiano le mie parole di sangue" di Babsi Jones. I sogni che l'una, anche se infranti, ha avuto la fortuna di concedersi, si contrappongono agli incubi, grondanti lacrime e sangue, dell'altra.
La protagonista del libro della Lessing è ancora, come molte donne della sua generazione( e forse anche parecchie di quella attuale)condizionata dal rapporto avuto con l'ex marito, il compagno Jonny, l'affascinante contestatore targato anni '70, che, inossidabile, approda alla vecchiaia scaricando sulla ex moglie figli, nuove compagne fattesi petulanti e astiose, e altri rampolli aggiunti dal seguito di nuovi amori.
Jonny, pugno alzato e sorriso che sottolinea gli applausi sistematicamente seguiti alle sue parole, osserva tutto dall'alto della sua ideologia, troppo impegnato a parlare di rivoluzioni fatte o da fare per potersi accollare i piccoli, banali problemi del quotidiano.
Lo sguardo di lui che spazia sul mondo a trecentosessanta gradi non può incontrare quello di lei, la moglie del compagno, che, appena nati i figli, non varca i limiti del loro appartamento.
Pure lei lavora - Jonny è, a tempo pieno, al servizio della rivoluzione - ma anche legge e studia , e, tra un pranzo da preparare e una cesta di biancheria da stirare, scrive. E pensa, anche se, a differenza del compagno Jonny, pensa parecchio, ma parla poco.
E' una donna generosa, che dà e si dà, relegando per anni all'ultimo posto della graduatoria i suoi bisogni e i suoi desideri, subendo le aggressioni dei figli che , come saggiamente ma dolorosamente intuisce, non possono che prendersela con il genitore presente.
Accanto a lei la madre del marito, ancorata ad una concezione borghese, più formale che sostanziale, della vita, ma capace di adattarsi a un mondo diverso che soltanto la sua umanità, che i problemi e le delusioni non sono riusciti a indebolire, riesce a farle accettare razionalmente.
La Lessing delinea due figure femminili comunque forti nella loro deblezza, anche perchè inserite in un contesto socio-culturale privilegiato.
Poi le vicende del libro seguono uno dei personaggi, non di rilievo fino a quel momento, nel continente africano, quasi a contrapporre ai fiumi di parole, interessate e ambigue, dell'Occidente la fame e la disperazione dei Paesi sottosviluppati.
L'autrice sembra dire che quando lo stomaco è vuoto i pensieri ruotano unicamente intorno a questo bisogno essenziale. E' necessario avere lo stomaco ben pasciuto per concedersi il lusso di arzigogolare sui massimi sistemi, e qui si delineano le insormontabili divisioni: tra paesi, persone, appartenenze di genere..
Divisioni che accennano a contrasti essenzialmente verbali e, se sono guerre vengono combattute in silenzio, bandendo la violenza anche dal linguaggio usato.
E, a mio avviso, la parte meno convincente del libro, perchè il self-control inglese dell'autrice mal si adatta alla descrizione del disastro africano.
La Jones si cala invece, calzata e vestita, nell'orrore, nel massacro, nella distruzione della guerra: il corpo, in sintonia con il sangue dei vinti e dei vincitori, che sanguina e soffre. Tutto è rosso, sporco, infangato, infranto: tanto gli oggetti del vivere, o non vivere quotidiano, quanto le speranze, le ideologie, i sentimenti.
E il linguaggio è al servizio di questa furia.
La Lessing si muove in case inglesi, sullo sfondo di pareti tapezzate di libri e sete a fiori e uccelli,e - se qualche lacrima cola - è sugli arrosti e nelle teiere, riscaldate per il té alle cinque del pomeriggio, mentre l'ironia stempera il dolore, e la delusione immalinconisce, ma non divora e men che meno devasta.
Nella realtà del conflitto o dei conflitti all'interno dalla ex Jugoslavia, la Jones, spersa in un condominio semidistrutto, circondata da presenze spettrali e dolenti, rese folli o immemori dalla violenza di una guerra che si scontra con la presenza di aiuti umanitari, altrettando violenti nella loro tipologia predatoria, non filtra nulla, non nasconde niente, vomita l'indigeribile e lo vomita addosso al lettore.
La misura dell'una, che esamina, soppesa e stacca da sè, prendendo le distanze per autoconservarsi, per mantenere intatta l'immagine di sè che lei e gli altri hanno,
è l'opposta dell'irruenza dell'altra, che cerca l'inferno non per evitarlo ma per immergervisi. La debolezza di un mondo vecchio, stantio ma comodo e comunque rassicurante, che secerne apparente saggezza e accettazione e pazienza, forse perchè altro non potrebbe permettersi, contrapposta alla forza vitalistica di chi ha perso tutto e sfida la morte per una radio rotta o per lasciare un fiore su una tomba.
La Jones scardina un modo di scrivere, ne sovverte le regole, mescola i generi, forza, esasperandoli, i concetti: è un fiume in piena che porta ad un altrove che, personalmente, avevo solo intuito.
Vi consiglio la lettura di entrambi i libri, anche se diversissimi.
Forse in quelle cucine, in quei salotti, davanti a quelle ricche biblioteche troppi hanno abdicato ai propri principi,hanno finto di non sapere, o non capire.
Troppi, forse, hanno taciuto.

venerdì 23 maggio 2008

Donne d'ombra.

Una bambina.
Parla, gesticola con le mani, sottolineando ciò che dice.
E' un torrente in piena: sfida il fratello che le sta davanti a risponderle.
Gli si fa sotto, le parole usate come pugni. " Allora, dai rispondi, dai"
Lui tace, impacciato.
E' più grande, ma non possiede l'abilità dialettica di lei.
Lei che legge tutti i libri che la madre le compera, lei che possiede un'innata passione per le parole, lei che ha imparato a scrivere e leggere da sola, ascoltando sua madre che aiutava il fratello a sillabare riconoscendo suoni e segni.
Lui non risponde.
Lei ride, non sorride timida e riservata.
Ride. Di gusto.
E' allegra, sicura.
Intelligentissima.

Lui parla con voce ferma, sollevando appena un sopracciglio.
" Allora, rispondi " la esorta, flemmatico.
La voce di lei è leggermente stridula, mentre pronuncia le prime parole. " Non so
con precisione..."
" Informati, documentati " e la voce del fratello è dura.
Lei stringe tra le braccia la bambina che, contagiata dal nervosismo della madre, scoppia in un pianto inconsolabile.
L'altro figlio le si avvicina, si attacca alla sua gonna. " Giochiamo mamma ? "
Tace.
Davanti a lei suo marito e suo fratello chiacchierano.
Non sente bene di cosa.
Non si sente bene.
La neonata tra le sue braccia si è calmata.
" Favola " grida l'altro figlio.
" C'era una volta una bambina che aveva ricevuto in dono dalle fate, alla sua nascita, molte virtù, ma una maledizione: nel tempo, piano, piano, sarebbe stata destinata all'invisibilità. Avrebbe parlato senza essere più udita, mentre il suo corpo, sempre più chiaro, sarebbe sbiadito fino a scomparire.."
La sera cala sulla stanza.
Un altro giorno scivola nel passato.
La donna è un'ombra.
La sua voce: un sussurro.

mercoledì 21 maggio 2008

Il predatore

Il padre dei miei figli aveva un sorriso largo, bianchi denti da predatore in quel settembre che illanguidiva l'aria là, sulle doline battute dalla bora.
Io avevo bisogno di bugie, lui sapeva raccontarle.
La chiesa si accese d'oro che, brillando sulle immagini sacre, scivolò lungo la navata, trafiggendo la sposa, bianca di veli e di pallore.
Dietro, i parenti sussurravano, ali di cappello nascondevano gli sguardi, labbra serrate mormoravano inutili preghiere.
Il Cristo esalava l'ultimo respiro; sopra ogni cosa campeggiava la croce, sinistro simbolo di sofferenza.
" In salute e in malattia... "
" Finchè morte non vi separi "
" Amen ".

Digiunando

Ti ho preparato biberon di latte, minestre di verdure, frullati e spremute d’arancia. Perché non mangi, bambina mia?
Al tuo primo compleanno - le nonne vestite di colori vivaci, io nera d’umore e d’abito nella casa troppo piccola, troppo stretta per contenere tutta la mia voglia di vivere - affondasti le dita nella torta. Tuo padre sorrideva, annoiato. Io ti sollevai come un trofeo: la mia piccola Nike, la mia vittoria.
Perché non mangi, bambina mia?
Ti lasciai sulla porta dell’asilo, da ladra che fugge. I tuoi occhi che mi cercavano senza capire, sgomenti. Te lo spiegai con le mie poche povere parole che non ti bastavano, che ti ferivano… te lo spiegai che lavoravo.
Come i padri anche le madri lavorano.
Come i padri.
La cartella ti ballava sulle spalle e la mano era diaccia tra le mie, ma entrasti senza piangere nell’aula gialla di sole, la maestra che faceva l’appello, guardando oltre gli occhiali che io non tolsi : frignavo ignobilmente.
Poi il tempo volò, troppo rapido per contarlo, ricordarlo: tu e io ci limitammo a viverlo.
Perché non mangi, bambina mia?
Sei tornata da scuola e sei seduta davanti a me. Sui servizi all’americana fuma un risotto cotto a puntino, i panini sono caldi di forno, il gelato affoga sotto la panna.
Perché non mangi, bambina mia?
Perchè ti affami?
Perché? domando.
Tu non rispondi, mi sfidi digiunando.
Digiunando.

martedì 20 maggio 2008

Scrivere

Io scrivo.
Perchè perdere tempo travasando pensieri dal cervello al foglio? Perché non lasciarli dove sono, tranquilli, cheti ?
Ho cominciato a scrivere fin da piccolissima, subito dopo aver imparato a leggere, con le parole che, finalmente, non occorreva più compitassi esitante, ma bastava sbirciassi per identificarne il significato di primo acchito, quasi si trattasse di un ideogramma.
Prima le parole più semplici, dove lo stesso suono si ripeteva e, a volte, si rafforzava, ed ecco che pa-pa diventava pap-pa: amore e cibo in un sol colpo.
Poi nan-na e mam-ma: amore e riposo solo socchiudendo le labbra.
Quindi vennero le filastrocche, le letterine ai nonni, ai genitori e le dediche sugli album dei ricordi alle compagne di classe.
Seguì la lunga, interminabile stagione dei diari. E allora fiumi di parole per descrivere le inquietudini adolescenziali, la vita di famiglia: un minuzioso diario di bordo che, con pignoleria, recava traccia dell’orario dei risvegli, delle spese fatte, delle telefonate ricevute..
Una lunga stagione di apprendistato per descrivere anche sensazioni e sentimenti, anche se solipsisticamente personali. Ma una mattina, o una sera, forse d’inverno, forse d’estate, quando le giornate sono interminabilmente chiare, con cieli striati d’ali nere di rondini in volo, nel diario s’infilò un fatto, un’azione, un commento di fantasia: era l’inizio della fola, del racconto.
L'invenzione!
La passione della scrittura.
La tua storia che genera altre storie.

lunedì 19 maggio 2008

Amati figli, odiati barbari

Cari figli. Carissimi figli…ehm! Strapagatissimi figli. Lo sapevate che, in cambio della vostra serenità, ho rinunciato… A cosa ho rinunciato? Mia madre mi ha sempre detto che ho fatto tutto ciò che ho voluto. No, a questo punto diventa necessario procedere con ordine. Qualcuno imbroglia, qualcuno la racconta a suo uso e consumo.
Se vado a ritroso come un gambero, vedo bambini in pianto davanti a un giocattolo rotto, a un piatto di minestra di verdura senza sale, a una madre che, in fretta, come una ladra, s’infila nel corridoio e scappa, scappa con il loro pianto nelle orecchie, con il loro naso smoccolato che urla disperazione.
No, non vado a un appuntamento galante, sono grigia e anonima, giacca maschile, libri di tecnica sotto al braccio. Sono stanca perché ho preparato le lezioni, persa tra le brume del mattino, un caffè amaro che brucia lo stomaco, il passo da gazzella per non svegliarvi. E ora piangete, voi!
Io? Non ho più lacrime.
Dove sono finite le mie lacrime?
Forse le ho ingabbiate dove relego la rabbia? O forse ho capito la loro inutilità, la fragilità che farebbero emergere e che non posso più permettermi?
La fragilità è donna. Chi ha detto questa cagata?
La fragilità è donna, ripeto, infatti io sono fragile e spaventata.
Dio conta le lacrime delle donne, dice la Caballah, ma forse si è dimenticato di contare le mie.
La vostra adolescenza si incastra con la mia menopausa e forma un blocco unico, un groviglio inestricabile che nessun machete potrebbe tagliare. Voi avanzate, giovani barbari arroganti, facendo terra bruciata: la casa è un campo di battaglia, gli scontri più duri si susseguono intorno al tavolo della cucina. Digerire è un’impresa soprattutto quando al sugo si abbinano frecciate, critiche, malinconie adolescenziali che spengono ogni entusiasmo.
Siete egoisti voi giovani.
Vi difendete, dovete difendervi, emanciparvi da noi adulti.
Attaccate.
Aiuto!
Nessuno risponde.
Non so difendermi, voi l'avete già capito.



“ E’ esaurita? Non dorme? “ chiede il medico distrattamente, e la sua mano già riempie il foglio del ricettario, un ombra di fastidio nello sguardo.
Non voglio psicofarmaci, non ho bisogno di medicine, vorrei soltanto essere rispettata e amata. Chiedo troppo?
Sì, chiedo troppo.

sabato 3 maggio 2008

Le favole

Si arriva in un posto che concede ristoro: si beve, si mangia, ci si accoccola sul terreno per riposare e, soddisfatti i bisogni primari, emerge il desiderio del racconto, della storia. Il bisogno di sapere, di cercare “appartenenze” , radici, un passato che ci leghi, senza soluzione di continuità, al futuro, una carovana di persone e animali, di sangue e ferro, che attraversi il deserto della vita, animandolo.
E allora è al più vecchio che ci si rivolge e la storia fluisce dalle sue labbra come miele da un’arnia, prima che lui ceda al sonno.
Noi, improbabili eroi, guerrieri vulnerabili, uomini pavidi e tremanti riscaldati appena dal filo di fumo di un fuoco spento, immergiamo le mani nelle favole, mescoliamo le storie e sogniamo….